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  • Famiglia: il Parlamento delle emozioni.

    La famiglia non è solo il nucleo fondante della società. È anche la sua riproduzione in miniatura: più sincera, più rumorosa. Altro che casa dolce casa: qui si discute, si urla, si propone, si sospende, si approva, si disapprova. Ma soprattutto… si media. Ogni giorno si apre una nuova seduta parlamentare, con mozioni alzate e umori che precipitano. Anche se qualcuno rovescia il succo proprio sul documento più importante (e unico) mai stampato in casa. Il tavolo della colazione è la nuova Camera dei Deputati: ci sono mozioni di sfiducia genitoriale, emendamenti a promesse fatte la sera prima, decreti legge last minute tipo: “Dopo cena niente cartoni. Giuro.” A volte si procede a colpi di fiducia. Altre volte, si scioglie tutto prima ancora di cominciare. Nella stanza dei bambini si vota per alzata di voce. In cucina si presenta l’opposizione: “Ma io non mangio QUEL riso lì!” Nel bagno si combatte la guerra per il controllo dei tempi, un vero conflitto tra reparti: mamma in doccia, figlio che deve lavarsi i denti, papà che vorrebbe solo pace e silenzio. Il vero problema non è il caos. È l’assenza di una maggioranza stabile. I ruoli si mischiano a velocità record. Il genitore oggi è Presidente della Repubblica, domani portavoce dell’opposizione interna. Il bambino, invece, è contemporaneamente ministro dell’infanzia, capogruppo ribelle e sindacalista irriducibile: “Io sciopero la pappa!” La crisi è sempre dietro l’angolo. Lampo, ma intensa. Un “no” può diventare una rivolta. Una maglietta sbagliata può scatenare un referendum. Un “dopo” mancato, un golpe emotivo. Altro che buoni sentimenti e valori condivisi: qui ci sono correnti interne, voti di scambio, alleanze tattiche, leadership instabili. Nel grande emiciclo familiare, i ruoli sono chiari… o almeno così sembrano. C’è chi si crede il leader (spesso il componente più logorroico), ma alla fine nessuno governa davvero. Le decisioni si prendono per logoramento o per assenza di alternative. Il famoso “facciamo come dice tua madre” non è una resa: è un patto bipartisan per evitare l’insurrezione serale. Ma attenzione: non sempre la madre è la pacificatrice neutrale. A volte, è proprio lei a rimescolare le carte, a sabotare le alleanze, a creare un caos strategico in nome di un equilibrio superiore. Non per sadismo, eh! Per necessità. Perché sa che, in fondo, la pace è noiosa, e la quiete troppo lunga fa danni. Così, ogni tanto, lancia una frase ambigua (“Tanto qui nessuno ascolta mai”) e poi sparisce, lasciando i presenti a interrogarsi: ce l’aveva con me? Con tutti? Con sé stessa? Questa madre non media: sposta. Agita. Ridefinisce le geometrie familiari ogni giorno, come un premier senza maggioranza stabile che cambia coalizione in base al meteo o all’umore. È l’artefice del caos funzionale: litiga con uno, per far riavvicinare gli altri. Finge stanchezza per ottenere silenzio. Drammatizza per ottenere ordine. In fondo, governa per destabilizzazione. E funziona. Perché nessuno osa ignorarla. Il suo disappunto è il vero strumento di governo. Non fa colpi di Stato, ma sa generare piccoli terremoti domestici con la leggerezza di un colpetto dato alla tovaglia apparecchiata. Chi la chiama imprevedibile, chi troppo sensibile. In realtà è solo una stratega. Capace di rimescolare l’intero Parlamento familiare pur di evitare il peggio: la stagnazione. E se ogni tanto qualcuno sbotta con un “Ma che casini fai?”, lei risponde con una frase che è insieme manifesto e confessione: “Se non li faccio io, chi li fa?” I figli? L’opposizione naturale. Nati per contestare, affinati per negoziare, addestrati all’arte dell’ostruzionismo già nel grembo materno. Non importa se hanno 3 anni o 30: il principio è lo stesso. Se tu dici A, loro chiedono perché non B. Se cucini il loro piatto preferito, lo annusano con sospetto e ti chiedono: “Che ci hai messo?” Ti votano contro per principio, per spirito critico, o semplicemente perché è lunedì. Quello che un tempo era un semplice capriccio ora ha la forma di una mozione di sfiducia: “Se non mi compri i biscotti al cioccolato, io non mangio niente per tre giorni.” E guai a pensare che non sappiano trattare: conoscono perfettamente il valore di mercato del loro affetto, della loro collaborazione e persino del silenzio. Li concedono solo in cambio di qualcosa. Sono economisti emotivi in miniatura. Il vero problema, però, nasce quando si alleano tra loro. Fratelli e sorelle che fino a un minuto prima si lanciavano pupazzi in testa, improvvisamente si uniscono contro un nemico comune: il genitore che ha osato dire “no”. In quei momenti si forma una coalizione trasversale e potentissima, basata su un unico programma: ottenere quello che vogliono, subito. A quel punto il sistema entra in crisi. Le urla rimbombano come dichiarazioni di guerra, gli sguardi diventano interrogatori parlamentari, e tu, adulto, ti ritrovi a cercare compromessi disperati. Una riforma strutturale dell’educazione familiare? No. Serve qualcosa di più immediato. Serve un gelato. O un cartone animato. O la promessa, vaga e mai realizzabile, di “fare domani tutto quello che volete”. E se non funziona? Si convoca il comitato d’emergenza: “Aspettate che torna vostro padre.” Che è come dire: ora la palla passa a un altro ministero. Io ho dato. Ah, il padre. Figura mitica e ambivalente: a volte divinità silenziosa, altro sottosegretario senza delega. Un personaggio complesso. A seconda dei giorni (e dell’orario), può essere il Ministro della Difesa, il Capo dell’Opposizione, o il tecnico del suono che cerca disperatamente di abbassare il volume in aula. C’è il padre autoritario, che entra in casa come se fosse Montecitorio e subito pretende ordine, silenzio e rispetto delle regole. Ma dopo cinque minuti viene messo sotto con un “Papà ma mamma ha detto che…”. Poi c’è il padre moderno, quello che ci prova: fa le merende, cambia i pannolini, si commuove davanti ai disegni dei figli. Ma resta comunque una figura che si deve guadagnare il potere. Perché, si sa, la linea del comando è tracciata da chi sa dove sono le calze pulite, non da chi sa accendere la lavastoviglie se qualcuno glielo dice. Quando arriva a casa, il padre spesso non trova il Parlamento riunito, ma un campo di battaglia: pianti, pentole sul fuoco, giocattoli ovunque e una madre con lo sguardo di chi ha appena negoziato un trattato di pace col nemico armato. A quel punto, lui viene accolto come il rappresentante estero che forse può mediare, ma solo se si schiera con l’opposizione (cioè i figli), oppure se paga da bere (cioè porta la pizza). E quando osa prendere posizione? Inizia la tragedia greca. A quel punto, il padre capisce. Resta in aula, ma solo per prendere appunti. Magari farà un’interrogazione a risposta scritta. A Natale. Eppure, quando serve davvero, c’è. Come i senatori decisivi nei voti importanti: parla poco, ma quando alza la mano, si nota. Anche se poi, spesso, si pente e si astiene. Poi c’è la nonna. Figura sacra e inviolabile. È il senatore a vita che può rovesciare le sorti di un intero pomeriggio con una frase tipo: “A casa mia non si fa così.” Improvvisamente, cambia l’ordine del giorno. Si alzano le tensioni. Si ricorre alla diplomazia. Le cene? Sono sedute plenarie. Lunghissime, con interventi fuori tema, ordini del giorno modificati in corso d’opera, e mozioni affettive che sfociano in crisi isteriche. Il bagno, invece, è la vera sala dei bottoni: chi lo occupa, governa. E il compromesso? È l’arte suprema. Si fa finta di aver deciso insieme, quando in realtà si è solo evitata l’ennesima guerra lampo. Un equilibrio instabile, certo. Ma pur sempre un equilibrio. Perché, a ben vedere, anche nei litigi più accesi, la famiglia, come la democrazia, è un sistema che funziona solo se tutti, prima o poi, si siedono al tavolo. Anche se è per decidere chi ha nascosto il telecomando. Alla fine, la famiglia è davvero il Parlamento più onesto che ci sia: si litiga a microfono aperto, si stringono alleanze senza verbali ufficiali, si cade, si vota, si sbaglia, si ride. E si torna sempre a sedersi allo stesso tavolo, con gli stessi volti, gli stessi drammi e gli stessi abbracci. Niente garanzie, né immunità. Solo caos trasformato ogni giorno in un equilibrio provvisorio. Ma reale. Perché, a differenza della politica vera, qui nessuno può davvero cambiare partito. Al massimo, si cambia stanza. E anche quando il Parlamento familiare sembra implodere, basterà una carezza, una fetta di pane con la Nutella, o un “scusa” mormorato al buio per far ripartire la macchina. Fino alla prossima mozione di sfiducia, naturalmente. Ma si sa: è il bello della democrazia.

  • Profilazione affettiva non richiesta.

    La profilazione è un’arte. Lo fanno gli psicologi, gli investigatori… e noi, ogni giorno, senza nemmeno accorgercene. Lo facciamo quando diciamo “è fatto così”, quando anticipiamo una reazione prima ancora che si verifichi, quando pensiamo, con un misto di affetto e rassegnazione, “non cambierà mai”. Io l’ho fatto con chi conosco meglio: famiglia, amici, figli, anime complementari e disfunzionali che abitano la mia quotidianità come personaggi di una serie scritta da qualcun altro, ma diretta da me. Non è un censimento. Non è nemmeno un’indagine. È un atto d’amore, con una spruzzata di vendetta poetica, il piacere dolce-amaro di dire le cose come stanno… o almeno come le vedo io. Sette ritratti, sette schede emotive non richieste, costruite osservando tic, manie, meraviglie e contraddizioni. Uno più riconoscibile dell’altro — e non solo per chi li conosce. Se vi ci ritrovate: benvenuti, siete in buona compagnia. Se vi offendete: era ovviamente tutto inventato (ma lo riscrivo meglio, promesso). Profilo n.1: Adriano, il cambiologo statico Adriano è l’uomo delle transizioni annunciate. Parla di cambiamento come altri parlano del tempo: un argomento ricorrente, volatile, inevitabilmente inconcludente. Tre ore per decidere se uscire o meno, ma nel frattempo progetta di cambiare lavoro (oggi), casa (tra un’ora), città (domani). È l’uomo del “sì, mo vengo”, “sì, mo faccio”. Mo , però, è una categoria temporale tutta sua: può durare minuti, mesi, o un’era geologica, a seconda dell’umore e della pressione atmosferica. Adriano è legato alle sue abitudini come un soprammobile vintage a un mobile anni ’80: stona, ma non si tocca. E guai a sfiorargli il bar sotto casa. Quello no, quello è il suo confessionale laico, il suo posto nel mondo, l’unico punto fisso nell’universo che continua a voler ristrutturare. Non si accontenta della superficie. Ti sente anche quando non parli. Ha un’intuizione che spesso scambia per pigrizia, ma in realtà sta solo aspettando il momento giusto per sentire se è il caso. È un sognatore lucido, un creativo pigro, un idealista col magone. Ti guarda, ti ascolta, ti ama in silenzio. Poi si distrae, ma ti ha già capito. In fondo, è un poeta travestito da procrastinatore. Uno che salva il mondo nel tempo libero… sempre che trovi parcheggio. In poche parole: lo trovi dove l’hai lasciato, con mille idee! Profilo n.2: Mio padre, con pregiudizio intellettuale incorporato. Mio padre è un’enciclopedia di contrasti. Un po’ di tutto e tutto, rigorosamente, insieme. Ci sono i complotti, ovviamente. Qualcuno ce l’ha con lui, da qualche parte. È quasi un dato statistico. Ma c’è anche l’utopia: quella luce accesa in fondo, sempre, che lo fa sperare anche quando impreca. È speranzoso e critico, come un sognatore che ha studiato economia. Ha mille idee in contemporanea, e se gliene proponi una nuova, lui ti risponde: “Solo una?” Vive di tutto o tutto e subito, ma con la lentezza controllata: determinato, concreto, e testardo con criterio. Non molla mai una battaglia (nemmeno quelle inventate) perché se qualcosa gli entra in testa, lì resta. Ha valori incrollabili, radici profonde, e un’adorazione per la bellezza: può discutere per ore su un’idea, un paesaggio o un pezzo di formaggio. Ma attenzione: è anche un razzista cognitivo. Non nel senso comune (ci mancherebbe), ma nel suo modo molto personale di dividere il mondo tra “quelli che capiscono” e “quelli che no”. Se non reggi il confronto dialettico, sei fuori. Dici una banalità? Cancellato. E se non credi che l’intelligenza emotiva sia la chiave per evolversi… preparati a una dissertazione di due ore con grafici, forse. Alla fine, però, sotto i complotti e i proclami, c’è uno che ama sul serio. A modo suo. Con forza, senza pausa, e con una soglia di tolleranza altissima per le follie di chi ama davvero. In poche parole: un pensatore instancabile con lo spirito da rivoluzionario… purché tu sia all’altezza del dibattito. Profilo n.3: Mia madre, la sovrapposizione Mia madre è l’emblema. Punto. Buona e sorridente, ma anche capace di farti passare dalla parte del torto in meno di due battute. Non si fa mai i fatti suoi. Ma non per cattiveria, eh: è che i tuoi fatti, lei li sa spiegare meglio di te. E in fondo, lo fa per aiutarti. Pianifica la tua vita come se fosse una sua to-do list: dalla scuola dei bambini alla gestione del raffreddore passando per il caffè, che non si prende, ma si incastra nel flusso ottimale della giornata. Ti propone qualcosa? Di’ “no” e aspetta. Aspetta che il mondo smetta di girare, le piante appassiscano e il cielo diventi nero. È fatta così: empatica, coinvolgente, ma soprattutto convincente per sfinimento. È una mente multitasking, un radar emotivo in perenne aggiornamento. Un sottofondo costante che, alla fine, è la tua certezza. Perché se è vero che ti sfinisce, è altrettanto vero che ti salva. E spesso, con lo stesso tono. In poche parole: ama, organizza, anticipa. E se non sei d’accordo, sei solo confuso (secondo lei). Profilo n.4: Mio fratello, l’equilibrio instabile Ah, mio fratello… Qui non servirebbe un paragrafo, ma una collana editoriale: psicologia applicata ad un “essere” vivente. Diplomatico quanto basta per litigare con eleganza, indeciso con tale grazia da far sembrare ogni esitazione una scelta di stile. Si muove tra armonia e caos con l’andatura di un equilibrista che, mentre cammina sul filo, ti corregge la postura. È capace di cambiare idea tre volte in un discorso, e di avere comunque ragione (o almeno di fartelo credere). Vive in un eterno “ni”, dove il sì è timido e il no è un dramma esistenziale. Ma se ami il teatro dell’anima, mio fratello è protagonista, regista e pubblico insieme. In fondo, lo capisci solo se sei nato dalla stessa madre… e hai avuto lo stesso caffè pianificato per sbaglio. Ama il bello, i dettagli, l’armonia nei gesti. Ma dentro è una battaglia continua tra ciò che sente, ciò che pensa, e ciò che non vuole dire. In poche parole: ti farà arrabbiare con classe, ma ti vuole bene con onestà. Profilo n.5: Mia nonna, con carte in mano e memoria d’Archivio. Mia nonna è la classica borghese napoletana. Foulard impeccabile, anello con pietra vistosa, e uno sguardo che sa esattamente quello che hai fatto anche se non lo sa. L’amore per la famiglia (a patto che non la contraddica), la devozione assoluta (condita con ammonizioni passive), e una memoria che batte qualunque hard disk, a quasi 90 anni, gestisce ancora le sue bische del lunedì con la puntualità di una riunione ministeriale. Bridge, dolcetti secchi e aggiornamenti. Tutto clandestino, tutto organizzato meglio di una festa patronale. Con lei non si scherza: cucina il passato, serve il futuro, giudica il presente in un solo sguardo. È affettuosa, certo. Ma secondo le sue regole. Ti ama profondamente, ti protegge a distanza ravvicinata… e non dimentica nulla. È la matriarca, la regina del silenzioso “l’avevo detto io”, la colonna portante dell’intera narrazione familiare. In poche parole: novant’anni, mille ricordi. Una sola certezza: la famiglia è sacra, e le carte si danno solo quando lo decide lei. Profilo n.6: Federica, con nuvola incorporata Federica non è un’amica. È una sorella acquisita, una costellazione stabile in un cielo spesso instabile. Ha uno sguardo che va oltre e un cuore che sembra distratto ma registra tutto. L’ha attraversata un rumore, uno di quelli che cambiano la traiettoria interna. Eppure è rimasta in piedi, o meglio, ha imparato a camminare sulle crepe con la grazia di chi sa dove non mettere il piede. Ogni volta che la vita le regala qualcosa di bello, puntuale arriva anche la tragedia che incombe. Non è sfortuna: è il suo equilibrio naturale. Una gioia piena sarebbe troppo semplice. Ride con gli occhi lucidi, abbraccia senza stringere, protegge senza invadere. Ti capisce prima che tu parli, e se taci, resta. Non se ne va. Mai. È la persona che resta quando tutto crolla. Anche se nel frattempo, ovviamente, ha dimenticato le chiavi. In poche parole: ti salva a modo suo con una frase assurda, una risata spezzata e una presenza che non chiede permesso. Ma c’è. Sempre. Profilo n.7: Alberto e Giordana, esseri in divenire (con DNA infiammabile) Loro sono ancora in fase di definizione. Un po’ bambini, un po’ prototipi futuristici. Ma già si vede: hanno tra il 70 e il 90% dei miei geni, il che spiega molte cose. Tipo il volume. E le battute sarcastiche a colazione. Alberto ha lo sguardo di chi comanda senza gridare. È coraggioso, testardo, teatrale quanto basta e con un senso della giustizia tutto suo, che si applica solo quando lo decide lui. Sa essere leader anche in pigiama, guida spedizioni verso la cucina con lo stesso carisma di un generale, e se qualcosa non va… si indigna con grande dignità. Ha un cuore enorme che però custodisce con orgoglio felino. Ti abbraccia se sei triste, ma solo dopo aver controllato se ne vale la pena. Giordana è la cometa: arriva, illumina, dice tutto (anche quello che stavi cercando di evitare) e poi riparte verso nuove scoperte, tipo il cassetto dei cucchiaini o il mistero del perché il cielo è blu. Ha una libertà interiore incontenibile e un ottimismo da guerriera: se cadi, lei ti dice “tanto lo rifacciamo meglio”. Ama, urla, inventa, corre. E ogni tanto si ferma. Ma solo se la corrompi.  Sono diversi, complementari, incendiari. Hanno preso molto da me. E per fortuna, anche qualcosa che mi supera. In poche parole: stanno crescendo. Ma già fanno rumore, luce, e rivoluzioni in formato mignon. Se è vero che chi profila… si rivela, allora eccoci qua. In mezzo a queste persone che amo e che a volte mi esasperano c’è anche il mio riflesso. Mi riconosco nelle indecisioni di Adriano, nella furia razionale di papà, nell’invadenza coreografata di mamma, nei silenzi eleganti di mio fratello, nelle cicatrici gentili di Federica, nelle bische emotive di nonna e nelle rivoluzioni giocose di Alberto e Giordana. Sono una miscela instabile e rumorosa, con il vizio di osservare troppo, di sentire tutto, e di raccontare anche quello che non serve ...o meglio, che serve a me! Non sono oggettiva. E non mi interessa esserlo. Li ho descritti come si fa con i luoghi del cuore: esagerando, sorridendo, proteggendoli anche quando li prendo in giro. Perché l’ironia, in fondo, è il mio modo preferito per non scappare. E forse, scrivendo di loro, ho fatto quello che in fondo mi riesce meglio: parlare di me… senza mai mettermi in mezzo, ma lasciandomi intravedere in ogni riga. Profilare è un’arte. Ma farlo con chi si ama è soprattutto un modo per restare. E io, con loro, resto. Anche quando cambio forma.

  • Gemelli: cambiamenti in arrivo. Spoiler, compi gli anni!

    Ho letto un articolo sull’oroscopo dei Gemelli. Diceva: “Grandi cambiamenti in arrivo”. Un brivido. L’universo mi parla? Un colpo di scena karmico? Un viaggio intercontinentale? No. Semplicemente, inizia il periodo dei Gemelli. E quindi… compi gli anni. E quindi… cambi età. E quindi… ecco il grande cambiamento: la candelina in più. Ma quanto siamo disposti a farci infinocchiare da frasi generiche che, guarda caso, si azzeccano proprio ora? Del resto, è geniale nella sua semplicità: ogni segno entra nel proprio periodo… e ogni segno legge “grandi cambiamenti in arrivo”. Chiariamo: l’unico vero cambiamento, spesso, è il numero che scatta su Facebook tra gli auguri di zii, ex compagni di scuola e brand che ti mandano lo sconto compleanno. Facciamo chiarezza: io credo nella metafisica, credo nelle profezie, negli occhi addosso, nei sogni che parlano, nelle giornate storte che iniziano con la tazzina rotta e finiscono con qualcuno che ti dà buca. Credo nei messaggi nascosti nelle coincidenze, nei numeri che ritornano, nei segni che si fanno leggere solo da chi ha ancora la vista interiore. Ma non credo nell’oroscopo. Non quello che trovi su sfondo glitterato e la frase che potrebbe adattarsi a chiunque. Non quello in cui ti dicono che “il momento è giusto per fare un passo avanti”, quando in realtà ti sei appena fatto indietro perché ti sei ricordato che hai dimenticato il PIN della Postepay. Gli oroscopi funzionano per lo stesso motivo per cui funzionano le canzoni tristi quando sei triste: perché parlano in modo abbastanza vago da sembrare precisi. È il classico effetto “leggimi nella mente” che in realtà è un “leggimi nella media”. Abbiamo bisogno di qualcuno che ci dica che tutto andrà bene, che siamo sulla strada giusta, che il nostro momento sta arrivando. Anche se magari siamo fermi al semaforo da sei mesi. È umano. Ed è per questo che gli oroscopi continuano a spopolare. Lungi da me fare la cinica: non penso che chi scrive oroscopi voglia ingannare nessuno. Penso che offra una carezza preconfezionata. Un abbraccio tipografico. Una botta di “anche tu sei speciale” nel mezzo di una giornata grigia. E funziona, proprio perché è flessibile: tu ci leggi ciò che vuoi. Chi cerca prove nell’oroscopo, però, non ha capito di cosa si tratta. L’astrologia non è (solo) una disciplina esoterica. È una forma arcaica di organizzazione del mondo. L’oroscopo è un rituale simbolico. Una finestra settimanale, mensile o quotidiana in cui l’essere umano prova a dare un senso a ciò che vive. Lo trovi sul giornale accanto al meteo, in TV tra l’oroscopo di Paolo Fox e la pubblicità dei materassi, nelle chiacchiere di una parrucchiera o nelle raccomandazioni della zia che si affida al segno lunare. Non importa che tu ci creda davvero: l’oroscopo è un rito collettivo. L’astrologia, vista con sguardo antropologico, è una delle più antiche forme di narrativa simbolica collettiva. Non è nata per dirti se oggi riceverai una mail importante, ma per trovare un senso nei cicli della vita. Nasce quando l’uomo comincia a guardare il cielo e a chiedersi: “E se lassù ci fosse la spiegazione di ciò che accade quaggiù?” È un bisogno profondamente umano: mappare il caos. Leggere lo spazio-tempo come se fosse una partitura cosmica. Gli antichi babilonesi leggevano il cielo come un testo sacro. Gli egizi associavano le stelle al destino dei faraoni. In India, l’astrologia vedica è ancora oggi una guida fondamentale per matrimoni, nomi, viaggi, decisioni. In Cina, l’astrologia non è personale, è ciclica. Sei nato sotto un animale che ritorna ogni 12 anni, ma ciò che conta è l’energia che scorre tra il tuo corpo e il tempo. Nel Giappone tradizionale si parlava di kisetsu, le stagioni interiori. Non ti chiedevi che cosa succederà domani, ma come stare dentro ciò che sta già accadendo. E se in Occidente usiamo l’oroscopo per prevedere il futuro, in Oriente si preferisce ascoltare il presente. Questa è la differenza: in Occidente l’oroscopo vuole prevedere. In Oriente l’astrologia armonizza. Nella cultura cinese, ad esempio, l’astrologia si basa su cicli lunari, animali archetipici e flussi di energia (Qi). Il calendario cinese è ciclico, non lineare: si ripete ogni 12 anni, perché la vita non è una freccia, ma un cerchio che respira. Nel Giappone antico, il tempo era legato ai ritmi della natura, agli spiriti del giorno e alle stagioni interiori. Lo stesso I Ching non ti dice “cosa succederà”, ma “che tipo di energia stai attraversando” e come armonizzarti al movimento delle cose. Non predice: accompagna. Non ti comanda: ti chiede di osservare, riflettere, partecipare al ritmo del divenire. Che si tratti di oroscopo, tarocchi, carte astrologiche, caffè versato o nonna che ti sogna con l’abito nero: tutte queste pratiche rispondono allo stesso bisogno millenario di dare un senso al presente. Capire in che punto della storia ci troviamo. Non per manipolare il futuro, ma per abitarlo con più consapevolezza. Siamo animali narrativi: abbiamo bisogno di raccontarci qualcosa per sopportare ciò che accade. Non ci interessa se è vero o falso: ci interessa che abbia un senso. E l’oroscopo con i suoi “attenzione alle discussioni”, “favoriti i viaggi”, “giornate intense”, ci dà una mappa del caos. Una cornice per interpretare quello che altrimenti sembrerebbe solo un lunedì complicato. Forse i grandi cambiamenti non arrivano con Saturno contro. Forse arrivano quando decidi di rispondere a una telefonata che stavi evitando. O quando smetti di dire “tanto è sempre così”. Forse il tuo oroscopo è in quella frase che hai sottolineato distrattamente in un libro mesi fa. E che oggi, riletta per caso, ti sembra scritta proprio per te.

  • Mamma leva muto!

    Sui social ormai non si contano più: caroselli di screenshot, reel con audio remixati, compilation di mamme che rispondono “ok” a messaggi da 12 righe, papà che confondono l’emoji del fuoco con quella dell’aperitivo, nonne che scrivono “Baci” a fine messaggio come fosse una cartolina spedita da Lourdes. È la moda del momento: ridere del divario comunicativo tra generazioni, versione digitale. Una forma di amore tradotto male. WhatsApp, che doveva avvicinare le famiglie, si è trasformato in una zona di guerra semiotica. Il figlio scrive: “Tra un po' arrivo…Vengo a mangiare da te.” La risposta è: “tra sei settimane si deve portare il cane a fare la toilettatura” seguito da un adesivo con un lama che balla. Fine della conversazione. È divertente, finché non tocca a te. Perché quando sei tu a cercare di spiegare un’azione logica a tua madre (tipo: chi prende chi, dove va il cane e in quale sequenza temporale) e ti ritrovi sottoposta a un interrogatorio più serrato di quello della DIA, allora capisci che non è solo un meme. È la vita vera. Con un’unica certezza: non siamo figli, siamo interpreti simultanei. La mia chiamata tipo, capitolo unico, ripetuto ogni giorno? Dieci secondi fa ho detto questa frase al telefono con mia madre: "Quando papà scende per prendere Giordana, si porta anche Alberto, così insieme ad Alberto porto Bolt a casa e poi andiamo al basket." Semplice, lineare. Con soggetti, verbi, un nesso logico temporale e un finale sportivo. La reazione di mia madre? Silenzio. Poi: “Ma quindi Bolt dove va?” E dopo: “E io che devo fare?” Seguita da: “Ma tuo padre lo sa?” Infine, l’interrogatorio grammaticale stile prova INVALSI per madre quasi in pensione: “Scende chi? Perché lo porta chi? Ma il cane è con te o con tuo padre?” E niente. Mi ritrovo ogni volta a rispiegare l’ovvio con la pazienza che non ho, mentre mi domando se nella prossima vita posso rinascere con sottotitoli incorporati. E non è solo al telefono. È l’uso di WhatsApp a diventare una performance tragicomica. Messaggi come: "Ho visto il tempo brutto domani." (senza contesto) "Quello che avevamo detto ieri... boh" (???) "Tuo padre dice che no." (ma a cosa?) A volte penso che ci sia un accordo segreto tra genitori per destabilizzare i figli attraverso la comunicazione passivo-incomprensibile. Tipo club dei messaggi misti, con tanto di statuto: Art. 1: mai rispondere alla domanda fatta. Art. 2: se il messaggio è chiaro, inviare un vocale di 1’34’’ pieno di rumori ambientali. Art. 3: quando sei al telefono, fare domande solo su dettagli irrilevanti. Alla fine della chiamata, dopo tre riletture, quattro chiarimenti e un messaggio riepilogativo con punti elenco, l’unica cosa chiara è che Alberto ha mangiato, Bolt ha rubato qualcosa e mio padre è da qualche parte. Eppure funziona così. Funziona con un linguaggio tutto nostro: imperfetto, ma pieno d’affetto. La verità è che non serve capirsi alla perfezione per volersi bene. C’è amore anche in quella ripetizione esasperata, in quel “che devo fare io?” detto e ridetto, anche quando la risposta resta: “Niente, mamma.” E allora ok, facciamo pure i sottotitoli. Rendiamogli la vita facile, traduciamo. Perché, in fondo, non è davvero colpa loro se non ci riescono. Non sono nati con uno smartphone in mano, e nemmeno con la fibra ottica nell’anima. Anzi, forse è colpa nostra che viaggiamo troppo veloci, che diamo per scontato che “mandami la posizione” sia una frase comprensibile anche a chi ha imparato a digitare con l’indice destro e lo sguardo diffidente. Il divario digitale non è solo questione di tecnologia, ma di ritmo, di linguaggio, di abitudini. Noi scorriamo, loro cercano di capire dove si clicca. Noi parliamo per emoji, loro cercano ancora il punto esclamativo sulla tastiera. Eppure, ci incontriamo.... a metà strada, tra un “Non mi funziona WhatsApp” e un “Ti ho scritto su Instagram… ah no, era tuo fratello.”

  • Il vocabolario segreto edizione bilingue.

    In casa mia si parla italiano. Ma anche una lingua a parte: il bambinese creativo, una miscela di logica infantile, poesia domestica e geniale anarchia fonetica. Non servono traduttori, basta il cuore. E una certa dimestichezza con grattugie, draghi immaginari e acqua “lissa”. Non è un dizionario che si trova in libreria. Non ha definizioni standard né regole grammaticali. Ha suoni che si rotolano sulla lingua, significati che nascono nei corridoi e in cucina, e una logica tutta loro: quella dell’infanzia. Lo parlano fluentemente in due. Io, ogni tanto, traduco. Ma più spesso, ascolto con stupore. Perché il loro linguaggio è un’opera d’arte quotidiana, un atto creativo spontaneo che smonta il vocabolario ufficiale e ne costruisce uno migliore: più musicale, più diretto, più umano.   Ecco alcune voci fondamentali del nostro dizionario domestico: grat·tu·già·no /ɡratːuˈdʒaːno/ sostantivo maschile Versione potenziata e mitologica della grattugia. Utensile sacro che fa piovere parmigiano sui piatti, trasformando anche la pasta più scotta in una festa. Presente in ogni cucina in cui il formaggio è religione. Nota d’uso: oggetto spesso perso nel caos del cassetto, ma evocato con la stessa urgenza di un incantesimo salvavita.   Har·ry Còt·ter /ˈarri ˈkɔtter/ nome proprio – categoria: eroi domestici immaginari Il mago con la cicatrice, versione affettiva e non negoziabile. Non importa come si scriva nei libri: lui è Harry Cotter, punto. Guai a correggere: qui non si cercano nomi esatti, ma mondi evocati. Cotter è colui che fa volare le scope, lancia incantesimi, e soprattutto vive in un universo parallelo dove le mamme non dicono mai di no alla Nutella. Nota d’uso: ogni tentativo di dire “Harry Potter” verrà ignorato con sguardo severo e tono da piccolo insegnante di Hogwarts.   pu·ràn·chio /puˈrankjo/ espressione partecipativa – solidarietà immediata e inclusiva Forma affettiva e compatta di “pure anche io”. Il puranchio non è solo una richiesta: è un manifesto di appartenenza . È il grido con cui ci si inserisce in qualunque azione, evento o desiderio altrui, dalla merenda al bagno. Dichiarazione ufficiale di fratellanza, complicità e urgenza non negoziabile. Nota d’uso: gli adulti fingono di non capirla. Ma lo fanno solo per evitare di dividere il gelato. Prequel affettivo di “pure anche io” : àn·che tiù  /ˈanke ˈtju/  - espressione affermativa; adesione entusiasta. Prima di “puranchio”, abbiamo attraversato la fase dell’ “anche tiù”: formula compatta, decisa e vagamente internazionale per dire anch’io ci sono. Un’espressione che mescola l’italiano, l’inglese e il bisogno primordiale di essere inclusa, subito. È partecipazione con sentimento. sci·lò·go /ʃiˈlɔɡo/ sostantivo maschile (anche azione implicita) Lo scivolo, ma con più coraggio dentro. È l’unione perfetta tra scivolo e slancio, tra voglia di volare e prudenza istintiva. Lo scilogo non è solo un gioco: è una sfida personale, una prova di fiducia, un piccolo volo in discesa. Dentro questa parola ci sono il brivido, la risata e quella richiesta sottintesa: “Mamma, fammi volare… ma non troppo.” Nota d’uso: nessun bambino lo chiama "scivolo" dopo aver provato a dire "scilogo". E, onestamente, funziona meglio anche in poesia.   ca·làl·lo /kaˈlallo/ sostantivo maschile – mitologia infantile Il cavallo, ma potenziato dalla fantasia. Il calallo è destriero, compagno, mezzo di trasporto immaginario e alleato nelle fughe emotive. Può essere di plastica, peluche, carta o puro spirito. Non si limita a nitrire: galoppa dentro le storie, sfida i draghi e porta in salvo chiunque stia per scoppiare in lacrime. Nota d’uso: i l calallo arriva sempre al momento giusto. Anche quando nessun adulto lo vede.   àc·qua lìs·sa /ˈakwa ˈlissa/ sostantivo femminile – idratazione consapevole L’acqua nella sua forma più pura e rassicurante. La lissa non pizzica, non sorprende, non tradisce. È l’acqua che si può bere a secchiate senza rischiare reazioni drammatiche. È l’acqua degna di fiducia. Qui la si pretende. E se per errore le versi “quella che punge”, ti fissa come se stessi attentando alla sua integrità orale. Nota d’uso : in certe fasi della vita, distinguere tra acqua liscia e acqua con le bolle è una questione esistenziale.   prèn·di al làn·cio /ˈprɛndi al ˈlantʃo/ espressione verbale – invito sportivo poetico Forma creativa di “prendi al volo”. Tutto è più epico se c’è un lancio . Che si tratti di una merendina, un pallone o un pupazzo lanciato dal divano, l'importante è acchiapparlo in aria con prontezza e onore .“Prendi al lancio!” è il comando, l’inizio di ogni missione dinamica. Nota d’uso: più che una frase, è una filosofia. Perché nella vita, o prendi al lancio… o ti tocca raccogliere da terra.   bi·bè /biˈbɛ/ sostantivo maschile – sanitario alternativo e versatile Il bidet, ma con stile. Il bibè è l’oggetto più misterioso del bagno. Viene chiamato con tono elegante, quasi francese, come se fosse un accessorio da boutique e non un sanitario. Non lo si usa (quasi) mai per quello che è: per i bambini è trono, lavandino basso, vasca per dinosauri, piscina per Barbie, stazione spaziale. Un simbolo di libertà idraulica e fantasia sfrenata. Nota d’uso: per gli adulti è spesso dimenticato. Per i bambini, è il centro gravitazionale del bagno.   zà·jon /ˈdzajon/ sostantivo maschile – contenitore epico da viaggio infantile Versione sonora e internazionale dello “zaino”. Il zajon non è solo uno zaino: è un compagno di scuola, un marsupio per tesori, una corazza quotidiana. Dentro ci puoi trovare di tutto: un panino a metà, sassolini, un dinosauro di plastica, e almeno un segreto. Il nome sembra venire da una lingua straniera. Nota d’uso: il zajon è sempre troppo pesante, troppo pieno o troppo perso. Ma guai a sostituirlo.   coc·chià·li /kokˈkjali/ sostantivo maschile plurale – accessorio evolutivo Gli occhiali, ma con più coccole e meno ottica.I cocchiali non servono per vedere meglio, ma per essere meglio . Si indossano al contrario, sul naso del pupazzo o sopra il pigiama. Sono travestimento e dichiarazione d’identità. Nota d’uso: ogni bambina dovrebbe averne almeno un paio. Non per vederci chiaro, ma per farsi vedere .   chè fifo /ke ˈfifɔ/ esclamazione infantile – disgusto estetico e olfattivo Versione emozionale e tenera di “che schifo”. Può essere qualsiasi cosa: una macchia, un odore, un cibo sospetto, un insetto con troppi occhi. È l’espressione ufficiale del rifiuto, ma con grazia. Nota d’uso: il fifo, una volta dichiarato, va immediatamente rimosso. O verrà esiliata l’intera area. Mi sono chiesta spesso se registrare tutto, conservare ogni storpiatura, farne un libro illustrato o un poster da tenere in cucina. Poi ho capito: non serve. Queste parole vivono nel tempo breve dell’infanzia, come certe favole o certe magie. Ma proprio per questo sono importanti. Sono il modo in cui i miei figli mi hanno insegnato a “ dire diversamente il mondo” . Poi, ovviamente, è tutto da correggere dalla logopedista. Ma almeno con materiale di altissimo valore narrativo!

  • Il conclave e il potere dei riti. Quando il sacro prende parola.

    C’è un momento, quando il mondo aspetta il fumo bianco, in cui anche il più ateo degli spettatori sente un brivido. Come se, per un istante, tutto fosse sospeso in una sacra incertezza. Nessuna breaking news, nessuna previsione, solo attesa e rito. Ed è lì che il tempo cambia ritmo. Diventa solenne, simbolico, quasi mitico. Perché il conclave è molto più che una riunione. È una messa in scena del mistero. E come tutti i riti (religiosi, civili, personali) ci affascina per una ragione profonda: ci ricorda che siamo fragili, ma anche capaci di dare senso. Quando tutto sembra disordinato, il rito interviene come un gesto di ordine collettivo. Ogni fase, ogni parola, ogni pausa ha un posto. L’antropologo Arnold van Gennep lo diceva chiaramente: il rito segna i passaggi chiave dell’esistenza (nascere, diventare adulti, sposarsi, morire) offrendo una grammatica simbolica dell’esperienza umana. Nel conclave, quel passaggio è doppio: si celebra la fine di un pontificato e l’inizio di un altro. Si elabora un lutto, ma anche una rigenerazione. Non si tratta solo di scegliere un uomo. Si tratta di scegliere un destino. E questo vale per ogni rito: anche un funerale, una laurea, una nascita sono tentativi di mettere in scena l’invisibile. Di dire, con i gesti, ciò che le parole non sanno spiegare. I riti parlano il linguaggio del corpo e del tempo. Il corpo si inchina, cammina in processione, indossa abiti speciali. Il tempo rallenta, si ripete, diventa circolare. Nel conclave, i cardinali camminano sotto gli affreschi della Sistina, votano in silenzio, bruciano le schede. Tutto è gesto. Ed è proprio questo che manca spesso nella modernità: l’esperienza incarnata del significato. Nel rito c’è una forma di obbedienza creativa: non si fa qualcosa “perché sì”, ma perché quel gesto contiene la memoria del mondo. È come recitare un poema che non abbiamo scritto, ma che parla anche di noi. Non serve una religione per avere bisogno di riti. Anche la modernità ne ha inventati di suoi: la firma di un contratto, il taglio del nastro, il brindisi, l’inaugurazione, il voto, il primo giorno di scuola. Sono momenti in cui la vita cambia ritmo, si fa evento, entra nella dimensione del riconoscimento. Il rito dice: “Questo è importante. Fermati. Guarda. Ricorda.” Ed è proprio questo che perdiamo quando viviamo tutto come routine, o come performance. I riti non servono per apparire, ma per stare. Per attraversare, per connettere. Per rendere il tempo abitabile e memorabile. Oggi molti riti si svuotano, diventano meccanici o commerciali. Si celebrano matrimoni senza amore, lauree senza passione, funerali senza commiato. Altri spariscono del tutto: quanti giovani non hanno più “riti di passaggio” veri? Nessun momento che segni la soglia tra un prima e un dopo. Eppure, senza riti, non sappiamo più attraversare le soglie. Rischiamo di restare eternamente “in mezzo”, spaesati. È qui che il conclave ci interroga. Nella sua lentezza, nella sua serietà, nel suo “teatro sacro”, ci chiede: “E tu? Dove celebri i tuoi passaggi? Chi ti accompagna? A chi chiedi di aspettare con te il fumo bianco?” C’è una cosa che i bambini piccoli ci insegnano, ogni giorno: non esiste crescita senza rito. Un bambino non vuole “fare colazione”. Vuole fare colazione come sempre: con la stessa tazza, nello stesso posto, con la canzoncina preferita o il gioco che si ripete. Vuole i gesti che conosce, anche quando si ribella. Perché il rito, per un bambino, è sicurezza, ritmo, confine tra il dentro e il fuori. E ogni genitore lo sa: basta cambiare un piccolo dettaglio (una parola detta in fretta, una carezza dimenticata) e la giornata può incepparsi. Perché i riti dei bambini sono silenziosi ma potenti, e ci dicono che non è solo “fare”, ma come si fa, che crea connessione. Nel sonnellino, nel racconto della buonanotte, nel modo in cui si indossano le scarpe, il rito è il ponte tra il caos del mondo e l’ordine dell’amore. È la poesia dell’abitudine. Spesso si confondono. Entrambi si ripetono, entrambi abitano la quotidianità. Ma il rito e l’abitudine non sono la stessa cosa. L’abitudine è automatica, nasce per comodità o per necessità. Ti lavi i denti ogni mattina, ma potresti farlo pensando ad altro. Non c’è attenzione, né intenzione: è un gesto appreso, quasi meccanico. Il rito, invece, è carico di significato. Può essere identico all’abitudine nel gesto, ma diverso nella consapevolezza. Quando diventa rito, quel gesto dice qualcosa, apre uno spazio simbolico. Ti lavi i denti prima di andare a dormire? Bene. Ma se lo fai sempre accompagnando tuo figlio, nello stesso momento, con la stessa canzone, con uno scambio di sguardi, allora lì non è solo igiene, è connessione. È un piccolo rito di chiusura della giornata. Il rito trasforma il tempo in esperienza. L’abitudine scorre. Il rito trattiene. Ecco perché i riti, a differenza delle abitudini, aiutano a marcare i passaggi, a dare senso, a elaborare emozioni. A scuola, fin dal nido, i miei figli vivono ogni mattina un piccolo rito che chiamano “la magia della merenda”. Si mettono in cerchio, si aspettano, si guardano. È un momento semplice, ma ha qualcosa di solenne. Nessuno mangia da solo, tutto comincia insieme. C’è un prima (il cerchio), un durante (la condivisione), un dopo (il ritorno al gioco). E nel mezzo, la magia: uno spazio protetto in cui il tempo cambia ritmo, e il cibo diventa occasione di relazione. Questo rito non serve solo a nutrirsi: nutre l’ordine interiore, la sicurezza affettiva, la capacità di stare con gli altri. I bambini lo capiscono senza bisogno di spiegazioni. Sentono che quella ripetizione ha un senso. E se un giorno salta o viene interrotta, qualcosa si spezza. Perché il rito non è solo quello che si fa, ma come lo si fa. E con chi. Il conclave è un messaggio potente in un mondo svuotato di simboli. Ecco perché colpisce anche chi non è cattolico: perché ci mette davanti a un’altra idea di potere, di tempo, di sacro. E mentre fuori il mondo urla, corre e si commenta da solo, dentro la Sistina si vota in silenzio, si brucia carta, si attende il fumo. Il messaggio è chiaro anche per chi non crede: la ritualità non è solo conservazione. È resistenza. È memoria attiva. È un linguaggio alternativo al consumo e alla superficialità. In un mondo che corre, fermarsi è un atto politico. Ed è per questo che il conclave affascina il mondo intero: perché mette in scena un’altra idea di potere, di tempo e di comunità. Un rito che non vuole piacere. Ma che, proprio per questo, rimane impresso. In un tempo che consuma, ripetere con senso è una forma di resistenza. Ritrovare i riti nella scuola, nella famiglia, nella città, nella politica, significa restituire dignità alle transizioni, ai legami, alla vita stessa. Significa dire che non tutto può essere algoritmo, prestazione, risultato. Che esistono ancora gesti che non si monetizzano ma si ricordano. E che proprio quelli, forse, sono i più importanti. Se anche una merenda può essere una magia, allora possiamo immaginare una società in cui la cura dei dettagli, delle soglie, delle comunità diventi il nuovo centro. Perché un buon politico, un buon cittadino, un buon essere umano non corre avanti. Sa fermarsi. Sa guardare il cerchio. E sa cominciare insieme.

  • Istituto Antonio Serra Napoli: quando i tagli diventano abbandono.

    Napoli – Istituto Antonio Serra, anno scolastico 2025-2026. Dodici studenti, regolarmente iscritti al liceo linguistico con seconda lingua spagnola e terza lingua cinese, rischiano di vedere interrotto il loro percorso formativo. L’ufficio scolastico regionale, infatti, non ha autorizzato la formazione della classe terza per quell’indirizzo, unico nella città di Napoli. Una decisione che ha il sapore amaro dei tagli travestiti da razionalizzazione. Il provvedimento mette in discussione non solo la continuità didattica, ma soprattutto il diritto allo studio di ragazzi e ragazze con storie e fragilità ben precise: una studentessa con disabilità motoria per la quale la vicinanza della scuola è essenziale, un’altra ragazza seguita da un percorso psicologico, un’atleta agonista che necessita di equilibrare studio e allenamenti, e diversi studenti stranieri per cui lo studio delle lingue è strumento di inclusione e riscatto. L’indirizzo spagnolo-cinese del Serra non è replicabile facilmente altrove: le alternative si trovano fuori città, rendendo la frequenza proibitiva per molte famiglie. Il trasferimento forzato ad altri indirizzi implicherebbe il recupero di due anni di contenuti mai affrontati, con gravi conseguenze emotive, logistiche e didattiche. Un indirizzo che rappresenta un unicum nella città di Napoli: un’offerta formativa rara e preziosa, strategica in un contesto sempre più globale, che unisce le lingue più parlate al mondo e apre reali opportunità nei settori del turismo, del commercio internazionale e dell’intermediazione culturale. Le famiglie, insieme alla scuola, chiedono con forza che la decisione venga rivista. Non è solo una questione burocratica, ma di giustizia educativa. L’istituto Serra non è un caso isolato, ma il simbolo di un sistema scolastico che, sotto la pressione dei bilanci, rischia di dimenticare il suo compito più importante: non lasciare indietro nessuno. Come scrive una docente sui social, “lo chiamano risparmio, noi lo chiamiamo abbandono”. È tempo che le voci di questi ragazzi siano ascoltate, e che il diritto all’istruzione non venga sacrificato sull’altare della razionalizzazione amministrativa. Li ho conosciuti. E ora non posso tacere. Li ho visti tra una presentazione in PowerPoint e un esercizio di storytelling, tra una timidezza iniziale e una grinta che piano piano prendeva forma. Durante il mio percorso di PCTO con loro, non ho incontrato semplici “studenti di un indirizzo linguistico”: ho incontrato voci, volti, sogni. Ragazzi e ragazze che hanno scelto un indirizzo difficile, certo, ma ricco di senso. Che studiano spagnolo e cinese non per fare colpo sul curriculum, ma per aprire mondi, superare confini, costruirsi un futuro. C’era chi arrivava in classe sempre in silenzio e poi parlava con una lucidità disarmante. Chi faceva domande con quella fame sana di sapere. Chi si metteva in gioco anche quando l’insicurezza faceva tremare la voce. C’era anche chi, mentre parlavamo di comunicazione, mi chiedeva: “Ma io voglio fare l’interprete?” E io sorridevo, pensando: “Ne hai tutto il diritto”. Adesso si dovrebbe accettare che tutto questo venga cancellato da una decisione amministrativa, da una casella non spuntata in tempo, da un algoritmo che ignora le persone. Il diritto allo studio non è solo un principio astratto, è qualcosa che si costruisce ogni giorno nelle relazioni, nella fiducia, nella possibilità di portare avanti un percorso iniziato con fatica. È inaccettabile che studenti vengano lasciati senza classe perché non rientrano in un parametro. È inaccettabile che si parli di “ottimizzazione” mentre si calpesta la continuità formativa, l’inclusione, il futuro. Non sono numeri. Sono storie, volti, possibilità. Se oggi scrivo è per loro. Perché un blog serve anche a questo: a restituire voce a chi rischia di perderla. E perché il silenzio, davanti a certi tagli, pesa più di una pagina bianca.

  • Decibel e decenza. Diario sonoro da Capri.

    Premessa inutile (ma vera). A dirla tutta, e onestamente, questo articolo nasce per colpa di papà e Adriano. Erano le 14:02. Due minuti dopo la soglia del lecito. Il momento in cui, a Capri, il suono di un trapano smette di essere un’attività domestica e diventa un’offesa personale all’intero ecosistema isolano. Loro, ignari della fine del mondo imminente, stavano montando un pannello sul terrazzo. Un pannello. Che vibrava, sì. Che faceva rumore, certo. Alle 14:05, un vigile si affaccia (alza la testa!) con la gravità di un pubblico ministero in toga invisibile: “Ma lo sa che è vietato usare attrezzi rumorosi?” Lo so. Lo sanno. Eppure erano solo due uomini, un terrazzo, e un pannello da sistemare. Da quell’attimo minuscolo, eppure immenso è nato tutto questo. Un articolo. Una riflessione. Un piccolo atto di resistenza acustica. Perché l’ordinanza comunale parla chiaro. Sul calendario caprese, le ore concesse al rumore domestico sono poche, rigidamente circoscritte tra le 10:00 e le 14:00. Poi basta. Dalle 14:01 in poi, puoi solo fare il falegname in penitenza. Geppetto a mano, lo chiamo io: martellini in feltro, scalpelli in cotone. Niente trapani, niente betoniere, niente “toc” che echeggiano tra le aiuole del silenzio protetto... neanche dopo le 16.00/17.00! E non è tutto: nei mesi estivi (luglio e agosto), le regole si stringono come un corsetto acustico. Nel cuore dell’estate, qualsiasi attività edilizia viene sospesa: la casa può crollare, ma deve farlo in silenzio. Insomma, a Capri non si ristruttura: si medita la muratura. A Capri il silenzio non è solo d’oro: è vigilato, misurato, verbalizzato. In questo paradiso incantato, dove il mare canta ma il tuo cane no, ogni suono emesso oltre la soglia del respiro trattenuto è potenzialmente illegale. Bolt, golden retriever dal cuore d’oro e dalla voce piena, abbaia alla porta: reato. Un ladro entra? Silenzio. Ma se il cane lo segnala, scatterà l’intervento: non dei carabinieri, ma dei vigili urbani. Il messaggio è chiaro: a Capri, puoi essere derubato, ma fallo in silenzio. Così come se alcuni bambini giocano in casa e si sente una risata è troppo. Arriva la minaccia di una chiamata ai vigili, come se si trattasse di un rave clandestino nella cameretta. Il gioco (attività naturale, educativa, rumorosa per vocazione) viene equiparato a una turbativa dell’ordine pubblico. E così, mentre i piccoli costruiscono castelli con i Lego, gli adulti costruiscono dossier per l’esposto. E poi c’è lui: papà. Sordo come il campanile, ma con una voglia di sentirsi ancora parte del mondo. La televisione è il suo ponte con la realtà. Ma quel ponte, per Capri, è un viadotto per l’inferno. Volume troppo alto? Ecco la nuova frontiera: il diritto all’informazione vs. la quiete pubblica. Chi vincerà? Probabilmente la segnalazione. E quindi ti alleni a sussurrare anche i pensieri, far abbaiare Bolt in codice Morse… compri cuffie per papà e provi ad Insegnare ai tuoi figli a giocare in modalità stealth (e poi chiediti perché da adulti saranno ansiosi). Il rumore non è sempre un nemico. A volte è solo vita che si fa sentire. Forse Capri ha bisogno non di meno suoni, ma di più ascolto. A Capri, il silenzio non è solo un valore. È una religione. I rumori – anche quelli più affettuosi – vengono trattati come atti di terrorismo sonoro. Qui il vero lusso non è il panorama, ma la possibilità di tossire senza ricevere una diffida. Eppure, noi resistiamo. Noi, popolo rumoroso ma innocuo. Noi, con Bolt, con i bambini, con papà e il suo volume a palla. Bolt abbaia. Perché è un cane. Perché è felice. Perché vede un gatto, il postino o un pensiero sospetto passare per strada. Ma a Capri, ogni abbaio è una dichiarazione di guerra. In pochi minuti, il rumore del suo entusiasmo si trasforma in: 2 telefonate alla Polizia Municipale, 1 email al sindaco (oggetto: “EMERGENZA ABBAIO”) e 3 post indignati su Facebook (“Non è più la Capri di una volta!”) Bolt, ignaro, continua. Fiero. Rumoroso. Libero. Un partigiano peloso del diritto all’emozione. I bambini giocano. Uno ride. Un altro urla “goal!”. Una bambina canta una canzone di Oceania. Errore. Un vicino minaccia: “Se non la smettete, chiamo i vigili”. Il reato? Essere vivi sotto i 10 anni. Senza cuffie. Sulla soglia dell’infanzia si spalanca il burrone del “disturbo alla quiete pubblica”. E dire che giocare rumorosamente era, fino a ieri, la definizione stessa di crescere. A Capri, anche l’aria ha paura di fare rumore. Una foglia che cade è accolta con indulgenza, ma solo se atterra in silenzio. Il mare può infrangersi contro gli scogli, purché resti sotto i 40 decibel. Gli esseri umani, invece, sono tollerati con riserva. Capri è bella, lo sappiamo. Ma non possiamo lasciarle togliere la voce. Ogni famiglia fa rumore, perché ogni famiglia è vita. I cani abbaiano, i bambini ridono, i nonni alzano il volume, e va bene così. Anzi, è perfetto così. Il vero disturbo non è il suono. È l’intolleranza. Accettiamo che ogni giorno quest’isola venga invasa da un turismo spesso distratto, chiassoso, a volte irrispettoso, che però va bene così, perché “porta economia”. Accettiamo che lo sbarco sia a pagamento (2,50€, 5€, 7,50€) ogni anno aumentano, ogni anno nessuno capisce bene dove vanno a finire. Eppure, noi... che qui siamo cresciuti tra le mura ereditate dai nonni, quando Capri era ancora una voce bassa e gentile nel Mediterraneo, accettiamo tutto. Accettiamo persino di attraversare la piazza con il fiato sospeso. Ma guai ad alzare il volume della nostra voce, della nostra presenza. Guai a dire che forse, tra lo yacht e la quiete, ci sarebbe spazio per un cane che abbaia e un bambino che canta. Accettiamo anche che la funicolare non sia affidabile nemmeno su carta. Sulla tabella c’è scritto: ultima corsa alle 21:20. Ma “alle 21:20” a Capri non è un orario: è un’ipotesi filosofica. “Eh signò… se ne parl’ domani.” Domani. Come se il tempo degli abitanti non valesse quanto quello dei turisti. E accettiamo. Per forza. Per abitudine. Per rassegnazione. Perché “tanto è sempre stato così”. Eppure qualcosa, dentro, inizia a fare rumore. Non un rumore fastidioso. Un rumore giusto. Ecco una selezione di ordinanze creative, che, a dirla tutta, sembrano già in vigore per come vengono applicate informalmente. Le riporto in anteprima per i posteri: Ordinanza n. 666/2025 È vietato pensare ad alta voce, anche tra sé e sé, in quanto vibrazione potenzialmente udibile da coscienze acusticamente sensibili. Ordinanza Bolt-bis I cani possono abbaiare solo se prima muniti di silenziatore fonoassorbente e se il latrato rientra in una tonalità armonica con la fauna locale. Decreto urla&biberon Bambini sotto i 3 anni potranno emettere versi solo in tonalità neutra, a volume regolato da app municipale (scaricabile previa iscrizione SPID). DPCM volume dignitoso I cittadini over 65 possono guardare la TV solo se accompagnati da interprete LIS che mima i programmi senza audio.

  • La cucina del disagio. Speciale Famiglia!

    Benvenuti al primo appuntamento della rubrica “La cucina del disagio”, dove ogni articolo è una ricetta che racconta, almeno per me, cosa significa vivere oggi in Italia con figli al seguito, e come interpreto il tutto a modo mio. Questa prima portata è interamente dedicata alla famiglia, il pilastro della società secondo i proclami istituzionali, ma anche uno dei settori più trascurati nella pratica quotidiana. Se essere genitori sembra spesso un’impresa eroica, non è solo per colpa delle notti insonni o dei dentini che spuntano. È il sistema che, tra burocrazia asfissiante, permessi ridicoli e aiuti selettivi, rende tutto più difficile del necessario. Ecco allora tre piatti che raccontano, ognuno a modo suo, il sapore amaro della genitorialità nel nostro Paese. Diritto Fantasma. L’albero invisibile C'è una legge che garantisce un albero per ogni nuovo nato o adottato. Un gesto simbolico, bello, poetico. Ma c’è un dettaglio: nessuno ti avvisa . Se non sai che devi fare richiesta, niente albero, niente diritto. Una metafora perfetta di tanti diritti in Italia: esistono solo per chi li scopre per caso . Il resto è silenzio istituzionale, disinformazione e moduli nascosti nei meandri della burocrazia. Genitore Equilibrista. Permessi al gusto di sacrificio In questa ricetta il sapore principale è l’assurdità. Un padre ha un solo giorno all'anno  di permesso retribuito per occuparsi dei figli. E se serve altro? Deve usare le ferie, come se un figlio malato fosse una vacanza. Il risultato? Le madri devono compensare, arrangiarsi, sacrificare tutto il resto. Parità? Solo a parole. Il sistema spinge ancora una volta tutto il peso sulle spalle femminili, mentre i padri restano ai margini, non per scelta, ma per mancanza di strumenti. Natalità in Crisi. Troppo ricchi per ricevere aiuti, troppo poveri per stare sereni L’ultima portata è un paradosso ben condito: lo Stato si preoccupa per il calo delle nascite, ma non aiuta chi decide di avere figli . Un ISEE troppo alto ti taglia fuori dagli aiuti, anche se il netto in busta paga è ridicolo. I costi per asili, mutui, bollette e vita quotidiana si moltiplicano. E chi rientra nei sussidi spesso deve fare i salti mortali per ottenerli. Così, fare figli diventa un lusso. E la crisi demografica? Un effetto collaterale inevitabile di un sistema che penalizza chi costruisce il futuro. vai alle ricette. Se lo Stato vuole davvero aiutare le famiglie, deve smettere di usare la parola “famiglia” solo nei discorsi elettorali , e iniziare a servire politiche concrete, inclusive, semplici. Nel frattempo, io continuo a cucinare queste ricette indigeste, perché raccontare la realtà è il primo passo per cambiarla. Alla prossima portata. E buon appetito… se vi resta ancora fame di giustizia.

  • Il mantra ansioso dei post.

    “Condividete tutti, così lo vedono più persone!” . Frase che accompagna, puntualmente, ogni post pubblicato da un’associazione, una causa sociale o un’iniziativa culturale. Segue spesso la minaccia implicita: “ Se non lo fai, stai contribuendo al silenzio del sistema. ” Con questa categoria precisa di messaggio, la mia ansia sale. Sento il peso della responsabilità sociale, come se da me dipendesse la salvezza di un’idea, di un progetto… o addirittura del mondo intero. Solo che, subito dopo, mi chiedo: ma davvero funziona così? Chiariamo una cosa: sì, condividere aiuta. Ma non è magia. Non è che appena clicchi su “condividi”, l’universo digitale si spalanca e parte la rivoluzione. I social non funzionano come le catene di Sant’Antonio e non sono un interruttore che accende automaticamente la visibilità. I social non sono un referendum, né un bollettino parrocchiale. Sono mercati affollati, governati da algoritmi che non si emozionano e saperci navigare dentro, senza farsi fregare da narrazioni zuccherose o sensi di colpa digitali, è ormai una forma di autodifesa. L’algoritmo non ha cuore. Ha logiche. Hanno visto di tutto. Video di gattini, confessioni strappalacrime, appelli ambientalisti, petizioni, meme sulle nonne e sul governo. Si muovono solo se c’è interazione autentica: commenti veri, condivisioni ragionate, tempo speso sul post. I post non “girano” perché ci crediamo tanto, girano perché funzionano secondo criteri precisi. Un contenuto viene mostrato a una manciata di utenti quando viene pubblicato. La reach non è democratica. Il tuo post non parte in prima fila, e nemmeno a metà. Parte con lo zainetto sgualcito, in fondo alla fila, sperando che qualcuno lo noti. Deve guadagnarsi l’attenzione, passo dopo passo, utente dopo utente. Se chi lo vede per primo ci clicca, lo commenta, ci passa del tempo o magari lo condivide scrivendoci qualcosa sopra, l’algoritmo si incuriosisce: “Mmm, interessante… forse vale la pena mostrarlo anche ad altri.” Se invece lo ignorano? Niente giro di valzer. Il post viene messo da parte, panchinato, come uno che non ha passato il provino. Quando un utente ci passa tempo sopra (dwell time), interagisce attivamente (engagement), lo salva (segno che vale), oppure lo condivide con parole proprie, sta dicendo all’algoritmo: “Ehi, questo post funziona.”E solo allora, forse, parte davvero il passaparola. Ma non per magia: per merito. Il contenuto, per i social, è come un candidato a un colloquio: viene valutato nei primi 30 secondi. Poi o avanza, o viene cestinato. Spesso le persone pensano che cliccare “condividi” equivalga a “fare la propria parte”. Un gesto piccolo, simbolico, che però produce grandi effetti. Tipo firmare una petizione, ma senza nemmeno dover leggere di cosa si tratta. “Oh, è dell’associazione X, loro sono bravi… condivido.” E invece no. Se nessuno interagisce con quella condivisione, è come se non fosse mai avvenuta. Un po’ come quei volantini lasciati sul parabrezza, che nessuno legge e tutti gettano via. I social se ne accorgono: ti hanno dato lo spazio, tu ci hai messo qualcosa che non ha generato nulla. Risultato? Penalizzazione. È l’equivalente digitale del fare un discorso in pubblico e vedere tutti guardare il cellulare. Non è la quantità delle condivisioni a creare movimento, ma la qualità delle reazioni. Altra illusione tipica: “se tutti noi dell’associazione condividiamo, lo vedrà tutto il mondo”. No!!!! Lo vedranno le stesse persone che vi vedono sempre. Che fanno già parte della vostra bolla, del vostro gruppo, del vostro target naturale. La vostra rete è un condominio: se tutti urlate dallo stesso balcone, vi sentite tra voi, ma nessun passante si fermerà. Per raggiungere nuove persone, servono contenuti che viaggiano oltre le cerchie: contenuti che generano emozione, discussione, sorpresa, persino fastidio (a volte). Serve creatività, serve storytelling . Non un appello! Il lettore medio è saturo di contenuti: ne vede a decine, a volte centinaia al giorno. Per fermarlo, serve qualcosa che gli parli in modo diretto, viscerale, autentico. Non basta dire: “Dobbiamo aiutare questa causa”, ma serve farla vedere, viverla, raccontarla in modo originale. Serve far ridere, piangere, indignare, riflettere, sorprendere. Oppure, semplicemente, dire qualcosa di nuovo... almeno di diverso. E questo, dispiace dirlo, non lo può sostituire nessuna ondata collettiva di “condividi perché sì”. Nessuna rivoluzione si ferma perché non hai cliccato su “condividi”. I social non premiano i buoni. Premiano i contenuti interessanti, veri e costruiti con cura. È la vera moltiplicazione, quella che conta. Se non ci mettiamo dentro un minimo di emozione, ironia, rabbia o entusiasmo…l’unico moltiplicatore che attiviamo è quello della noia.

  • Instagram mi contoura e io mi evidenzio a caso.

    Nel grande salone virtuale di Instagram, sono tutte makeup artist, hair stylist e regine dell’eyeliner perfetto. E io? Io scrollo. E rifletto. Truccata dalla vita, più che dal fondotinta. C’è un universo parallelo, fatto di contouring impeccabili, ciglia a ventaglio e bocche disegnate con la precisione di un architetto. Si chiama Instagram. Lì, la realtà è perfettamente sfumata, la luce è sempre quella giusta e i capelli hanno un volume che neanche nei film anni ‘90. Io ci entro con innocenza. Un minuto prima sto cercando un tutorial su come fare il sugo veloce per cena.Un minuto dopo, mi ritrovo a guardare un reel in cui una ragazza si trasforma da “appena sveglia” a “vado agli Oscar” con tre pennelli, due dita e uno sguardo fiero. È lì che capisco: sono entrata nel tunnel. A quanto pare, il mondo è pieno di makeup artist autodichiarate, hair stylist freelance, esperte in skin care coreana e guru dell’effetto no makeup makeup, che ti fanno sembrare appena uscita da una spa anche se in realtà hanno usato sette prodotti in sette secondi. E io? Io mi guardo allo specchio e vedo un evidenziatore rosa. Di quelli scolastici. Troppo acceso sulle guance, troppo spento altrove. Ho provato anche io, eh. Ho seguito un tutorial: "trucco nude in 5 minuti". Dopo 30 secondi sembravo nude veramente. Nel senso di struccata e sconfitta. C’è da dire che queste donne sono brave. Alcune sono vere professioniste, altre lo diventeranno. Ma nel frattempo, ci regalano quell’inquietudine da “sto facendo abbastanza?”. È un’ansia travestita da blush. Perché nel mondo digitale, la competizione non è sul curriculum, ma sul primer. Non importa quanto leggi, crei, sogni, scrivi, cresci figli o combatti con l’ISEE. Se non hai almeno una foto con il contouring da Kardashian, la tua autostima rischia grosso. E così, tra uno scroll e l’altro, impari a riconoscere i nuovi linguaggi: “Glow up” non è un’emozione, è un dovere. “Skincare routine” non è cura di sé, è identità. “Before & after” non è cambiamento, è marketing. Eppure, mi piace pensare che ci sia spazio anche per chi non sa usare l’illuminante. Per chi ha le occhiaie e ci convive. Per chi crede che il trucco più potente sia avere qualcosa da dire. O anche solo la voglia di non dire nulla, ma farlo con dignità, anche se coi capelli legati male. Instagram, nato come vetrina per condividere istanti, è diventato il backstage infinito di uno show che non finisce mai: quello della bellezza performativa. Non basta essere curate: bisogna saperlo dimostrare. Con precisione millimetrica, inquadratura strategica, ring light e caption motivazionale. Siamo nell’epoca in cui ogni ragazza con una buona manualità, un iPhone e un po’ di tempo può diventare una beauty content creator. E attenzione: non è sarcasmo. Questo mondo muove miliardi, crea professioni, ridefinisce standard. Ma come tutti gli specchi deformanti, quello di Instagram riflette qualcosa che ci assomiglia, ma che non siamo. Una volta c’erano le professioniste: le truccatrici nei backstage, le parrucchiere nei saloni. Ora ogni bagno è un camerino e ogni casa è uno studio. Non si tratta più solo di truccarsi: si tratta di documentarsi mentre ci si trucca, parlare alla videocamera, spiegare, editare, vendere. Il problema non è il trucco. Il problema è l’obbligo di performare. C’è un’estetica dell’empowerment che somiglia molto a una nuova forma di oppressione: “sei libera, ma solo se sei anche perfetta”. Glow, ma non sudare. Sii naturale, ma con 12 prodotti. E così, l’autenticità diventa un filtro tra gli altri. Per molte ragazze, essere brave a truccarsi è diventata una skill sociale. Non è più solo un gesto personale: è un marchio, una firma. Serve a ottenere consenso, like, collaborazioni, lavoro. Un nuovo modo di stare al mondo. È la professionalizzazione dell’apparenza: fare di sé stesse un brand. Nel frattempo, chi non partecipa al gioco si sente fuori luogo. Perché se non pubblichi, non esisti. Se non sei bella, curata, “sul pezzo”, sei sciatta, o peggio: disinteressante. E io? Io scrollo. Continuo a scrollare. E intanto penso. A quando il trucco era un gioco, e non una strategia di crescita. A quando l’immagine di sé si costruiva nello specchio della mamma, non nella fotocamera frontale. A quando ci si truccava per uscire, non per essere viste. Ma anche a quanto siamo fragili, tutte, sotto strati di fondotinta e filtri. A quanto è faticoso apparire costantemente all’altezza. A quanto è sottile la linea tra autodeterminazione e pressione sociale. A quanto servirebbe una nuova parola per dire: “Mi piaccio, ma anche no. E va bene così”. Forse non ci serve un nuovo correttore, ma uno sguardo più gentile su noi stesse. Forse non dovremmo imparare a stendere meglio il fondotinta, ma a riconoscere quando stiamo solo cercando di essere all’altezza di uno standard che non ci appartiene. Forse possiamo anche non essere makeup artist, né hair stylist, né glow-guru. Possiamo semplicemente essere: disordinate, reali, imperfette. Ogni tanto stanche. Ogni tanto spettinate. Ogni tanto fiere. E se proprio dobbiamo truccarci, che sia per guardarci allo specchio e riconoscerci. Non per piacere a chi ci guarda mentre scrolla. E forse, in fondo, questo è il vero glow up: non piacere a tutti. Ma piacersi ogni tanto.

  • Su Rai1 cronache di un’Italia che applaude alla stupidità.

    Rai 1. Rete nazionale. Servizio pubblico. E intanto Mamma Pig è incinta. È il trionfo dell’assurdo travestito da intrattenimento, dell’infantilizzazione mascherata da leggerezza. E mentre il mondo reale affonda nei problemi veri, noi assistiamo, a reti unificate, alla cronaca rosa di Peppa Pig. Stavo facendo zapping, distrattamente. Quella distrazione da fine giornata, quella voglia di spegnere il cervello per un attimo. Poi l’occhio cade su un talk show dai colori sgargianti: divanoni arancioni, pubblico plaudente, luci soffuse da centro commerciale. E lì, nel bel mezzo del nulla, la frase che non ti aspetti, e che forse nessuno dovrebbe aspettarsi: “Cicogna in arrivo a casa di Peppa Pig: la mamma è incinta!” Mi sono chiesta se stessi sognando. O meglio, se stessi facendo un incubo grottesco. Ma no: era la realtà. O almeno quella che la TV italiana ci spaccia per tale. È tutto vero. Rai1. Programma del pomeriggio. Canone in bolletta. Applausi veri per una notizia finta. Perché la televisione generalista è ridotta a questo circo infantile per adulti? La televisione cerca disperatamente di sopravvivere in un’epoca in cui è stata superata da social, streaming e meme. E così, pur di fare ascolti, si butta sul trash travestito da “contenuto leggero per famiglie”. Il problema è che, più che “leggero”, il contenuto è semplicemente vuoto. Non importa se il contenuto sia sensato, utile, stimolante. L'importante è che sia assurdo abbastanza da far parlare di sé sui social. Che la notizia sia vera, inventata o semplicemente idiota, poco importa: se genera commenti, indignazione, condivisioni… allora funziona. Nel frattempo, l'informazione culturale dorme in seconda serata, il teatro è esiliato su canali digitali, e l’educazione civica viene sostituita dalla pancia rosa di Mamma Pig. Siamo passati da “La cultura rende liberi”  a “La TV ti intrattiene mentre ti spegne il cervello” . Diciamocelo: una parte di colpa è anche nostra. Noi che ridiamo per l’assurdità del momento, ma intanto condividiamo. Noi che ci indigniamo, ma clicchiamo. Noi che critichiamo, ma intanto alziamo lo share. La verità è che la mediocrità si alimenta proprio con questo consumo passivo e distratto, con questa leggerezza tossica che chiamiamo “relax”. Siamo diventati spettatori assuefatti, che trovano più interessante il pancione disegnato di un maiale animato che un dibattito sulla crisi climatica. E quando la TV ci tratta come bambini dell’asilo, noi nemmeno protestiamo. Anzi, le facciamo pure le coccole. Le alternative esistono, ma non piacciono al telecomando Esistono contenuti culturali, programmi di qualità, produzioni che meritano. Ma spesso sono nascoste, penalizzate, fuori dall’algoritmo della leggerezza. Il problema non è solo cosa ci viene proposto. È cosa scegliamo noi. Perché accendere la TV è un atto passivo. Ma decidere cosa guardare è un atto politico. Ogni click, ogni ascolto, ogni applauso finto alimenta un sistema che ha scelto di premiare il ridicolo invece del riflessivo. E domani cosa ci racconteranno? Oggi Mamma Pig è incinta. Domani magari vedremo George Pig in terapia di coppia. Dopodomani Peppa prenderà il bonus nido. E noi saremo sempre lì, davanti allo schermo, a ridere per non piangere… o forse a piangere mentre ridiamo. Nel frattempo, il Paese reale — quello fatto di problemi veri, stipendi bassi, scuole fatiscenti, cultura azzoppata — resta fuori campo, tagliato come un personaggio secondario. La mediocrità viene nutrita, applaudita e replicata. E la qualità, quella vera, finisce nella fascia oraria in cui tutti dormono… o su piattaforme a pagamento. Forse è arrivato il momento di cambiare canale. O meglio: di cambiare testa.

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