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Il programma digestivo dell’universo.

  • Immagine del redattore: giorgia dublino
    giorgia dublino
  • 4 giorni fa
  • Tempo di lettura: 3 min

Ci sono settimane in cui la vita ti insegna qualcosa. E poi ci sono quelle in cui la vita… ti scarica addosso tutto il programma digestivo dell’universo.

Ovviamente la mia è stata la seconda!

Tutto è cominciato martedì, durante l’allenamento di basket di mio figlio. Corri, salta, palleggia... e poi, il colpo di scena. Una di quelle situazioni in cui lo sport diventa una forma di meditazione intestinale. Ritorni a casa con un bambino e un paio di pantaloncini pieni di umiltà.

Mercoledì, plot twist. È Giordana. La maestra me la consegna in braccio come un fragile pacco Amazon Prime, già aperto, già... compromesso. Gli occhi lucidi, la pancia dolente, e uno sguardo che dice tutto: “Mamma, l’anima mi ha abbandonato. E anche il resto.” E lì capisci che non è solo un virus. È un passaggio di testimone. Un’eredità familiare.

A chi tocca, non si offenda. Infatti, tocca a me.

Un giorno intero di rituali antichi: sguardo perso nel vuoto, rumori inquietanti, tisana al finocchio tra le mani come se potesse salvarmi l’anima (spoiler: no).

Sabato e domenica, finalmente la quiete. Il sole. Il respiro. “È passato”, diciamo. Siamo salvi. Illusi.

Il 2 giugno decidiamo di andare al mare, come brave famiglie che vogliono dimenticare. Il mare ci accoglie, il sole ci scalda. Ma sulla via del ritorno, tra curve e nostalgia, arriva il colpo di grazia.

Diciamo solo che il tragitto fino a casa è diventato un test di sopravvivenza. Una sfida tra dignità e gravità. A volte la gravità vince.

Stamattina, ancora provata, provo a ricominciare.

Scendo con il cane. Cerco di dimenticare.

E proprio mentre Bolt si dedica alle sue consuete riflessioni esistenziali nel prato, arriva lui. Un piccione. Silenzioso. Preciso. Poetico nella sua crudeltà. Mi caca l’anima addosso. E allora capisci. Non è solo una settimana no. È un messaggio cosmico. Un invito al silenzio. Alla contemplazione.

In certi giorni non basta la pazienza. Serve un miracolo e una buona lavatrice.

Il piccione è un animale sottovalutato. Volatile urbano, disprezzato, snobbato, eppure onnipresente.

Ma quando decide di colpire, lo fa con precisione chirurgica. E non è mai un caso.

Essere colpiti da un piccione è un rito di passaggio. È la vita che ti dice: “Tu pensavi di aver toccato il fondo? Aspetta, che ti aggiusto il finale.” Oppure: “Ti sei appena ripresa da tutto? Bene. Ecco una nuova prova spirituale.”

In alcune culture, inventate da me mentre cercavo salviette nello zaino, il piccione è considerato un messaggero del destino, portatore di benedizioni mascherate da umiliazioni.

Una cacca in testa è il contrario di una medaglia: non la meriti, ma te la becchi lo stesso.

In fondo, il piccione ti mette al tuo posto. Ti ricorda che puoi organizzare la giornata, ma non l’universo. Che puoi essere madre, guerriera, project manager del caos… ma c’è sempre qualcosa che vola sopra di te e decide di lasciare il segno. Non dal cielo, ma dal balcone al terzo piano. Un avvertimento!

A Napoli lo sappiamo bene: se un piccione ti caca addosso, porta fortuna.

Ce lo ripetiamo come mantra, come scusa, come autodifesa. “Porta fortuna!”  ci gridano i passanti mentre cerchi di non piangere tornando a casa per cambiarti.

Ma in fondo, è la città stessa che funziona così: tutto un equilibrio sottile tra il disastro e il miracolo, tra lo schifo e la benedizione.

La cacca del piccione non è solo cacca: è ’a sciorta, la sorte. Un getto divino. Un’abluzione urbana.

C’è chi si gioca i numeri al lotto; c’è chi si gratta; c’è chi si fa il segno della croce.

E poi ci sono io, che mentre Bolt annusa un cespuglio, vengo colpita dalla trinità dello scorno: virus intestinale, mare rovinato, e piccione vendicativo.

Eppure, una parte di me, vuole credere che sì, qualcosa di buono sta arrivando. Forse la cacca è solo un reset karmico. Una piccola pioggia digestiva dal cielo che ti ripulisce la vita (dopo avertela imbrattata per bene). Una benedizione travestita da incubo.

E allora va bene… Mi affido alla saggezza popolare.

Gioco 3 numeri al Lotto, bevo una tisana amara come la verità e accarezzo Bolt, che nel dubbio, sta alla larga dai piccioni.

Perché a Napoli, anche la merda può essere un segno. E a volte, l’unico modo per sopravvivere è riderci sopra, e dire: “Addò ce sta ‘a munnezza, po’ nascere ‘na rosa.”

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