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- “E quindi?”. Cronache in tailleur.
“Persona: Che lavoro stai facendo?” “Io: La store manager da Marella, al MaxiMall Pompeii.” “Persona: Ma tu hai scritto un libro…” “Io: E quindi?” Ogni volta che lo dico, scatta quella pausa. Quel micro-silenzio in cui capisci che l’interlocutore sta cercando di risolvere un’equazione impossibile: una laureata con una tesi in semiotica che si ritrova a parlare di KPI e visual, una scrittrice che gestisce turni e una mente creativa alle prese con taglie e desideri. Ma la verità è che il retail è comunicazione allo stato puro: un linguaggio fatto di colori, luci, gesti e sguardi. È una messa in scena collettiva in cui ogni cliente cerca la versione più credibile di sé, come in un feed Instagram, solo senza filtri (o quasi). Io osservo. Mi alleno ogni giorno all’empatia e alla sintesi. Traduco emozioni in outfit e domande in sorrisi. E più lo faccio, più mi accorgo che questo lavoro (tanto concreto, tanto terreno) è anche una forma di narrazione. Una palestra di umanità. Le persone entrano in negozio come se varcassero la soglia di un camerino interiore: provano ruoli, identità, desideri. Alcuni vestiti restano lì, altri diventano trasformazione. Così, tra un blazer e una chiacchiera, tra un obiettivo mensile e una storia da raccontare, ho capito che la scrittura non mi ha mai lasciata: si è solo trasferita altrove. Ogni giorno, nel mio microcosmo di abiti e parole, incontro due forze opposte che imparano a convivere: la creatività e il pragmatismo. Il pragmatismo serve per chiudere il cassetto, la creatività per non chiudere il cuore. E forse è proprio lì che si misura la vera professionalità, non nei numeri in tabella, ma nella capacità di restare vivi dentro una routine. C’è un modo di vendere che non è solo persuasione: è presenza, è ascolto, è la stessa attenzione che serve per scrivere una pagina credibile. Perché, in fondo, il negozio è come un foglio bianco che si riempie di storie effimere ma sincere. Non mi sono mai sentita divisa tra la vita “di testa” e quella “di lavoro": per me la testa e il lavoro sono sempre state la stessa cosa… quando le muove l’anima. Ogni vetrina racconta il mondo in miniatura: fuori, la società delle apparenze; dentro, quella delle possibilità. C’è chi entra per nascondersi e chi per svelarsi, chi compra per cambiare e chi per sentirsi uguale ma migliore. E in tutto questo, il mio compito non è solo vendere un capo, ma tradurre un bisogno invisibile. Far uscire le persone con un vestito addosso e una versione di sé che magari non avevano mai visto. Così, quando qualcuno mi dice: “Ma tu hai scritto un libro…” io sorrido e penso che sì, sto continuando a scriverlo. Il mio “E quindi?” smonta il pregiudizio che la realizzazione personale passi per una sola forma di espressione o per una sola identità. Sì, ho scritto un libro. E sì, adesso "abito" un negozio. Le due cose non si escludono, si nutrono a vicenda. Scrivere mi aiuta a osservare meglio le persone, lavorare con le persone mi dà nuove storie da scrivere. Non sono meno creativa perché lavoro in boutique, e non sono meno concreta perché scrivo. Quella frase, “Ma tu hai scritto un libro”, suona come un promemoria culturale: come se chi scrive dovesse vivere sospeso in una torre d’avorio, lontano dai negozi, dai target e dai turni. Ma io non credo alla divisione tra alto e basso, tra arte e quotidiano. Credo che la vita vera accada nei luoghi apparentemente minori, dove le persone si raccontano senza saperlo: davanti a uno specchio, in fila alla cassa, cercando la giacca giusta per un colloquio o per una nuova versione di sé. In fondo, anche una boutique è un osservatorio sociale: un piccolo teatro dove la vanità incontra la vulnerabilità, dove il desiderio si misura in taglie e la sicurezza in centimetri di tacco. C’è chi entra per festeggiare, chi per consolarsi, chi per sentirsi diversa per un giorno. E io, da dietro il bancone, raccolgo tutto questo: frammenti di umanità lucida, disordinata, bellissima. Essere una store manager non è così diverso dallo scrivere un capitolo. Bisogna creare atmosfera, riconoscere il tono, capire quando una storia sta per finire o per cominciare. Solo che, invece della punteggiatura, uso i sorrisi. E poi c’è il team. Le persone con cui condividi otto ore al giorno, mille clienti e un solo obiettivo: far funzionare tutto, anche quando sembra impossibile. Il team è la parte invisibile della vetrina: quella che tiene in piedi il ritmo, l’energia, la leggerezza apparente di ciò che il cliente vede in pochi minuti. C’è chi arriva con il caffè in mano e il sonno negli occhi, chi parte già in quarta, chi fa battute, chi sistema i capi come fossero opere d’arte. E in mezzo a tutto questo caos coordinato, impari una cosa che nessuna laurea e nessun romanzo ti insegna davvero: la convivenza delle differenze. Come in un libro scritto a più mani, ogni voce ha il suo tono, ogni giornata il suo capitolo imprevisto. Ci sono le incomprensioni, le battaglie silenziose, i momenti in cui le parole non bastano, o si scelgono male. Ci sono le giornate storte, gli scontri di visione, le tensioni che si sciolgono solo quando (o se) ricordi che alla fine siete tutti lì per lo stesso motivo: far andare avanti la storia. È il lato meno romantico, ma anche il più vero. Perché lavorare insieme non è solo condividere i successi, ma imparare a restare anche quando non ci si capisce del tutto. Ed è lì che il team smette di essere un gruppo di colleghi e diventa una piccola comunità di resistenza gentile. Una palestra di emozioni, di misura, di pazienza. Forse è questo che mi piace di più del mio “nuovo lavoro”: che non parla solo di abiti, ma di relazioni che si cuciono a mano, ogni giorno, tra un errore e un gesto di fiducia.
- suocere e cognate.
Pilastri involontari della letteratura familiare e protagoniste indiscusse di infinite commedie e tragedie domestiche. Parliamo delle suocere e delle cognate. Iniziamo con il concetto di “relazioni acquisite”. La famiglia acquisita rappresenta una delle sfide più delicate nell’equilibrio relazionale di coppia. In particolare, il rapporto con suocere e cognate si muove in un territorio ambivalente: tra prossimità affettiva e confini identitari. In Italia, la cultura del legame familiare forte ma spesso invischiante amplifica questa tensione. Nel modello familiare italiano (storicamente centrato sulla famiglia estesa e su una forte interdipendenza generazionale) i confini tra "nucleo originario" e "nuova coppia" sono spesso labili e poco tutelati.La suocera non è solo "la madre di", ma spesso continua ad avere un ruolo attivo nella gestione pratica, emotiva e simbolica della vita del figlio (e della nuora o del genero). La cognata, a sua volta, incarna il prolungamento laterale di questo sistema: compartecipe, competitiva, alleata o antagonista, a seconda del giorno e dell’umore. Questo accade perché la famiglia, in Italia, non è solo un’unità affettiva. È anche una struttura di potere informale: regola i ritmi, custodisce i valori, orienta (e spesso giudica) le scelte di vita dei suoi membri. Quando arriva una nuova persona (una compagna, un marito, una compagna del figlio, una moglie del fratello) non entra solo in una relazione d’amore, ma anche in una gerarchia emotiva già esistente. E questa gerarchia, per quanto affettuosa possa sembrare, spesso non è disposta a cedere terreno facilmente. Nelle famiglie mediterranee, infatti, l’identità personale è fortemente intrecciata con il ruolo familiare: essere madre, sorella, figlia… non è solo una condizione affettiva, ma una posizione esistenziale. Per questo le dinamiche tra suocere, cognate e nuove arrivate sono cariche di simbolismo implicito, aspettative non dette e confini che non sempre si possono nominare, ma si sentono eccome. Il conflitto non nasce dall’odio, ma dall’intimità forzata. Dalla difficoltà di tracciare un “mio” e un “tuo” in un contesto che ti vuole “nostro”... anche se a modo suo. Non hai scelto tua suocera, come non hai scelto l’intonaco del bagno nella casa in affitto: ti è toccata. E resta lì. Eppure, da quando stai con lui (o lei), lei è parte del pacchetto. Come le spese condominiali o il ciclo quando hai la cena romantica. Cognate incluse, come i gadget in edicola: sembrano inutili, ma poi occupano spazio. E opinioni. La suocera ha cresciuto figli “senza mai lamentarsi”. Tu, invece, osi dire che sei stanca. Lei partoriva e il giorno dopo stirava. Tu partorisci e il giorno dopo sei ancora stesa a cercare di capire che ore sono. La cognata, se più giovane, ti vede come una vecchia. Se più grande, ti vede come un’invasione di campo. In certi casi, più che famiglia acquisita, sembra un Senato interno permanente, con alleanze variabili, tradimenti simbolici e decreti orali non richiesti. Un potere antico, che si trasmette per linea femminile, ma mai per atto scritto. Solo sguardi, pause drammatiche e frasi cominciate a mezza voce e mai finite. Il codice è silenzioso. Ma vincolante. Le nonne di oggi, classe 1935, non alzavano la voce. Non ne avevano bisogno. Bastava il cucchiaino nella tazzina. Se girava piano: approvazione. Se girava veloce: tensione. Se non lo girava affatto: catastrofe imminente. Erano il tipo di matriarche che, anche quando non c’erano, continuavano a dettare legge: “Non si può fare così, perché la nonna non avrebbe voluto.” Le nate nel 1961 sono quelle che hanno vissuto l’illusione degli anni ’80. Quelle convinte che bastasse parlare, confrontarsi, esprimersi. Che i rapporti si potessero negoziare, e non solo subire. Quelle che hanno letto De Beauvoir, ma poi hanno stirato le camicie. Che sognavano la liberazione esistenziale, ma nel frattempo si occupavano dei colletti storti. Convinte che l’emancipazione passasse per il pensiero critico, ma anche per la gestione delle lasagne della domenica. Hanno lottato per la parità, ma sono finite a fare da mediatrici tra nonna e figlia. Nel tempo hanno affinato l’arte del commento leggero che pesa due chili: "Ma tu sei più brava di me, eh. Io alla tua età avevo già due figli, una casa e il mutuo." Sorridono spesso. Ma sotto il sorriso tengono un Excel emotivo con tutte le cose che non dimenticano. Non ti puniscono subito. Ti citano anni dopo. Noi millennial, figlie dell’88, cresciute tra Polly Pocket e contraddizioni emotive, non reggiamo più i dialoghi-lotta. Li riconosciamo. Li annusiamo da lontano. E se possiamo, li boicottiamo con la tecnica del cuscino invisibile: ci affondiamo la faccia emotiva e lasciamo parlare gli altri. Cresciute a “fa’ la brava” e “non dire tutto quello che pensi”, ma poi laureate in “comunicazione non violenta” e in “lascia perdere che non ne vale la pena”. Una parte di noi vuole fare la rivoluzione. L’altra prenota una stanza mentale in un B&B emotivo con check-out flessibile, colazione a parte. Parliamo. Ma se interrotte, non ripetiamo. Ascoltiamo. Ma se giudicate, mettiam in silenzioso la relazione. Abbiamo imparato ad amare i legami, ma anche a difendere il perimetro affettivo. Non siamo cambiate davvero. Siamo diventate più sottili. Più ironiche. Più allenate al gioco. Le une erano imperatrici. Le altre, ministre. Noi? Specialiste in fuga strategica con ritorno a sorpresa. Una specie di versione domestica di Domina, solo con meno sandali e più WhatsApp. Chi siamo??? Livia Drusilla, ma con i cerotti alle occhiaie e il controllo dell’ecosistema emotivo altrui. Osserviamo in silenzio, memorizziamo tutto, non parliamo mai per prime, eppure, quando parliamo, la temperatura della stanza cambia. Non serviamo il tè. Distribuiamo tregue. E se tacciamo, è solo perché sappiamo che il silenzio pesa più di mille battute passive-aggressive. La suocera parla molto, ma ascolta poco. È convinta di vedere tutto. La cognata, invece, è la principessa di se stessa. Non regna, ma si comporta come se dovesse ereditar tutto. Fa come le pare, dice quel che vuole, e se osi dissentire, ti guarda come una schiava che ha osato parlare senza permesso. Nel frattempo, senza fare rumore, teniamo in piedi l’intero equilibrio familiare con un cucchiaio di pazienza e una crema digestiva. Perché puoi anche non notarmi, ma se smetto di contenere, qui cade tutto. E non abbiamo il tempo di ricostruire l’Impero ogni lunedì mattina.
- Tra sartù e frittate di maccheroni.
Basta avere sempre un uovo in frigo e il piatto è tratto…Perché a Napoli, a tavola, si ricicla con amore. Si tramanda il gesto del riutilizzo come un rito familiare. Non per moda, non per ecologia, ma per saggezza antica. Nel lessico familiare partenopeo, “ci facciamo una frittata?” non è una domanda: è una dichiarazione di resilienza. L’uovo è l’ammortizzatore sociale delle dispense sventrate. È il passpartout dei giorni storti, dei ritorni a casa senza voglia di cucinare, dei lunedì post-sartù. E tu, pensi di non avere niente? Guarda bene. Altrove si chiamano “avanzi”. A Napoli si chiamano “’a cena e stasera”. La differenza è sottile ma profonda come una pirofila di sartù. In ogni famiglia napoletana c’è una regola non scritta: il giorno dopo, si mangia meglio. Il ragù che ha “reposato”, il riso che ha assorbito tutti i sapori, la pasta che si è fatta frittata: tutto diventa più buono, più vero, più napoletano. È una filosofia di vita. Un’estetica dell’adattamento. Un’arte del riuso culinario che potrebbe essere materia universitaria. La frittata di maccheroni non è una ricetta: è una posizione esistenziale. Nasce dal caos e lo trasforma in ordine, dorato e croccante. È anarchica, democratica, inclusiva: ogni tipo di pasta può partecipare, anche quella spezzata. Anche quella condita con il sugo sbagliato. Tutti meritano una seconda chance, almeno in padella. A Napoli si dice: “Aggio fatto na frittata, ma era buona.” E lì c’è tutto: l’imprevisto, la colpa, la redenzione. Una parabola da mangiare a fette, anche fredde. Se la frittata è il colpo di teatro, il sartù è il romanzo d’appendice. Ogni ingrediente è un personaggio: le polpettine sono i figli piccoli, le uova sode gli zii severi, i piselli le cugine zitelle, il sugo la nonna onnipresente. E quando lo tagli, il sartù, svela il suo segreto come un vecchio che finalmente racconta la guerra. Non è mai solo un pranzo: è sempre un’eredità. C’è poi lei: la pasta e spolicchini. Che non è altro che pasta e fagioli del giorno prima, riscaldata con amore e lasciata addensare fino a diventare azzeccata azzeccata, come direbbero le zie. Il giorno dopo, i sapori si sono fidanzati ufficialmente. Non litigano più, si fondono. Il cucchiaio fa fatica ad affondare, ma la bocca ringrazia. È il piatto che ti abbraccia anche se non sei di buonumore. Che non fa rumore, ma risolve. Per molti napoletani è la vera coccola, quella che ti rimette al mondo meglio di mille creme detox e un’intera seduta di mindfulness. Molto prima che arrivassero i manuali di sostenibilità e i guru della zero-waste, a Napoli già si praticava il recupero alimentare con disinvoltura. Non per ideologia, ma per amore. Per rispetto. Per fame, anche. Perché buttare il cibo, qui, è come spezzare un legame. E ogni piatto è una seconda possibilità data agli ingredienti… e anche a noi. Aprire il frigo il lunedì e dire “non c’è niente” è da principianti. Aprirlo e tirar fuori una frittata, una crocchetta, una monoporzione improvvisata di sartù: quello è da maestri. Napoli insegna questo: che la bellezza è dove non te l’aspetti. Che il giorno dopo non è un problema, è un’occasione. L’arte napoletana del recupero alimentare non è solo una questione di economia domestica o ingegno in cucina. È un sistema culturale, una forma di resistenza e di narrazione collettiva. Nel rito degli “avanzi trasformati” c’è una filosofia di fondo: valorizzare ciò che resta. Napoli è una città che non spreca, ma trasforma. Che convive da secoli con la precarietà, e ha risposto alla scarsità non con l’accumulo, ma con la creatività. La cucina del giorno dopo è una forma di resilienza comunitaria. Un modo di dare dignità a ciò che altrove verrebbe scartato. Ma è anche una forma di memoria: ogni piatto rielaborato conserva tracce del giorno prima, come un racconto che si arricchisce ad ogni passaggio. In un mondo che corre verso il nuovo e l’usa-e-getta, Napoli cuoce lentamente, riscalda, rimescola. Qui il tempo ha un sapore: quello delle cose che maturano, che si sedimentano, che ritornano migliori. Secondo Claude Lévi-Strauss, padre dell’antropologia strutturale, la cucina non è solo un’attività pratica, ma un linguaggio simbolico. Ogni cultura si esprime attraverso la trasformazione del cibo: dal crudo al cotto, dal fresco al fermentato, dal semplice al complesso. A Napoli, però, c’è una terza via che sfugge agli schemi: il riscaldato. Il giorno dopo non è un fallimento, è un rito. Un passaggio. Un’evoluzione del gusto e del senso. In un certo senso, potremmo dire che Napoli non cuoce: elabora. E lo fa non solo per nutrire, ma per ricordare. Ogni piatto rielaborato contiene la traccia di una tavolata, di un pranzo di famiglia, di un discorso interrotto da un piatto che “non si può buttare”. La cucina del giorno dopo è, in fondo, un archivio domestico della memoria orale. Un modo per dire: “Non buttiamo via nemmeno quello che è successo.” Quando riscaldi una pasta e patate e la trovi più buona, stai facendo un atto poetico: stai lasciando che il tempo migliori ciò che hai vissuto. Ed è proprio questo, forse, il cuore invisibile della cucina partenopea: il tempo come alleato, non come nemico. Nelle economie domestiche del Sud Italia, la cucina non è mai stata un luogo neutro. È uno spazio di gestione del potere familiare, spesso femminile, e al contempo di resistenza alla precarietà. Il recupero alimentare non nasce per moda né per ideologia ecologista. È un’arte della sopravvivenza nobilitata dalla creatività. Le donne (ma anche molti uomini cresciuti nel culto della mammà) diventano sacerdotesse del riuso alimentare, capaci di fare miracoli con mezza melanzana, un uovo e un pugno di riso del giorno prima. Un gesto ripetuto ogni giorno, che diventa rito quotidiano, identità condivisa, forma di sapere. In un mondo globalizzato che spinge al consumo e all’oblio, la cucina può insegnare a preservare, a rilavorare, a riscattare. L’arte di non buttare niente a tavola non è solo napoletana. È antica. Greci e Romani, prima ancora delle nonne dei Quartieri, sapevano che il cibo del giorno dopo è più stabile, più saggio, più vero. Nel mondo antico, ciò che avanzava si trasformava: per necessità, certo, ma anche per rispetto. Riscaldare un piatto era un gesto rituale, quasi sacro. E oggi, ogni frittata di maccheroni, ogni sartù, ogni pasta “azzeccata azzeccata” è un frammento di quella memoria lunga; un’eredità cucinata a fuoco lento. La cucina del recupero non è solo una tradizione popolare: è un archetipo universale. Radicato nella cultura del ciclo, nella gratitudine per il cibo, e nella sapienza domestica tramandata da secoli.
- Ero in bagno senza cellulare.
Stamattina, mentre ero in bagno senza cellulare... sì, senza cellulare, evento raro quanto una nevicata ad agosto! mi sono ritrovata a fare una cosa dimenticata dal mio sistema nervoso: leggere le etichette. Mi è bastato uno sguardo per risvegliare un gesto antico: occhi fissi sul flacone di bagnoschiuma. Attenzione improvvisamente catturata da parole come “emolliente”, “testato dermatologicamente”, “non ingerire”. E lì, con i pantaloni abbassati e la mente finalmente libera, mi è tornato in mente un tempo che sembra lontano secoli, e invece erano solo altri gesti. Un’era pre-smartphone in cui in bagno si leggeva altro. Libri. Riviste. Inserti. Cataloghi Avon. Manuali Ikea. E poi i Topolino, onnipresenti custodi del trono. Ogni casa aveva la sua “biblioteca da gabinetto”. Era una collezione spontanea e casuale, un piccolo universo parallelo fatto di letture frammentarie e ripetute, dove raramente si leggeva una storia dall’inizio alla fine, ma si imparava tutto sulle avventure di Paperoga in ordine sparso. Erano letture minime, ma autentiche. Lentamente assaporate. Il bagno, allora, era l’unico luogo sacro della casa dove nessuno ti disturbava e, ironicamente, anche l’unico dove era socialmente accettabile prendersi il proprio tempo. Poi è arrivato lui. Lo smartphone! E con lui, il multitasking evacuativo: messaggi, mail, scrolling compulsivo tra un rotolo di carta e l’altro. Oggi il bagno è diventato una succursale dell’ufficio, dell’ansia, del FOMO . Il Fear of Missing Out, abbreviato appunto in FOMO, è una forma di ansia sociale legata alla paura di perdersi qualcosa. Letteralmente significa: “paura di essere tagliati fuori”, “paura di perdersi un’esperienza”. In pratica è quella sensazione fastidiosa che provi quando: vedi le storie Instagram di tutti a una festa e tu sei a casa in pigiama; scorri i post di gente in vacanza e ti sembra che la tua vita stia passando invano; ti senti in dovere di rispondere a tutto, vedere tutto, esserci sempre, anche quando vorresti solo sparire sotto il plaid. Il FOMO ti fa pensare che gli altri vivano meglio, più intensamente, più pienamente. E che se non partecipi, non commenti, non posti, ti stai perdendo qualcosa di importante. È un effetto collaterale del nostro vivere sempre connessi, sempre visibili, sempre comparabili. In bagno, per esempio il FOMO è ciò che ti spinge a portare il telefono anche lì, “nel caso arrivasse un messaggio importante”. Ma nessuno ti scrive mai in quel momento. A meno che tu non sia Beyoncé. E anche lei, forse, ogni tanto dovrebbe leggere le etichette. La convinzione millenaria che mentre tu fai una cacca tranquilla, altrove si stia svolgendo l’evento del secolo non è solo una moda linguistica da TED Talk o un’invenzione dei social media. È una sensazione antica quanto l’essere umano, ma che la modernità ha trasformato in uno stato ansioso permanente. Questa paura esisteva anche prima degli smartphone. Ma oggi ha trovato il suo habitat perfetto: i feed infiniti, le notifiche a raffica, le storie da 15 secondi dove la felicità degli altri è confezionata come una promozione imperdibile. Il FOMO ti fa sentire in ritardo anche quando sei puntuale. Ti fa pensare che la tua vita sia pausa, mentre il resto del mondo è play. Ti convince che se non controlli il telefono in bagno, potresti perderti qualcosa. Ma che cosa, di preciso, non si sa mai. Ecco perché il bagno senza cellulare è diventato il nuovo atto rivoluzionario. È il momento in cui scegli non sapere tutto subito, e ti concedi il lusso di non esserci. Di rallentare. Di leggere un’etichetta. Di restare fuori dal mondo… per rientrarci con più ironia e meno panico. La verità è che mentre sei lì seduto, nessuno sta davvero vivendo l’evento del secolo. Anzi, anche gli altri, probabilmente, sono in bagno. Solo che scrollano. Ma stamattina no. Stamattina ero offline. E nel silenzio sospeso di quel momento, senza notifiche, senza filtri, senza storie da guardare, mi sono sentita come un’archeologa della mia stessa memoria. Un frammento di me è tornato a quando leggevo l’INCI del sapone liquido come se fosse una poesia. Quando “sodio laureth sulfate” mi suonava come un personaggio fantasy, e “pH neutro” era una promessa di vita equilibrata. Siamo passati da Dove a TikTok. Dal Cif crema al feed infinito. Abbiamo perso qualcosa? Forse sì. Abbiamo perso quella soglia piccola ma potente tra il dentro e il fuori, tra il fare e l’essere, tra il tempo dell’urgenza e quello dell’attesa. Abbiamo smarrito anche un certo tipo di lettura, quella che non serviva a niente, ma ci teneva compagnia. Certo, non era alta letteratura. Ma ci faceva rallentare. Ci portava altrove, mentre restavamo esattamente lì. Seduti. Fermi. Concentrati. Forse dovremmo reintrodurla, questa letteratura da WC, non per nostalgia, ma per igiene mentale. Magari creando una nuova collana editoriale “Bagni narranti. Libri brevi per momenti lunghi.” Oppure ristampando etichette poetiche: “Lascia andare ciò che non ti serve (anche metaforicamente)”; “Non agitare. Né te né il contenuto.” In ogni caso, l’invito è uno solo: lascia il telefono fuori, almeno ogni tanto. Torna a leggere cose inutili. Riscopri il fascino del superfluo. E se proprio non riesci, almeno sforzati di notare che il deodorante per ambienti si chiama Tramonto Artico, ma sa di ascensore.
- Altro che canna: fumiamo resistenza.
Se l’8,3% delle donne italiane fuma, forse non è solo per rilassarsi… ma per non esplodere. Secondo l’Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze, l’Italia si piazza al secondo posto in Europa per consumo di cannabis tra le donne. L’8,3% delle italiane tra i 18 e i 64 anni avrebbe infatti fumato almeno uno spinello nell’ultimo anno. Siamo seconde solo alla Spagna. Applausi, prego. Ma ecco la domanda che nessuno si fa mai: avete idea di cosa significhi essere donna, oggi, in Italia? Perché quei numeri non raccontano solo canne: raccontano carichi mentali sommersi, precarietà emotiva e lavorativa, mestruazioni coperte con sorrisi da call, notti interrotte e giornate continue, giudizi su ogni scelta e su ogni rinuncia. Raccontano la quotidianità di chi si sveglia prima degli altri e va a dormire con il pensiero su chi ha dimenticato di sé. Non stiamo parlando di evasione. Questa è sopravvivenza, organizzata con metodo artigianale. Le donne che fumano cannabis in Italia, molto spesso, sono le stesse che mettono a letto i figli e poi si rollano la lucidità. Che passano dalla gestione di una riunione alle patatine da infilare nello zaino per la gita scolastica, mentre fuori tutto chiede presenza, disponibilità e decoro. Sono quelle che chiedono alla cannabis quello che lo Stato non fornisce: un momento di tregua, un respiro, un “fermi tutti” che nessuno è disposto a concedere. Fumano, sì. Ma prima hanno fumato nervi, fumato pazienza, fumato colloqui di lavoro dove si chiedeva flessibilità a senso unico, flessibilità con figli a carico, genitori da accudire e uno stipendio che non arriva mai alla fine del mese. Se proprio vogliamo fare confronti, sono anche le prime al calice di vino. Ma non per gusto: per bisogno. Perché a volte serve un liquido qualunque che ridia la sensazione di esistere, anche solo per trenta minuti, come persone e non come ingranaggi guasti di un sistema indifferente. Quando il sistema ti ignora, l’autogestione diventa necessità. Una canna ogni tanto non è un vizio, è una zona franca. Una porzione di silenzio emotivo. Una linea di confine che non prevede multitasking, urgenze, correzioni, performance. Una tregua dal dover essere sempre tutto per tutti. Ecco perché questa statistica, invece di indignare, dovrebbe far riflettere. Perché dietro quell’8,3% non c’è solo un gesto, c’è una società che ha smesso di prendersi cura delle sue cittadine. E le ha lasciate lì, ad arrangiarsi. A rollarsi la resistenza. Numerose ricerche lo confermano: per molte donne la cannabis non è ricreazione, ma gestione. Non sballo, ma contenimento. È una risposta al trauma, allo stress cronico, al logorio mentale. Durante la pandemia, il 75% degli studenti universitari che hanno fatto uso di cannabis erano ragazze. Non cercavano lo sballo. Cercavano di tenere insieme i pezzi, di non crollare sotto il peso di aspettative che non prevedono fragilità. Chi ha difficoltà a regolare le emozioni…e in Italia le donne ne hanno parecchie di motivazioni, sviluppa con più facilità un uso problematico. La cannabis diventa un cerotto sulla ferita, un anestetico per non sentire. Ma la ferita resta. E se non la vedi, si incista. Gli studi ci dicono anche che l’esperienza delle donne è diversa: più legata all’ansia, al bisogno di rilascio emotivo, al peso delle discriminazioni quotidiane che spesso non hanno nemmeno un nome. Il cosiddetto “sexism-induced use”, cioè il consumo indotto da micro-aggressioni e pressioni sistemiche, non è una teoria da femministe isteriche. È un dato. Ed è un dolore che ha trovato una via di fuga. Certo, la cannabis non è innocua. Ma lo sappiamo. Nessuna di noi ha mai pensato che fosse la cura. Eppure, se l’8,3% delle italiane fuma, forse è perché in questo Paese essere donna è ancora un esercizio di resistenza solitaria. Lavori precari, carichi familiari sbilanciati, welfare assente, servizi pubblici ridotti all’osso, mancanza di spazi di decompressione: e poi ci si stupisce se si accende uno spinello? Le canne non sono una fuga. Sono un respiro. Sono un modo per rimanere ancora un po’ in piedi in un sistema che non ci dà tregua. Non vogliamo essere né vittime né sante né criminali. Vogliamo solo resistere senza doverci anestetizzare. E se proprio ci fate la morale, almeno prima fateci un favore: legalizzate la lucidità. Poi, al limite, parliamo anche di droghe. Non siamo molle che cercano anestesia. Siamo fabbriche di resistenza brucianti. Vogliamo strumenti, non spinelli. E ora, naturalmente, resto in attesa del vostro indignato post anche sul vino. Così ci togliete pure quel bicchiere delle 21:15, quello bevuto in tuta mentre carichiamo la lavatrice e scarichiamo il giorno dalle spalle... Dopo lo spinello, via anche il Merlot. Alla fine ci resterà solo il respiro. E siamo certe che troverete il modo di regolare pure quello, magari con un algoritmo ben pensato e un hashtag di tendenza. Ma almeno, stavolta, prima di scandalizzarvi chiedetevi perché beviamo. Chiedetevi perché fumiamo. Perché resistiamo a denti stretti e mani occupate. E soprattutto, chiedetevi che cos’ha fatto questo Paese per evitarlo. Perché non è l’erba il problema. E nemmeno il vino. Il problema è tutto il resto. E noi, che ogni tanto, proviamo solo a respirare.
- Italia, dove stai andando?
C’è un momento in cui le frasi che dovrebbero essere ovvie, come “la vita viene prima”, iniziano a fare paura. Quando un principio umano, semplice e profondo, viene trattato come una minaccia. Quando chi lo pronuncia viene zittito, rimosso, isolato. Non stiamo più parlando solo di un generale o di un’istituzione. Stiamo parlando di un Paese che sta perdendo l’orientamento. Dove i gesti umani vengono fraintesi come debolezza, e la rigidità cieca viene celebrata come virtù. Le coordinate saltano. E non è solo un modo di dire. Stiamo smarrendo il nord, il centro, persino il perché. Si confonde il rispetto con il silenzio, l’obbedienza con l’annullamento, la coerenza con la chiusura. In un tempo in cui servirebbe lucidità, chi prova a parlare con equilibrio e cuore viene fatto passare per destabilizzante. E mentre tutto questo accade, fuori (nella vita vera) le persone sono stanche. Non si sorride più per strada. Si abbassano gli occhi, si tira dritto. La gente è arrabbiata, e lo è in silenzio, con una rabbia che si accumula sotto la pelle: nei supermercati, nei treni, nei pronto soccorso, davanti agli sportelli pubblici. Le famiglie si sentono tradite. I giovani si sentono presi in giro. I vecchi si sentono scartati. Intanto piovono decreti, tagli, strette burocratiche. Leggi che sembrano pensate più per controllare che per aiutare: si colpisce chi manifesta, si punisce chi accoglie, si smantellano pezzi di welfare, si riducono gli spazi di parola. Il cittadino diventa suddito. Il dubbio, colpa. Immagini e parole, restano appiccicate addosso come un disagio. Come quella dell’aula di tribunale in cui Matteo Salvini testimonia contro Roberto Saviano. Due figure che personalmente non stimo, ma che in quel contesto diventano il riflesso deformato di un’epoca. Non è un processo sulle idee, eppure lo sembra. Non è censura, ma ci somiglia. È un Paese che trascina gli scrittori in aula e chiama i politici a fare i testimoni d’accusa. Un Paese in cui la legge pare usata più per regolare i conti che per garantire diritti. E anche quando non si simpatizza per nessuno dei due, si avverte una crepa: qualcosa non torna. Qualcosa si è rotto. Ma ci deve essere una differenza tra guida e comando. Guidare significa prendersi cura. Comandare, spesso, significa imporre. Se non siamo più capaci di distinguere tra queste due cose, rischiamo di costruire un Paese dove l’autorità si misura in silenzi imposti, e il valore delle persone nella loro capacità di non creare problemi. Ma una società sana non ha paura delle domande. Non teme la coscienza. Non punisce chi mette al centro la persona. Quando dire che la vita vale più di un ordine diventa un atto sovversivo, significa che qualcosa si è spezzato. Che le coordinate morali, istituzionali e persino culturali stanno saltando. Stiamo perdendo la capacità di distinguere la disciplina dalla rigidità cieca, l’autorevolezza dall’autorità, la guida dal comando. In un Paese così, chi parla con cuore e lucidità viene allontanato e chi obbedisce senza pensare, promosso. Ma un’Italia così, dove va? Mentre l’Europa si riarma, qui crolliamo in silenzio. Negli ultimi cinque anni sono scomparse oltre 59.000 imprese manifatturiere; un calo di oltre il 10 % tra il 2019 e il 2024, con settori nevralgici come moda, pelletteria e meccanica industriale tra i più colpiti. Solo per il 2024‑25, Cerved stima che quasi l’8,5 % delle PMI italiane rischia la chiusura. Non è un’emergenza futura: è già in atto. Ecco perché manager e dipendenti delle multinazionali e delle eccellenze certificano allo stesso tavolo al Ministero del Made in Italy per provare a salvare ciò che resta. Ci sono tavoli di crisi attivi in decine di realtà, dalle acciaierie alle concerie fino all’hi‑tech. Eppure nessuno ne parla davvero: nessuna mobilitazione, nessuna presa di posizione netta. Il Made in Italy che per decenni ha rappresentato l’orgoglio del mondo, oggi vale meno del silenzio di chi è costretto a scrivere lo “stato di crisi” invece che sognare l’export. Chi resiste in azienda lo fa ogni giorno, con meno tutele, meno certezze, meno futuro. Si moltiplicano le spese militari, si parla apertamente di coscrizione obbligatoria, di investimenti in armamenti, di economia di guerra. I leader sembrano più impegnati a evocare il conflitto che a prevenirlo. E l’Italia? L’Italia firma, allinea, tace. Nessuno che dica chiaramente: noi no. Nessuno che alzi la voce per dire che il coraggio, oggi, non è in chi si arruola alle armi, ma in chi diserta il pensiero unico della paura. Altrove qualcuno prova a farlo. In Spagna, per esempio, c’è chi denuncia il riarmo come scelta politica mascherata da necessità. In Francia, centinaia di intellettuali e insegnanti hanno firmato appelli contro la militarizzazione del linguaggio e della scuola. E noi? ...Eppure dovrebbe bastare una parte del Paese. È già successo. È successo a Napoli, nel 1943. Una città intera, con donne, ragazzi, operai, insorse e mandò a fanculo i nazisti in tre giorni. Senza armi, senza eserciti, ma con un senso della dignità che oggi sembriamo aver smarrito. Perché quando la coscienza si accende, anche una sola città può cambiare la Storia. Non serve una rivoluzione, basta svegliarsi. Smettere di accettare l’assurdo come inevitabile, il disumano come normale. Basta anche solo una voce che non si piega, una comunità che si alza, una città che dice “non ci sto”. La coscienza, quando si accende, è contagiosa, ma deve cominciare da qualcuno. In questo Paese esiste ancora un popolo che pensa, che lavora, che si indigna. Non si vede nei sondaggi, non urla nei talk show. È quello che si alza la mattina e si porta sulle spalle l’intero peso del silenzio, ma ogni tanto quel popolo si ricorda chi è. E smette di obbedire. Non per distruggere. Ma per ricostruire ciò che hanno venduto senza chiederci niente. Restare umani. Restare coscienti. Restare presenti. In un Paese che perde le sue coordinate, ognuno di noi può essere il punto fermo.
- Un matrimonio in traduzione.
I matrimoni non sono mai solo un fatto privato. Ogni volta che due persone si scelgono, il mondo intorno a loro cambia assetto, anche se nessuno lo dice. Le famiglie si osservano, si confrontano, si riconoscono o si respingono. Le differenze culturali diventano improvvisamente concrete: nei gesti, nei tempi, nei piatti serviti a tavola. Ma soprattutto, si mettono in scena le nostre idee, più o meno consapevoli, di cosa significhi amare, appartenere, accogliere. Ci sono matrimoni che uniscono due paesi. Altri due lingue. Altri ancora due modi di vivere il silenzio, il brindisi o l’attesa del caffè. Ed è proprio in quei piccoli dettagli, spesso invisibili, che si gioca la parte più interessante del racconto. Cosa succede quando le famiglie si incontrano per davvero? Quando devono condividere uno spazio, una lingua, un buffet, e magari anche una piscina? Succede che si rivelano per quello che sono: organismi emotivi complessi, spesso caotici, pieni di riti non detti, aspettative implicite e differenze sedimentate nel tempo. Famiglie che si portano dietro non solo valigie e abiti da cerimonia, ma anche modi diversi di vivere l’intimità, il tempo, la festa. Perché ogni famiglia è una grammatica. Alcune parlano per immagini, altre per silenzi. Alcune mettono subito in tavola tutto, altre aspettano il momento giusto. Alcune brindano ogni venti minuti, altre osservano in silenzio mentre qualcuno versa il vino. E quando queste grammatiche si incontrano, senza dizionario né istruzioni, può succedere di tutto: fraintendimenti teneri, gaffe intercontinentali, improvvise alleanze tra bambini che non parlano la stessa lingua ma sanno ridere delle stesse cose. In questi incontri, lo spazio condiviso non è mai neutro: è terreno di prova, di mediazione, di piccole resistenze e grandi accettazioni. È lì che si scopre se il concetto di “famiglia allargata” è solo una formula burocratica o una reale possibilità umana. E allora, anche il gesto di portare un vassoio di ravioli in una villa tra i boschi diventa un atto politico. Una bambina che cade in piscina si trasforma in epilogo poetico. Una salsiccia bavarese può sorprendere un napoletano. E un brindisi che non arriva mai può insegnare più cose di mille parole. Questo racconto è ambientato a Varese, in un matrimonio durato cinque giorni e mezzo. Sarebbe potuto accadere ovunque. Perché ovunque, quando le famiglie si mettono insieme, accade qualcosa che va oltre la cerimonia: una forma di rivoluzione affettiva. A volte buffa. A volte faticosa. Dal 25 al 30 giugno ho vissuto in una bolla chiamata “matrimonio di mio fratello”. Una bolla fatta di abiti stirati, saluti in almeno due lingue, zanzare con ambizioni da paracadutisti e sorrisi da catalogo Ikea. Appena arrivata a Comerio, sono scesa dalla macchina e zac! Una creatura volante non identificata ha deciso che il mio orecchio era una pista d’atterraggio. Ho capito subito che sarebbe stata una settimana intensa: io e gli insetti non abbiamo mai avuto un rapporto disteso, e a quanto pare anche loro erano stati invitati. Poi è arrivato il momento delle presentazioni ufficiali: la famiglia della sposa, ora mia cognata, un intrigante mix tra Germania e America, che sembra uscito da una serie Netflix con i sottotitoli. Il padre, il fratello, sua moglie e la figlia: gentili, affettuosi e perfettamente coordinati tra accento tedesco e sorriso americano. Il giorno del matrimonio, la celebrazione civile si è svolta in uno spazio verde da cartolina, nel cuore di Comerio. Sole perfetto, prato perfetto, emozioni calibrate. Il pranzo dopo? Lì comincia un’altra storia… Il pranzo è andato bene. Con "bene" intendo: nessuno ha rovesciato vino sul vestito della sposa, il cibo era buono, e non ho detto niente di troppo compromettente in presenza dei parenti internazionali. Un trionfo. Dopo i brindisi, le foto e i sorrisi, siamo tornati a casa. Casa, in quel caso, era una sorta di campo base familiare, un rifugio improvvisato dove ci siamo distribuiti sul piano basso come in un accampamento di affetti, valigie e scarpe eleganti fuori posto. Noi restavamo lì. Gli altri, gli sposi, la famiglia di lei, qualche parentamico con passaporto, si sarebbero trasferiti a Villa Alceo, a Viggiù. Villa Alceo. Nome altisonante, da romanzo di Dumas. Là si sarebbe consumata la seconda fase del matrimonio: quella espansiva, con più invitati, più chiacchiere in più lingue, più occhi che osservano, si incontrano, si studiano. Amici e parenti di lui, amici e parenti di lei. Un mosaico di storie, accenti, tradizioni e codici familiari. E a pensarci bene, è questo il punto che mi ha colpita di più: come i matrimoni non siano solo la celebrazione di due persone, ma anche una negoziazione emotiva tra culture, rituali e micro-società. Lì, tra una tartina e un brindisi, si intrecciano modi diversi di dire “ti voglio bene”, diversi volumi di voce a tavola, diverse concezioni di famiglia e di tempo. Per esempio: noi italiani abbiamo quella tendenza a rimanere incollati alle tavole per ore, a parlare sopra le parole, a gesticolare come se ogni frase fosse un’opera teatrale. E se poi vieni dal Sud, come parte di noi, il matrimonio non è solo un rito: è una performance collettiva, un atto gastronomico, un festival del brindisi senza sosta. Infatti, come vuole la miglior tradizione napoletana, ogni venti minuti circa ci sarebbe dovuto essere un brindisi ufficiale. Agli sposi. Alla sposa. Allo sposo. Alla vita. All’amore eterno. Alla zia di passaggio. Qualunque scusa era buona per alzare il bicchiere. Un gesto che, dalle nostre parti, non è mai solo simbolico: è partecipazione emotiva, è affetto liquido, è carburante sociale. A Villa Alceo, invece, l’atmosfera era più composta, un’eleganza casual difficile da decifrare: un mix tra abiti da cerimonia e espadrillas, sorrisi e brindisi programmati. Diciamo pure… nordeuropea, ma con qualche deviazione bohémien. Noi abbiamo tentato, onestamente. Tre brindisi ci sono scappati. Tre. In ore di ricevimento. Ma non c’erano abbastanza supporter. Nessuno che rilanciasse con “E mo ‘na foto co' ‘o sposo!”, nessuno che rispondesse con entusiasmo al nostro richiamo primordiale: “Un brindisi, no?”. Abbiamo sorriso. Abbiamo fatto gli internazionali. Ma dentro di noi, ogni calice rimasto a metà era una piccola sconfitta culturale. Eppure, in mezzo a queste differenze, qualcosa si incontra. Ci si osserva, ci si adatta, ci si sorride anche senza capire tutto. Si crea un patto non detto: “non parliamo la stessa lingua, ma siamo qui per amore di chi si ama”. E così, tra salotti ordinati e piatti ordinati, ci siamo ritrovati a vivere una disordinata forma di bellezza: quella dei legami che si creano nonostante tutto. O forse proprio grazie a tutto. Agli insetti, alle lingue che si intrecciano, ai brindisi dimezzati, alle risate a bassa voce, alle cene senza caffè fatto con la moka (che resta un trauma non ancora elaborato, anche perché a casa di mio fratello ci siamo ritrovati a cercare le istruzioni per far partire la macchinetta del caffè, come se stessimo tentando di decifrare un codice NASA). Eh già. Mio fratello si è sposato. E io, nel mezzo di questo piccolo summit internazionale a base di amore, ho capito che i matrimoni non sono mai solo due persone che si dicono sì. Sono mondi che cercano un modo di coesistere. Sono famiglie che si mettono le scarpe buone e le emozioni in ordine alfabetico, sperando che tutto fili liscio. Ma c’è di più. Quando è un fratello a sposarsi, accade qualcosa di particolare. Perché il matrimonio di un fratello non è solo un evento familiare: è anche un micro-ribaltamento emotivo, quasi una forma di passaggio simbolico. Non si tratta di gelosia o smarrimento, ma di qualcosa di più profondo: il riconoscimento che il tempo è passato, che i ruoli cambiano, che lui, con cui magari hai condiviso cuscini, litigate e pizzichi ai piedi, ora appartiene anche ad altro. A qualcun altro. A un “noi” nuovo che si costruisce altrove, fuori dal perimetro originario della famiglia d’infanzia. Secondo molti studiosi, il rapporto tra fratelli è una delle prime forme di socializzazione orizzontale. Un laboratorio di affetti e di conflitti, dove si impara il compromesso, il sostegno reciproco, la lealtà, la rivalità. Ma quel laboratorio, con il tempo, si apre al mondo. Cambia forma, scala, priorità. E quando uno dei due si sposa, l’altro, senza preavviso, si ritrova a fare i conti con tutto questo. È un momento strano, ma anche prezioso. Un punto di osservazione che ti fa rivedere tuo fratello da fuori, per la prima volta. Non più solo attraverso il filtro familiare, ma attraverso lo sguardo di chi lo ha scelto per la vita. E questo, se si ha voglia e coraggio, è anche un’occasione per scegliere di nuovo anche il proprio legame con lui: non come sorella “di default”, ma come persona che gli vuole bene davvero, in modo consapevole, adulto, diverso. E mentre stai lì, in equilibrio tra emozione e osservazione, ti accorgi che il legame con tuo fratello non è mai stato qualcosa di statico, ma un racconto in continuo aggiornamento. Cambiano i ruoli, si spostano i confini, ma resta quel filo invisibile che tiene insieme passato e presente, infanzia e adultità, giochi e responsabilità. Ecco perché, anche se sei lì come invitata, come sorella, come spettatrice, in realtà stai vivendo qualcosa di molto tuo. Una specie di riscrittura silenziosa del copione familiare, mentre intorno a te succedono cose che sembrano messe in scena apposta per ricordarti che nessuna storia, nemmeno quella più formale, fila davvero liscia. Tipo: mio fratello si è dimenticato l’abito in villa il giorno della cerimonia. Mia figlia Giordana è finita in piscina con una grazia olimpica e zero preavviso. Adriano ha perso le scarpe eleganti ed è riuscito a vivere l’esperienza formale di un matrimonio in modalità infradito spirituale. Una sera c’era la cena tipica tedesca: salsicce e una pasta al formaggio che, giuro, potrebbe convertire anche il più irriducibile dei nonni italiani. Il sabato invece, cena a base di pesce, tranne i ravioli capresi , il mio contributo personale alla diplomazia interculturale. Li ho trasportati fino a Villa Alceo come se avessi in mano le Sacre Scritture. Nessuna sbavatura. Nessun ritardo. Nessuna caduta (quella era già toccata a Giordana, grazie). Tra tutte le cose viste e condivise, c’è stato anche un piccolo cambio di prospettiva. Non ho interagito con tutti allo stesso modo, ognuno ha i propri spazi, i propri tempi, e io non sono il tipo da forzare le conversazioni. Ma osservare la sposa in quei giorni, tra sorrisi sinceri, gesti premurosi e la dolcezza con cui si muoveva nel caos controllato del matrimonio, mi ha fatto piacere. Mi ha permesso di vederla con occhi nuovi. Forse non abbiamo mai avuto davvero l’occasione di conoscerci fino in fondo, ma qualcosa, in quei giorni, è passato lo stesso. E da parte mia, posso dire che c’è tutta la volontà di lasciar spazio a quel “qualcosa”, di coltivarlo con cura, anche se lentamente. In fondo, come direbbe Goffman, la vita sociale è fatta di piccoli rituali quotidiani: modi di guardarci, di accomodarci nello spazio altrui, di sorridere al momento giusto. Non servono grandi discorsi: basta condividere un ambiente per iniziare a intuirsi. In una famiglia, ancora di più. Pierre Bourdieu parlava di “habitus”, quell’insieme di abitudini, gusti, gesti che ciascuno si porta dietro senza pensarci, ma che definisce il nostro modo di stare al mondo. Ecco, quando due famiglie si incontrano, gli habitus si sfiorano, si confrontano, a volte si scontrano, ma qualche volta, quando c’è disponibilità reciproca, trovano un ritmo nuovo. In una nuova famiglia che nasce, soprattutto quando coinvolge culture diverse, ci si studia anche da lontano. Non per diffidenza, ma per quel bisogno umano di orientarsi, di capire come muoversi senza calpestare l'altro. Si cerca un equilibrio tra rispetto e curiosità, tra timidezza e disponibilità. È una danza sottile, fatta di piccoli aggiustamenti reciproci, dove nessuno guida davvero ma tutti provano a non pestarsi i piedi. Le famiglie, in fondo, sono costellazioni affettive che si espandono lentamente. All’inizio si ruota attorno con una certa distanza, si osservano le orbite altrui, si cerca il ritmo. Poi, magari, arriva un gesto semplice, una cena condivisa, una risata fuori programma, una frase detta con l'accento sbagliato ma con l’intenzione giusta. O, nel mio caso, un vassoio di ravioli portato con solennità. Dentro uno scatolo di birre Ichnusa. Perché la diplomazia interculturale, a volte, passa anche per l’improvvisazione logistica. Conoscersi, dopotutto, non è sempre un atto. È anche un processo. E spesso inizia così: non con le parole giuste, ma con le intenzioni buone. Non con l’urgenza di essere capiti, ma con la disponibilità a restare. Da parte mia, quel processo è già iniziato. Senza bisogno di dire troppo. Ma con il desiderio sincero che qualcosa cresca, anche in silenzio. Anche a distanza. Anche con accenti diversi. E poi, la cosa più assurda: ho parlato inglese. Anche senza aver bevuto. Cioè, ho iniziato con un bicchiere d’acqua in mano e ho finito con un calice di vino. Ero perfettamente sobria e, sorpresa, internazionale. E alla fine, tra stoviglie mischiate, lingue diverse e abbracci sgrammaticati, ho capito una cosa: le famiglie non sono perfette, ma se riescono a ridere insieme, a condividere una salsiccia e a brindare almeno tre volte, qualcosa di buono sta succedendo. A chi ha scelto, e a chi sta imparando ad esserci, di nuovo, in modo diverso. “It’s better to feel pain, than nothing at all” Stubborn Love – The Lumineer Come certi legami familiari: resistenti, imperfetti, ma pieni. Anche se non si dicono tutto, si tengono comunque. Non è sempre semplice. Ma è reale. E vale la pena sentirlo, anche quando non è tutto perfettamente in ordine.
- Non esistono bene e male. Solo il potere.
Lo dice Lord Voldemort. Lo pensano in molti, anche senza essere mai passati da Hogwarts. È una frase che riecheggia un pensiero nichilista o machiavellico, simile a ciò che direbbe Machiavelli, ma dopo una cura steroidea. Ed è proprio questo intreccio tra letteratura fantasy, realtà e filosofia morale che che voglio esplorare. Nel mondo di Voldemort, il potere è l’unica bussola. Bene e male sono parole da ingenui, da deboli, da chi ancora crede in qualcosa. Il potere, invece, è. Senza aggettivi, senza giustificazioni. Ma se ci guardiamo intorno, quante volte questa visione si infiltra nella nostra realtà? Quando una legge passa per interesse e non per giustizia. Quando si giustifica la violenza “perché lo fanno tutti”. Quando il fine diventa più importante dei mezzi, e il potere, anche quello piccolo, da condominio o da poltrona, diventa l’unica cosa da difendere. Nella filosofia morale, da Platone in poi, il dibattito su bene e male è eterno. Ma c’è un punto in cui tutto si inceppa: quando si smette di cercare la verità e si cominciano a costruire solo narrazioni utili. In quel momento, il potere diventa performativo: non serve più essere buoni o cattivi, basta sembrarlo al pubblico giusto. E qui, Harry Potter non è poi così lontano da noi. In un mondo dove i governi blindano il dissenso, puniscono chi aiuta e premiano chi tace, diventa difficile distinguere Voldemort da certi leader in carne e ossa. Il rischio? Che la nostra rassegnazione trasformi quella frase in verità quotidiana. “Non esistono bene e male. Solo il potere.” La ripetiamo, la condividiamo, la accettiamo. Fino a quando non sarà più una battuta da antagonista, ma una linea editoriale, un tweet istituzionale, un mantra da campagna elettorale. Ma allora, esistono bene e male? Io credo di sì. E forse il punto non è dire che esistono, ma scegliere da che parte stare ogni giorno, sapendo che il potere non è mai neutro. È una bacchetta. E dipende da chi la impugna. Il potere è anche nei piccoli contesti. Ogni giorno, tra scuola, lavoro, relazioni e decisioni microscopiche ma cariche di simboli, basta un contesto in cui ci sentiamo poco considerati o messi da parte, e ci si aggrappa a ciò che resta:l’influenza, la parola, la capacità di orientare anche il gruppo più minuscolo. È lì che accade la magia: non quella di Hogwarts, ma quella che trasforma una questione banale in una questione di principio. Una gita? Un simbolo. Una raccolta firme? Un terreno di confronto. Un’iniziativa condivisa? Un’occasione per rimettere le cose “al loro posto”. Ci sono conversazioni che nascono come confronto e diventano sfide silenziose. Non è più questione di merende, fogli Excel o preferenze organizzative, ma di chi ha avuto l’ultima parola. Eppure nessuno lo dirà mai apertamente. Perché nei piccoli contesti, il potere si esercita col sorriso, con la battuta velata, con il classico “era solo un suggerimento”. Ma lo senti. Lo capisci. Lo riconosci. Il bene e il male si travestono; esistono, ma spesso indossano maschere. A volte, il “bene” è chi prova solo a far funzionare le cose. E il “male” è chi rema contro, fingendo di remare a favore. Sarebbe però ingeneroso ridurre tutto a buoni e cattivi. Meglio ammettere che il desiderio di contare è umano, anche se si manifesta nei modi più improbabili. E se anche Voldemort fosse solo un membro frustrato di un gruppo WhatsApp… chissà. Il potere è una questione di percezione, perché non serve neanche averlo, a volte basta che gli altri credano che ce l’hai. E allora puoi muovere le fila, lanciare sondaggi farlocchi, proporre iniziative a orologeria, mettere in discussione scelte condivise “per principio”. Non perché ti interessi davvero, ma perché così si ricorda chi comanda davvero. O almeno ci prova. Succede nelle scuole. Nei comitati. Nelle famiglie. Succede ogni volta che qualcuno non tollera l’ordine delle cose e invece di proporre, si oppone in loop, come se sabotare fosse l’unico modo per esistere. È un’ombra sottile del potere: non costruisce, ma disturba. Non governa, ma frena. Non convince, ma logora. E noi, spesso, non sappiamo come rispondere, perché non vogliamo passare per autoritari. Così lasciamo correre. Ma quella frase intanto si avvera. Ogni giorno un po’ di più. Forse la verità è che il bene e il male non sono sempre chiari, ma si intravedono nel modo in cui trattiamo gli altri quando abbiamo una minima possibilità di prevalere. Quando possiamo alzare la voce, o tenere il punto solo per principio. Quando c’è da decidere se appianare o incendiare. Il potere ci tenta tutti. Ma scegliere di non usarlo contro, quando potremmo, è forse l’ultimo vero atto di magia. Anche se nessuno lo noterà. Anche se il gruppo classe penserà che hai lasciato correre “per quieto vivere”. Anche se qualcuno penserà di aver vinto. Chi sceglie di non cedere al potere per il potere ha già vinto su qualcosa di più profondo: sull’ombra; sul rumore; sulla tentazione di diventare Voldemort per reazione. Dal punto di vista sociologico, quando in un gruppo (che sia una classe scolastica, un condominio o un’istituzione) il potere diventa l’unica grammatica relazionale possibile, qualcosa si rompe. Si rompe la fiducia. Si rompe la cooperazione autentica. Si rompe quel tessuto invisibile che tiene insieme le comunità: la capacità di riconoscere il contributo altrui senza sentirlo come una minaccia. In un sistema dove tutto è competizione, anche l’organizzazione della festa di fine anno può diventare una prova di forza. Le relazioni si polarizzano: chi ha voce e chi no, chi guida e chi contesta, chi vuole solo che funzioni e chi ha bisogno di dimostrare qualcosa. È la logica del “campo sociale”, come direbbe Bourdieu: ognuno gioca la sua partita per occupare una posizione, anche minima, di visibilità o controllo. Eppure, questa dinamica ha un prezzo: quando il potere è tutto, la relazione scompare. Si parla, ma non si ascolta. Si partecipa, ma non si collabora. Si reagisce, ma non si costruisce. E allora, anche nelle micro-società che abitiamo ogni giorno, la sfida non è vincere. È non cedere alla logica del potere per il potere, e continuare a difendere la possibilità di fare insieme, senza dover sempre primeggiare. — Giorgia Dublino un giorno alla volta, cercando di non usare la bacchetta per mandare tutti a quel paese. Ogni riferimento a chat realmente esistenti è puramente sociologico. Più o meno.
- Appunti di una cittadina.
Questi sono gli appunti di una cittadina. Non un’analista, non un’eletta, non una che ha la risposta pronta. Solo una che osserva, ascolta, incassa. E a un certo punto scrive. Opinioni. Sensazioni. È probabile pure che siano cazzate, ma il mio cervello, come fa ogni giorno con ciò che vede, sente, subisce ha elaborato una mappa. Una semplificazione. Una proiezione. Una versione parziale del reale, come tutte le mappe. Perché sì: la mappa non è il territorio! Quello che vedi non è mai tutto. È una sintesi, una scelta, una distorsione a volte. Ma è l’unico modo che abbiamo per orientarci nel caos. Non pretendo di avere ragione. Ma pretendo di provare a capire. E in questo tentativo ci metto dentro l’umano, il politico, il personale. Ci metto le bandiere, i silenzi, le urla non ascoltate, i gruppi WhatsApp, il cibo che manca a Gaza e la pacca sulla spalla a chi reprime. Questa è la mia mappa: forse non coincide col tuo territorio, ma se stai leggendo, forse abbiamo almeno un paesaggio in comune. C’è un gesto che ha fatto più male di molte parole. Non un decreto, non un voto in aula, non l’ennesimo taglio mascherato da riforma. Una pacca sulla spalla per la Presidente del Consiglio che in Senato, nel giorno in cui passava, senza troppo clamore, un decreto che rafforza la repressione e limita il dissenso. Un gesto breve, istituzionale, quasi affettuoso. Ma pieno di significato. Pieno di quella complicità tra potere e consenso che rende tutto normale. Legittimo. Persino giusto. E lì, in quel momento, ho avuto un pensiero che non mi aspettavo: appendere tutte le bandiere della Palestina al posto di quelle del Napoli calcio. Non perché non ami la mia città, non perché il calcio non sia, a suo modo, un linguaggio popolare. Ma perché in questo momento il silenzio fa più paura del rumore. E mentre lo Stato si assicura che nessuno possa più bloccare una strada, alzare la voce o srotolare uno striscione senza rischiare una denuncia. Io mi sento moralmente obbligata a lasciare un segno. Dall’altra parte dell’oceano, intanto, Trump ha ordinato il dispiegamento dei Marines e della Guardia Nazionale a Los Angeles, in risposta a proteste antirazziste e alle nuove retate contro i migranti.Il governatore Gavin Newsom ha parlato apertamente di “un attacco alla democrazia” , accusando Trump di “fabbricare crisi per trarne vantaggio politico” . E non finisce qui. Vuole pene fino a un anno di carcere per chi brucia la bandiera americana, nonostante la Corte Suprema l’abbia sempre ritenuto un gesto protetto dal Primo Emendamento. Minaccia di applicare la legge di insurrezione del 1807. Progetta una parata militare a Washington, con tanto di nomine onorarie ai generali confederati. In molti parlano ormai di svolta autoritaria, di un’America che si irrigidisce, che preferisce la forza al confronto, la repressione alla mediazione. E mentre guardiamo con stupore e distanza quello che accade là, qui in Italia, con un altro lessico ma la stessa logica, qualcosa di simile ha già preso forma. Le critiche sono arrivate: dal PD, dal M5S, dai sindacati come la CGIL, fino a ONG internazionali come Human Rights Watch, Antigone e persino osservatori ONU, che parlano apertamente di deriva autoritaria. Il governo invece lo definisce uno strumento di ordine pubblico. Ma la domanda rimane sospesa, in gola: ma tutto a posto? Perché mentre in America si spara ai cortei, in Italia si criminalizzano le proteste. Mentre lì si militarizzano le città, qui si ammutolisce la piazza. E allora forse non è poi così diversa, questa corsa al controllo. Forse il problema non è più solo chi comanda. Ma anche quanto siamo disposti a lasciar fare. E allora viene da chiederselo: che fine ha fatto la disobbedienza civile? Non quella violenta, distruttiva, rabbiosa. Ma quella che nella storia ha portato progresso, consapevolezza, diritti. Quella che ha fatto da argine al potere quando diventava cieco. Oggi, invece, la disobbedienza è “pericolosa”, “da reprimere”, “da punire”. Lo dice un decreto. Lo conferma un Parlamento. Lo celebra una pacca. E mentre qui si criminalizza chi si sdraia in strada per fermare un camion, nel Mediterraneo... e nei notiziari addomesticati, i bambini di Gaza continuano a morire. Sotto le bombe. Tra le macerie. Nel silenzio. Decine di civili uccisi, centinaia di feriti, colpiti mentre cercavano cibo, acqua, speranza. E non in un conflitto aperto, ma in una coda per sopravvivere. E noi qui, a guardare, con le finestre chiuse, i balconi addobbati solo per le feste di quartiere.Come se la sofferenza, se è lontana, non ci appartenesse. Ma se è tutto legale, è anche tutto giusto? Questa è la domanda che ci stanno disabituando a fare. Ci vogliono spettatori, non cittadini. Consumatori di decreti, non portatori di coscienza. Soggetti passivi, purché tranquilli. Ecco perché le bandiere, oggi, valgono più di un tweet. Perché sono lente. Visibili. Ostinate. Non vanno via con uno scroll. Restano. Disturbano. Chiedono di scegliere da che parte stare. Non so se appendere quelle bandiere servirà a qualcosa. Forse no. Forse sì. F inirò per credermi parte di un Paese che non mi rappresenta più. Un Paese che applaude la fermezza e dimentica la compassione. Che reprime i corpi e censura i sentimenti. Che dà pacche sulle spalle a chi sottrae diritti, e poi chiede “moderazione” a chi ha solo il coraggio di farlo notare. Io non sono moderata. Sono stanca. E quando si è stanchi, non si può più stare zitti. Perché il silenzio, oggi, non è più una zona neutra . È una scelta. È una resa. È una firma invisibile in calce a tutto quello che non approviamo, ma lasciamo fare. Ci sono i referendum. Quelli che dovrebbero essere lo strumento più diretto e popolare della democrazia. Quelli che, sulla carta, servono ai cittadini per dire “no” a una legge che non li rappresenta. Peccato che non ci vada più nessuno. Peccato che basta un po’ di astensione per affondare tutto. E adesso, come se non bastasse, Forza Italia propone di raddoppiare le firme necessarie per proporne uno: da 500.000 a 1 milione. Come dire: non basta che pochi ci credano, rendiamolo anche più difficile da tentare. Un altro giro di vite. Un’altra porta chiusa. Un’altra occasione in meno per farsi sentire. E mentre il dibattito istituzionale si consuma sul quorum e sulla legittimità popolare, io penso a quelli che non votano non per disinteresse, ma per paura. Gente che lavora a nero, che vive in bilico, che si è fatta un equilibrio precario e ha terrore che qualcuno lo smuova. E nella loro testa passa un pensiero semplice e spietato: “Se vado a votare mi sgamano. E ora sto così bene, chi me lo fa fare?” E come dargli torto del tutto? Perché in Italia le tasse sono alte, spesso sproporzionate, e non corrispondono ai servizi ricevuti. Paghi tanto, ma in cambio hai asili insufficienti, sanità al collasso, trasporti che fanno acqua, giustizia lenta e scuola precaria. È il patto sociale che si è rotto: lo Stato pretende, ma non restituisce. E così l’evasione diventa una zona grigia, non più solo furbizia, ma autodifesa, sopravvivenza, sfiducia. Molti pensano: “Se dichiaro tutto mi stritolano. Se resto invisibile almeno respiro.” Ma questo ragionamento, che pure ha radici comprensibili, è anche quello che ci sta dissanguando tutti. Perché lo Stato, nel dubbio, fa cassa dove può. E alla fine paga sempre chi è tracciabile, chi non può scappare, chi già fatica. Così si crea una società paralizzata: nessuno si fida, nessuno si espone, nessuno partecipa. Ma tutti si lamentano. Proprio come succede, ogni giorno, in quel luogo in apparenza innocuo ma rivelatore: il gruppo WhatsApp. Il regno della lamentela senza responsabilità. Dove tutti sanno cosa non va, ma pochi si prendono la briga di fare. Dove si parla troppo e si fa poco. Dove ci si ricorda degli altri solo per chiedere, mai per offrire. Dove si scarica, si delega, si commenta, ma non si costruisce nulla. E allora mi chiedo: se non riusciamo a essere civili in uno spazio con venti persone e una notifica ogni dieci minuti, come possiamo pensare di essere cittadini in uno Stato con sessanta milioni di anime? Non lo so se cambierà qualcosa. Se una bandiera al balcone, una firma sotto una petizione, una parola scritta con rabbia e lucidità possano davvero smuovere qualcosa. Non lo so se qualcuno si sveglierà, se cominceremo a riconoscerci di nuovo come parte di una comunità invece che utenti di passaggio. Ma so che tutto ciò che non si dice, non esiste . E tutto ciò che si rimanda, si perde. So che oggi, in un Paese dove si può essere schedati per una bandiera e premiati per un decreto che spegne il dissenso, il silenzio non è neutrale. È complice. E allora scelgo di non stare zitta. Scelgo di esserci, anche da sola. Scelgo di dire, di firmare, di appendere, di disturbare, di condividere. Perché se nessuno comincia, non comincia nessuno. E a furia di aspettare gli altri, smetteremo di esistere anche per noi stessi.
- Sulle linea telefonica dell’emancipazione.
Non ero pronta. Pensavo di aver acceso Netflix per una serie elegante e leggera, con costumi anni ’30, drammi amorosi, e un pizzico di femminismo da salotto. E invece mi sono ritrovata coinvolta in una resistenza civile e sentimentale, tra dittature, lotte per i diritti, persecuzioni politiche, maternità negate e amori troppo grandi per essere rinchiusi in un’epoca. Le ragazze del centralino è tutto questo: una serie che comincia come uno sceneggiato e finisce come un manifesto. Un manifesto per la libertà, l’identità, la sorellanza. E per la memoria. Quella vera. Sono donne che si guadagnano il primo impiego “moderno” in una compagnia telefonica a Madrid. Sembrano comparse da una pubblicità rétro, ma dietro le onde perfette dei capelli e le gonne a pieghe si nasconde la realtà cruda. All’inizio sembrano archetipi, ma stagione dopo stagione si trasformano in qualcosa di più: combattenti in un mondo che non le vuole libere. Dietro la femminilità elegante e il bon ton da centraliniste si nasconde la realtà cruda di un sistema patriarcale feroce, dove la libertà è un lusso, l’indipendenza una colpa, e l’amore una trappola. Sono donne che lavorano, ma non possono decidere. Che guadagnano, ma non possono spendere. Che parlano tutto il giorno al telefono, ma nessuno le ascolta davvero. E poi c’è chi paga un prezzo ancora più alto. Chi, come una di loro, vive un matrimonio fatto di violenze e silenzi, e ci mette anni e sangue a capire che non è normale sentirsi in trappola. Il centralino diventa così una metafora perfetta: voci che passano, che chiedono aiuto, che si perdono nel rumore di fondo. In quella sala, ordinata e sottomessa, comincia invece la rivoluzione più disordinata di tutte: quella interiore. La presa di coscienza. Il rifiuto. La scelta, finalmente, di dire “basta”. La protagonista designata è Lidia, quella che tiene insieme le trame, i segreti, i dolori. Ma anche quella che, col tempo, si fa da parte per raccontare le altre. Lidia è il filo rosso che lega ogni stagione, ogni svolta, ogni addio. È la linea telefonica che trasmette, che filtra, che collega. Parla per sé, ma soprattutto per chi non può più farlo. A volte l’hai amata, altre volte l’avresti scrollata. Perché Lidia è ambigua, combattuta, spesso guidata da un istinto di sopravvivenza più che da una visione. Ma alla fine, diventa qualcosa di più grande della sua storia personale. Diventa la voce della memoria. E quando la senti chiudere il cerchio, raccontare l’ultima verità, non è solo un epilogo. È un passaggio di testimone. Da loro a noi. La mia preferita? Carlota. Non solo per lo stile (che è già un motivo valido), ma per il coraggio. Carlota è quella che non scende a compromessi. Che ama chi vuole. Che lotta anche quando perdere è garantito. Non fa la rivoluzione: la incarna, come se fosse scritta nel suo DNA. Carlota non entra in scena. Irrumpe. Appare tra telefoni squillanti e colletti inamidati con l’eleganza di una duchessa e lo sguardo di una rivoluzionaria. Basta una battuta secca, un sopracciglio alzato, una risposta tagliente. Capisci subito: non sarà una comparsa. Nata nella ricca e conservatrice aristocrazia madrilena, Carlota è il paradosso vivente di quella società: una figlia dell’élite che combatte contro i privilegi da cui proviene. Ma non con rabbia. Con determinazione, classe, e una sorprendente lucidità. Carlota è il personaggio che attraversa tutte le battaglie della serie. Quella femminista, contro un sistema che vuole le donne mute, sposate e servili. Quella sessuale, in un tempo in cui amare una donna poteva essere motivo di internamento. Quella politica, quando si espone senza paura, diventa attivista, giornalista clandestina, e prende schiaffi dalla vita, e dagli uomini, senza mai abbassare la testa. Ma non è un’eroina perfetta. Carlota sbaglia. Fugge. Tradisce. Torna. E proprio lì si gioca la sua grandezza: non nell’infallibilità, ma nella coerenza con sé stessa. Nel non voler mai essere altro da sé, anche quando farlo significherebbe salvarsi. Carlota è anche (senza retorica) una delle rappresentazioni LGBTQ+ più potenti e credibili che ho visto in una serie mainstream. La sua relazione con Sara, poi Óscar, è un pezzo di storia nella storia: perché affronta il tema dell’identità di genere con una delicatezza rara, senza mai cadere nei cliché o nel pietismo. Ama. Punto. E in quell’amore trova forza, rivoluzione, famiglia. Carlota è il personaggio che non si dimentica. Perché è il tipo di donna che ti fa desiderare di essere più coraggiosa, più libera, più “te stessa anche quando tremi”. Ci insegna che essere fedeli alla propria verità può costare tutto. Ma vale tutto. Nel finale (che non anticipo, ma che ha il sapore di un addio solenne) Carlota non si arrende. Non indietreggia. Non svanisce. Si consegna alla storia, come fanno solo i personaggi che diventano simboli. È la parte che non mi aspettavo. La serie si spinge oltre le dinamiche romantiche, oltre le invidie e le gelosie da soap. Si spinge dentro la storia, quella vera. La Spagna franchista. I desaparecidos. Le torture. I bambini strappati alle madri. Ed è lì che capisci: questo non è intrattenimento. È memoria in costume. E se fino a quel momento avevi seguito le protagoniste con un misto di affetto e curiosità, da quel punto in poi cominci a seguirle con il cuore in gola. Non farò spoiler pesanti. Solo questo: non aspettarti il lieto fine. Aspettati, piuttosto, un finale coerente. Crudele, eppure necessario. Un finale che ti lascia lì, perché quando senti quella voce fuori campo dire: “Abbiamo dato la vita per essere libere. E lo rifaremmo ancora”, capisci che Le ragazze del centralino non sono finite. Vivono ancora, ogni volta che qualcuno sceglie il coraggio invece della rassegnazione. Forse ci servirebbero più serie così. Più fiction che scavano nei vuoti della storia, più donne raccontate non come vittime o muse, ma come esseri umani completi: fragili, forti, contraddittori, liberi. E forse, nel 2025, ci servirebbe anche qualche Carlota in più. O almeno, un buon motivo per ricordare chi ha lottato prima di noi. Una lotta sussurrata Take What You Can Get – Kalyo Perché a volte si lotta con le mani vuote. Ma si lotta lo stesso. È il suono di chi sceglie il coraggio, anche quando non c’è niente da vincere.
- Emozioni in streaming.
Le serie TV non sono più solo intrattenimento. Sono una forma di alfabetizzazione emotiva e culturale. Guardarle è come frequentare un corso accelerato di comunicazione, relazioni tossiche, tecniche di sopravvivenza post-rottura e micro espressioni facciali. E soprattutto… di linguaggio. Ogni serie è un po’ specchio, un po’ tutorial sentimentale, un po’ autoanalisi travestita da binge-watching. La più antica delle parole moderne. L’ho ritrovata nella nuova stagione di And Just Like That , e da lì il mio cervello ha iniziato a intercettarla ovunque: serie, dialoghi, didascalie. “Cool” non significa più solo “alla moda” o “stiloso”. È diventato un atteggiamento esistenziale: la capacità di restare impassibile anche quando la tua vita sembra scritta dagli sceneggiatori di Euphoria dopo una notte insonne. In pratica: se sei cool, puoi sbagliare tutto… ma farlo con stile. È lo status di default di ogni personaggio con trauma irrisolto e guardaroba monocromatico. Se non rispondi al telefono, sei misterioso. Se piangi ma con l’eyeliner perfetto, sei cool. Il problema di essere cool è che a volte diventa una forma di autodifesa così ben costruita… da diventare un'arma. Di solito parte come stile, poi diventa schermo, infine scudo spaziale. E chi ha imparato a non mostrare niente, neanche un “mi manchi”, spesso è anche quello che ghosta. Perché in un mondo dove la vulnerabilità è cringe e il silenzio è estetico, la sparizione è il gesto più elegante (e più codardo) che si possa fare. La mia preferita del momento. Italianizzazione istintiva di ghosted, ovvero: sparire nel nulla come se non fossi mai esistito. Non una spiegazione. Non un messaggio. Solo un’assenza totale, come se l’altro si fosse dissolto nell’etere o risucchiato in un buco nero digitale. Nelle serie, succede spesso così: lui/lei ti guarda intensamente, dice “ti richiamo dopo”, e poi? Poi niente. Rimani lì. In eterno buffering emotivo. Ma nella vita vera è anche peggio. Perché dopo la prima ora cominci a farti domande: ho detto qualcosa di sbagliato? Sarà finito il credito? Si sarà rotto il telefono? Ho sognato tutto? Poi guardi l’ultima spunta grigia. E capisci: non è un disguido tecnico. È ghosting. E fa più male di una recensione negativa su Tripadvisor. Perché mentre tu cercavi connessione (in tutti i sensi), qualcuno ha scelto di scomparire come un personaggio secondario senza arco narrativo. Ghostare è facile. Basta premere silenzioso. Riceverlo, invece, ti lascia nel limbo di una storia mai chiusa, dove tu interpreti tutti i ruoli: vittima, detective, editor dei tuoi stessi messaggi. Se ghostare è sparire, gaslightare è restare… ma distorcere tutto. Chi ti ghosta almeno ti lascia nel vuoto. Chi ti fa gaslighting invece resta lì, ma riscrive la tua realtà in tempo reale. Prima ti dice “sei troppo sensibile”, poi ti fa dubitare di ciò che hai visto, di ciò che hai detto, perfino delle emozioni che provi. È come se ti lasciassero leggere il copione… ma con le battute invertite, e il finale già deciso: è sempre colpa tua. Il più pericoloso tra i neologismi pop. Deriva dal film Gaslight (1944), in cui un uomo manipola la moglie al punto da farla credere pazza. E non con urla o violenza, ma con piccole omissioni, dubbi insinuati, oggetti spostati di proposito e poi negati. Oggi, il termine è diventato il marchio di fabbrica di una manipolazione gentile solo in apparenza. Il gaslighting è subdolo: ti fa sentire “esagerata”, “drammatica”, “instabile”… anche quando hai semplicemente reagito a un’ingiustizia. Nelle serie è il cuore velenoso di molte relazioni tossiche travestite da passioni travolgenti. Il partner ti urla addosso, poi ti porta i fiori. Ti tradisce, poi ti fa sentire paranoica. E tu, spettatore, lo capisci. Ma il personaggio no. Perché chi fa gaslighting spesso ha un ottimo taglio di capelli, una playlist curata da Spotify e uno sguardo da “non potrei mai farti del male”. E invece. Nella vita vera è più frequente di quanto pensiamo. Succede sul lavoro, nelle relazioni, perfino in famiglia. Ti porta a chiedere scusa anche quando ti hanno mancato di rispetto. Ti fa dubitare della tua memoria, delle tue parole, delle tue emozioni. Fino a quando ti ritrovi a correggere te stessa per non dare fastidio. E la cosa più spaventosa? Il gaslighting non ti cancella di colpo. Ti riscrive. Fino a farti recitare il ruolo dell'antagonista nella storia in cui eri protagonista. L’equilibrio si spezza quando passi dall’illusione alla figuraccia. Se il gaslighting ti fa dubitare della realtà, il cringe ti fa dubitare di tutto il resto: del tempismo, del tono, del perché stai ancora guardando quella scena. È l’effetto collaterale di una società che ci spinge a performare, anche quando nessuno ha chiesto lo spettacolo. È quando qualcuno ci prova troppo… e noi vorremmo solo una via di fuga, magari con i sottotitoli off. Cringe è imbarazzo puro. Ma non quello tenero da prima media. Il cringe è un disagio raffinato, totale, quasi artistico. Ti fa arricciare le dita dei piedi, serrarti le spalle, guardare lo schermo di sbieco sperando che finisca presto. Nelle serie lo troviamo nelle dichiarazioni d’amore fuori contesto, in balletti TikTok non richiesti, nei dialoghi scritti da quarantenni che pensano che “bro” e “yolo” siano ancora slang. Adulti che provano a sembrare giovani parlando come i figli… ma con l’accento da riunione di condominio. Nella vita vera? È il momento in cui riascolti un vocale che credevi brillante e invece era solo… troppo. È leggere i tuoi post del 2012. È quando qualcuno ci prova troppo, troppo presto, troppo male. Il cringe ci ricorda che spesso, più che piacere, vogliamo essere accettati. Ma nel tentativo, perdiamo il ritmo. E un po’ anche noi stessi. Dopo il cringe, arrivano loro: le red flag. Segnali inequivocabili che qualcosa non torna, ma che, complice la sceneggiatura romantica e l’ansia da lieto fine tendiamo a ignorare. Ogni red flag è una puntata pilota del disastro emotivo che verrà. Bandierine rosse che sventolano in faccia con entusiasmo… e tu, da bravo spettatore sentimentale, fingi che sia solo vento. Le red flag sono silenzi troppo lunghi, risposte passive-aggressive, commenti svalutanti camuffati da ironia. Sono quei momenti in cui qualcosa stona , ma tu dici “sarà un mio problema”. La verità è semplice: se ti fa stare male, non è un dettaglio. È una red flag. E ignorarla non la rende meno rossa. Dove le red flag avvisano, la plot armor protegge. Alcuni personaggi sembrano intoccabili. Possono tradire, fallire, cadere da un elicottero in fiamme… ma sopravvivono comunque. Perché? Perché servono alla trama . E tu, che nella vita non hai nemmeno una colonna sonora d’accompagnamento, ti chiedi: dove la trovo, io, una plot armor? L’invisibile corazza narrativa che protegge alcuni personaggi da tutto: proiettili, karma, coerenza. Lei che non si ustiona. Lui che sopravvive a qualsiasi trauma. Protagonisti di polizieschi che si fanno strada nel crimine… con la camicia sempre stirata. Nella vita vera, non esiste. Ma a volte sembra che certi influencer, certi colleghi, certe persone che “sbagliano sempre ma cadono in piedi” ce l’abbiano davvero. E noi? Noi inciampiamo in una frase sbagliata e rotoliamo giù per sei stagioni. In slow motion. Quando un personaggio è salvo, cosa ci resta da fare? Shippare . Perché, anche se l’amore non salva tutti, almeno ci distrae. Le ship sono atti collettivi di speranza. Lì dove la trama scricchiola, arriva il tifo del fandom a unire due sguardi in un bacio non scritto (ma molto desiderato). Da relationship , significa tifare per una coppia reale, immaginaria o semplicemente improbabile. È un atto di fede e anche di fantasia. Le ship sfidano il realismo, la logica, e persino la sceneggiatura. Ma sono il vero motore emotivo del pubblico. A noi? Succede anche offline. Tutti intorno a te dicono “ma quanto state bene insieme?”, mentre voi vi chiedete se è flirt o solo asma emotiva condivisa . Le ship sono belle finché restano speranza. Ma attenzione: se salpano troppo presto, finiscono in naufragio. E dopo che hai investito ore, emozioni, popcorn e pigiami nella tua serie del cuore, arriva lui: lo spoiler . L’equivalente narrativo di uno schiaffo in pieno sonno. Un colpo di scena rivelato troppo presto, da chi non sa tacere o da chi non sa vivere nel presente. Il crimine peggiore dell’era digitale. Rivelare un colpo di scena senza preavviso dovrebbe costare almeno 48 ore di log-out forzato. Meme senza avviso. Titoli di giornale. Colleghi del lunedì mattina che aprono bocca senza misericordia. È quella frase detta con leggerezza che ti distrugge la suspense costruita con amore. “Lui muore alla fine.” A quel punto muori anche tu. Dentro. E perdi fiducia nell’umanità, nei social, e in chi “non sapeva che eri ancora alla seconda stagione”. Le serie ci insegnano, ci seducono, ci manipolano e, soprattutto, ci rispecchiano. Ci mostrano cosa siamo, cosa accettiamo, cosa sopportiamo in nome dell’amore, dell’amicizia, della sopravvivenza. Ma lo fanno con una lente particolare: quella del linguaggio. Perché se è vero che le parole danno forma al pensiero, allora cool , ghostato , gaslighting & co. non sono solo vocaboli da fandom: sono etichette emotive che ci aiutano a nominare cose che, fino a ieri, non sapevamo neanche spiegare. Le serie hanno inventato un glossario pop dove il trauma diventa trama, il disagio si fa estetica, e il caos relazionale trova finalmente un titolo in grassetto. E allora ridiamo, ci identifichiamo, ci consoliamo. Perché dire “mi ha ghostato” è più facile che dire “mi ha fatto sentire inesistente” . Perché parlare di “red flag” è più semplice che ammettere di aver ignorato segnali che urlavano verità. E perché nominare il “cringe” ci fa sentire meno soli nella vergogna condivisa. Il vocabolario delle serie è un dizionario emotivo travestito da intrattenimento. Un codice comune tra spettatori di storie e protagonisti inconsapevoli delle proprie. Un modo per fare ordine. Per dare nome. Per condividere. Perché certe cose, prima di dirle sul serio, dobbiamo prima vederle succedere in streaming. E poi riconoscerle nella puntata più difficile di tutte: la nostra. Canzone da colonna sonora Friday – The Chainsmokers feat. Fridayy Perché serve una colonna sonora anche per i silenzi. "Friday" è la playlist emotiva del ghosting elegante: quello che non urla, non spiega, non chiude. Solo svanisce. Il beat rilassato ma malinconico, la voce impastata di solitudine e l’atmosfera sospesa raccontano perfettamente l’arte di sparire con aplomb. È il sottofondo perfetto per chi ha vissuto una relazione da serie tv… e si è ritrovato in eterno buffering.
- San Valentino? No grazie.
È arrivato il giorno in cui fiorai e cioccolatieri raggiungono il fatturato annuo di una piccola nazione, mentre le coppie si dividono in due grandi categorie: quelli che lo festeggiano e quelli che fanno finta di niente, ma dentro sanno che prima o poi ne pagheranno le conseguenze. Io? Io appartengo a un’altra categoria: quelli che non lo hanno mai festeggiato e ne vanno fieri. Non è una questione di anticonformismo o di ribellione alla società consumistica… anche se, ammettiamolo, l’idea di dover dimostrare amore in una data prestabilita è quantomeno bizzarra. È più una questione di principio: se l’amore ha bisogno di una ricorrenza per essere celebrato, forse c’è qualcosa che non quadra. Forse una volta poteva anche avere un senso. Magari quando si era giovani, senza pensieri, e l’idea di una cena a lume di candela sembrava la cosa più romantica del mondo. Ma poi, crescendo, succedono cose. Ti ritrovi con figli che rovesciano il bicchiere d’acqua prima ancora che ti sieda a tavola e che, se osi mettere un po’ di atmosfera con una candela, la usano per giocare con la cera e rischiare un incendio domestico. A quel punto, la domanda sorge spontanea: ma chi ce lo fa fare? Un’altra cosa che non ho mai capito di San Valentino è lo scambio di regali. Non perché io sia contro i regali. Anzi! Se qualcuno vuole farmene uno senza motivo, lo accetto volentieri. Ma a San Valentino diventano una sorta di test d’amore: se sbagli il regalo, sei nei guai. Se non lo fai, sei proprio un mostro. Se prendi il classico peluche con scritto I love you , stai probabilmente con una persona che non ha ancora superato la fase adolescenziale. Eppure, la mia generazione è fortunata: oggi basta un meme su WhatsApp per dire ti amo con ironia e sfuggire alle trappole del romanticismo forzato. San Valentino, pover’uomo, probabilmente non avrebbe mai immaginato che il suo nome sarebbe finito su bigliettini glitterati e scatole di cioccolatini. Ma chi era veramente? E come siamo arrivati al punto di trasformarlo nel santo protettore delle cene a lume di candela e delle promozioni sui profumi? San Valentino era un vescovo vissuto nel III secolo d.C., ai tempi dell'Impero Romano. Non c’è una sola storia su di lui, ma la versione più gettonata racconta che fosse un sacerdote cristiano che, nonostante il divieto dell'imperatore Claudio II, celebrava matrimoni segreti tra giovani innamorati. L'imperatore, convinto che i soldati sposati fossero meno combattivi (perché troppo impegnati a mandare lettere con Ti amo scritte in corsivo), aveva proibito le nozze. Valentino, però, era di tutt’altro avviso e continuò a unire in matrimonio le coppie clandestinamente. Ovviamente la cosa non finì bene: venne arrestato, torturato e poi giustiziato il 14 febbraio del 273 d.C.. E quale modo migliore per onorare la sua memoria se non con cene da 100 euro a testa e fiori che il giorno dopo finiranno appassiti sul tavolo? Per secoli, San Valentino è stato solo un santo come tanti, ricordato nel calendario liturgico ma senza rose e baci Perugina. Fu la Chiesa cattolica, nel V secolo, a istituire ufficialmente la festa, nel tentativo di cristianizzare i Lupercali, un’antica festa pagana romana in cui si celebrava la fertilità con riti piuttosto… vivaci. Ma l’associazione tra San Valentino e l’amore romantico si deve soprattutto agli inglesi e ai francesi nel Medioevo, quando si diffuse la credenza che il 14 febbraio fosse il giorno in cui gli uccelli iniziavano ad accoppiarsi (roba che oggi finirebbe in un documentario di National Geographic). Da lì, i poeti cortesi iniziarono a scrivere lettere d’amore e dediche strappalacrime, dando il via a una tradizione che nei secoli è degenerata in fedi di fidanzamento nei dessert e regali fatti all’ultimo minuto alle stazioni di servizio. For this was on Saint Valentine’s day, Era il giorno di San Valentino, When every fowl comes there his mate to take, quando ogni uccello sceglie il proprio compagno, Of every kind that men may think of, di ogni specie che si possa immaginare, And that so huge a noise they began to make. e un gran baccano iniziarono a fare. Da qui nacque l’idea che il 14 febbraio fosse il giorno degli innamorati… e il resto è storia. Dai sonetti medievali ai cioccolatini industriali il passo è stato breve. Il vero boom di San Valentino, però, è avvenuto nel XIX secolo, quando l'industria delle cartoline ha iniziato a produrre biglietti romantici in serie. Poi sono arrivati i fiori, le cene, i weekend romantici e, oggi, persino il San Valentino per single (perché il mercato dell’amore non discrimina nessuno). San Valentino è passato dall’essere un vescovo martire a una macchina da soldi perfetta. Che lo si festeggi o meno, è innegabile che il 14 febbraio sia diventato una sorta di esame di coppia: chi lo ignora rischia il broncio, chi lo celebra rischia il cliché. La verità è che, per me, l’amore si misura nei piccoli gesti quotidiani. Non con la rosa comprata di corsa alla stazione perché ti sei ricordato tardi, ma con il caffè preparato la mattina quando l’altra persona è ancora nel limbo tra sonno e realtà. Non con la cena a lume di candela una volta l’anno, ma con il dividere l’ultima fetta di torta… o almeno fingere di farlo prima di mangiarla. E in merito a San Valentino? Preferisco ricordarlo per quello che era: un uomo che credeva nell’amore… ma senza bisogno di cuoricini glitterati. Lo lascio volentieri agli innamorati organizzati. Io continuerò a dimostrare il mio affetto come sempre: senza calendari, senza regali obbligatori e, possibilmente, senza cuoricini di peluche. Love Stinks: il mio inno anti-cuoricini “Love Stinks” – The J. Geils Band (1980) Perché quando l’amore ti puzza… serve una colonna sonora dichiaratamente anti-romantica. Il riff hard‑rock, il ritornello urlato e quel messaggio secco e pop allo stesso tempo: “Love stinks (yeah yeah)” esattamente il mood per chi dice “saltiamo questo San Valentino, grazie”














