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“E quindi?”. Cronache in tailleur.

  • Immagine del redattore: giorgia dublino
    giorgia dublino
  • 13 ott
  • Tempo di lettura: 4 min

“Persona: Che lavoro stai facendo?”

“Io: La store manager da Marella, al MaxiMall Pompeii.”

“Persona: Ma tu hai scritto un libro…”

“Io: E quindi?”


Ogni volta che lo dico, scatta quella pausa. Quel micro-silenzio in cui capisci che l’interlocutore sta cercando di risolvere un’equazione impossibile: una laureata con una tesi in semiotica che si ritrova a parlare di KPI e visual, una scrittrice che gestisce turni e una mente creativa alle prese con taglie e desideri.

Ma la verità è che il retail è comunicazione allo stato puro: un linguaggio fatto di colori, luci, gesti e sguardi.

È una messa in scena collettiva in cui ogni cliente cerca la versione più credibile di sé, come in un feed Instagram, solo senza filtri (o quasi).

Io osservo. Mi alleno ogni giorno all’empatia e alla sintesi. Traduco emozioni in outfit e domande in sorrisi.

E più lo faccio, più mi accorgo che questo lavoro (tanto concreto, tanto terreno) è anche una forma di narrazione. Una palestra di umanità.

Le persone entrano in negozio come se varcassero la soglia di un camerino interiore: provano ruoli, identità, desideri.

Alcuni vestiti restano lì, altri diventano trasformazione.

Così, tra un blazer e una chiacchiera, tra un obiettivo mensile e una storia da raccontare, ho capito che la scrittura non mi ha mai lasciata: si è solo trasferita altrove.

Ogni giorno, nel mio microcosmo di abiti e parole, incontro due forze opposte che imparano a convivere: la creatività e il pragmatismo.

Il pragmatismo serve per chiudere il cassetto, la creatività per non chiudere il cuore.

E forse è proprio lì che si misura la vera professionalità, non nei numeri in tabella, ma nella capacità di restare vivi dentro una routine.

C’è un modo di vendere che non è solo persuasione: è presenza, è ascolto, è la stessa attenzione che serve per scrivere una pagina credibile.

Perché, in fondo, il negozio è come un foglio bianco che si riempie di storie effimere ma sincere.

Non mi sono mai sentita divisa tra la vita “di testa” e quella “di lavoro": per me la testa e il lavoro sono sempre state la stessa cosa… quando le muove l’anima.

Ogni vetrina racconta il mondo in miniatura: fuori, la società delle apparenze; dentro, quella delle possibilità.

C’è chi entra per nascondersi e chi per svelarsi, chi compra per cambiare e chi per sentirsi uguale ma migliore.

E in tutto questo, il mio compito non è solo vendere un capo, ma tradurre un bisogno invisibile.

Far uscire le persone con un vestito addosso e una versione di sé che magari non avevano mai visto.

Così, quando qualcuno mi dice: “Ma tu hai scritto un libro…” io sorrido e penso che sì, sto continuando a scriverlo.

Il mio “E quindi?” smonta il pregiudizio che la realizzazione personale passi per una sola forma di espressione o per una sola identità.

Sì, ho scritto un libro. E sì, adesso "abito" un negozio. Le due cose non si escludono, si nutrono a vicenda.

Scrivere mi aiuta a osservare meglio le persone, lavorare con le persone mi dà nuove storie da scrivere.

Non sono meno creativa perché lavoro in boutique, e non sono meno concreta perché scrivo.

Quella frase, “Ma tu hai scritto un libro”, suona come un promemoria culturale: come se chi scrive dovesse vivere sospeso in una torre d’avorio, lontano dai negozi, dai target e dai turni.

Ma io non credo alla divisione tra alto e basso, tra arte e quotidiano.

Credo che la vita vera accada nei luoghi apparentemente minori, dove le persone si raccontano senza saperlo: davanti a uno specchio, in fila alla cassa, cercando la giacca giusta per un colloquio o per una nuova versione di sé.

In fondo, anche una boutique è un osservatorio sociale: un piccolo teatro dove la vanità incontra la vulnerabilità, dove il desiderio si misura in taglie e la sicurezza in centimetri di tacco.

C’è chi entra per festeggiare, chi per consolarsi, chi per sentirsi diversa per un giorno.

E io, da dietro il bancone, raccolgo tutto questo: frammenti di umanità lucida, disordinata, bellissima.

Essere una store manager non è così diverso dallo scrivere un capitolo.

Bisogna creare atmosfera, riconoscere il tono, capire quando una storia sta per finire o per cominciare.

Solo che, invece della punteggiatura, uso i sorrisi.

E poi c’è il team.

Le persone con cui condividi otto ore al giorno, mille clienti e un solo obiettivo: far funzionare tutto, anche quando sembra impossibile.

Il team è la parte invisibile della vetrina: quella che tiene in piedi il ritmo, l’energia, la leggerezza apparente di ciò che il cliente vede in pochi minuti.

C’è chi arriva con il caffè in mano e il sonno negli occhi, chi parte già in quarta, chi fa battute, chi sistema i capi come fossero opere d’arte.

E in mezzo a tutto questo caos coordinato, impari una cosa che nessuna laurea e nessun romanzo ti insegna davvero: la convivenza delle differenze.

Come in un libro scritto a più mani, ogni voce ha il suo tono, ogni giornata il suo capitolo imprevisto.

Ci sono le incomprensioni, le battaglie silenziose, i momenti in cui le parole non bastano, o si scelgono male.

Ci sono le giornate storte, gli scontri di visione, le tensioni che si sciolgono solo quando (o se) ricordi che alla fine siete tutti lì per lo stesso motivo: far andare avanti la storia.

È il lato meno romantico, ma anche il più vero.

Perché lavorare insieme non è solo condividere i successi, ma imparare a restare anche quando non ci si capisce del tutto.

Ed è lì che il team smette di essere un gruppo di colleghi e diventa una piccola comunità di resistenza gentile.

Una palestra di emozioni, di misura, di pazienza.

Forse è questo che mi piace di più del mio “nuovo lavoro”: che non parla solo di abiti, ma di relazioni che si cuciono a mano, ogni giorno, tra un errore e un gesto di fiducia.

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