Altro che canna: fumiamo resistenza.
- giorgia dublino

- 5 lug
- Tempo di lettura: 4 min
Aggiornamento: 10 lug
Se l’8,3% delle donne italiane fuma, forse non è solo per rilassarsi… ma per non esplodere.
Secondo l’Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze, l’Italia si piazza al secondo posto in Europa per consumo di cannabis tra le donne. L’8,3% delle italiane tra i 18 e i 64 anni avrebbe infatti fumato almeno uno spinello nell’ultimo anno. Siamo seconde solo alla Spagna. Applausi, prego.
Ma ecco la domanda che nessuno si fa mai: avete idea di cosa significhi essere donna, oggi, in Italia?

Perché quei numeri non raccontano solo canne: raccontano carichi mentali sommersi, precarietà emotiva e lavorativa, mestruazioni coperte con sorrisi da call, notti interrotte e giornate continue, giudizi su ogni scelta e su ogni rinuncia. Raccontano la quotidianità di chi si sveglia prima degli altri e va a dormire con il pensiero su chi ha dimenticato di sé. Non stiamo parlando di evasione. Questa è sopravvivenza, organizzata con metodo artigianale.
Le donne che fumano cannabis in Italia, molto spesso, sono le stesse che mettono a letto i figli e poi si rollano la lucidità. Che passano dalla gestione di una riunione alle patatine da infilare nello zaino per la gita scolastica, mentre fuori tutto chiede presenza, disponibilità e decoro. Sono quelle che chiedono alla cannabis quello che lo Stato non fornisce: un momento di tregua, un respiro, un “fermi tutti” che nessuno è disposto a concedere.
Fumano, sì. Ma prima hanno fumato nervi, fumato pazienza, fumato colloqui di lavoro dove si chiedeva flessibilità a senso unico, flessibilità con figli a carico, genitori da accudire e uno stipendio che non arriva mai alla fine del mese. Se proprio vogliamo fare confronti, sono anche le prime al calice di vino. Ma non per gusto: per bisogno. Perché a volte serve un liquido qualunque che ridia la sensazione di esistere, anche solo per trenta minuti, come persone e non come ingranaggi guasti di un sistema indifferente.
Quando il sistema ti ignora, l’autogestione diventa necessità. Una canna ogni tanto non è un vizio, è una zona franca. Una porzione di silenzio emotivo. Una linea di confine che non prevede multitasking, urgenze, correzioni, performance. Una tregua dal dover essere sempre tutto per tutti.
Ecco perché questa statistica, invece di indignare, dovrebbe far riflettere. Perché dietro quell’8,3% non c’è solo un gesto, c’è una società che ha smesso di prendersi cura delle sue cittadine. E le ha lasciate lì, ad arrangiarsi. A rollarsi la resistenza.
Numerose ricerche lo confermano: per molte donne la cannabis non è ricreazione, ma gestione. Non sballo, ma contenimento. È una risposta al trauma, allo stress cronico, al logorio mentale. Durante la pandemia, il 75% degli studenti universitari che hanno fatto uso di cannabis erano ragazze. Non cercavano lo sballo. Cercavano di tenere insieme i pezzi, di non crollare sotto il peso di aspettative che non prevedono fragilità.
Chi ha difficoltà a regolare le emozioni…e in Italia le donne ne hanno parecchie di motivazioni, sviluppa con più facilità un uso problematico. La cannabis diventa un cerotto sulla ferita, un anestetico per non sentire. Ma la ferita resta. E se non la vedi, si incista.
Gli studi ci dicono anche che l’esperienza delle donne è diversa: più legata all’ansia, al bisogno di rilascio emotivo, al peso delle discriminazioni quotidiane che spesso non hanno nemmeno un nome. Il cosiddetto “sexism-induced use”, cioè il consumo indotto da micro-aggressioni e pressioni sistemiche, non è una teoria da femministe isteriche. È un dato. Ed è un dolore che ha trovato una via di fuga.
Certo, la cannabis non è innocua. Ma lo sappiamo. Nessuna di noi ha mai pensato che fosse la cura. Eppure, se l’8,3% delle italiane fuma, forse è perché in questo Paese essere donna è ancora un esercizio di resistenza solitaria. Lavori precari, carichi familiari sbilanciati, welfare assente, servizi pubblici ridotti all’osso, mancanza di spazi di decompressione: e poi ci si stupisce se si accende uno spinello?
Le canne non sono una fuga. Sono un respiro. Sono un modo per rimanere ancora un po’ in piedi in un sistema che non ci dà tregua.
Non vogliamo essere né vittime né sante né criminali.
Vogliamo solo resistere senza doverci anestetizzare.
E se proprio ci fate la morale, almeno prima fateci un favore: legalizzate la lucidità. Poi, al limite, parliamo anche di droghe.
Non siamo molle che cercano anestesia.
Siamo fabbriche di resistenza brucianti.
Vogliamo strumenti, non spinelli.
E ora, naturalmente, resto in attesa del vostro indignato post anche sul vino. Così ci togliete pure quel bicchiere delle 21:15, quello bevuto in tuta mentre carichiamo la lavatrice e scarichiamo il giorno dalle spalle... Dopo lo spinello, via anche il Merlot.
Alla fine ci resterà solo il respiro. E siamo certe che troverete il modo di regolare pure quello, magari con un algoritmo ben pensato e un hashtag di tendenza.
Ma almeno, stavolta, prima di scandalizzarvi chiedetevi perché beviamo.
Chiedetevi perché fumiamo.
Perché resistiamo a denti stretti e mani occupate.
E soprattutto, chiedetevi che cos’ha fatto questo Paese per evitarlo.
Perché non è l’erba il problema.
E nemmeno il vino.
Il problema è tutto il resto.
E noi, che ogni tanto, proviamo solo a respirare.







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