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Italia, dove stai andando?

  • Immagine del redattore: giorgia dublino
    giorgia dublino
  • 4 lug
  • Tempo di lettura: 4 min

C’è un momento in cui le frasi che dovrebbero essere ovvie, come “la vita viene prima”, iniziano a fare paura. Quando un principio umano, semplice e profondo, viene trattato come una minaccia. Quando chi lo pronuncia viene zittito, rimosso, isolato.

Non stiamo più parlando solo di un generale o di un’istituzione. Stiamo parlando di un Paese che sta perdendo l’orientamento. Dove i gesti umani vengono fraintesi come debolezza, e la rigidità cieca viene celebrata come virtù.

Le coordinate saltano. E non è solo un modo di dire.

Stiamo smarrendo il nord, il centro, persino il perché. Si confonde il rispetto con il silenzio, l’obbedienza con l’annullamento, la coerenza con la chiusura.

In un tempo in cui servirebbe lucidità, chi prova a parlare con equilibrio e cuore viene fatto passare per destabilizzante.

E mentre tutto questo accade, fuori (nella vita vera) le persone sono stanche. Non si sorride più per strada. Si abbassano gli occhi, si tira dritto. La gente è arrabbiata, e lo è in silenzio, con una rabbia che si accumula sotto la pelle: nei supermercati, nei treni, nei pronto soccorso, davanti agli sportelli pubblici. Le famiglie si sentono tradite. I giovani si sentono presi in giro. I vecchi si sentono scartati.

Intanto piovono decreti, tagli, strette burocratiche. Leggi che sembrano pensate più per controllare che per aiutare: si colpisce chi manifesta, si punisce chi accoglie, si smantellano pezzi di welfare, si riducono gli spazi di parola.

Il cittadino diventa suddito. Il dubbio, colpa.

Immagini e parole, restano appiccicate addosso come un disagio. Come quella dell’aula di tribunale in cui Matteo Salvini testimonia contro Roberto Saviano.

Due figure che personalmente non stimo, ma che in quel contesto diventano il riflesso deformato di un’epoca.

Non è un processo sulle idee, eppure lo sembra. Non è censura, ma ci somiglia.

È un Paese che trascina gli scrittori in aula e chiama i politici a fare i testimoni d’accusa. Un Paese in cui la legge pare usata più per regolare i conti che per garantire diritti.

E anche quando non si simpatizza per nessuno dei due, si avverte una crepa: qualcosa non torna.

Qualcosa si è rotto.

Ma ci deve essere una differenza tra guida e comando. Guidare significa prendersi cura. Comandare, spesso, significa imporre.

Se non siamo più capaci di distinguere tra queste due cose, rischiamo di costruire un Paese dove l’autorità si misura in silenzi imposti, e il valore delle persone nella loro capacità di non creare problemi.

Ma una società sana non ha paura delle domande. Non teme la coscienza. Non punisce chi mette al centro la persona.

Quando dire che la vita vale più di un ordine diventa un atto sovversivo, significa che qualcosa si è spezzato. Che le coordinate morali, istituzionali e persino culturali stanno saltando.

Stiamo perdendo la capacità di distinguere la disciplina dalla rigidità cieca, l’autorevolezza dall’autorità, la guida dal comando.

In un Paese così, chi parla con cuore e lucidità viene allontanato e chi obbedisce senza pensare, promosso.

Ma un’Italia così, dove va?

Mentre l’Europa si riarma, qui crolliamo in silenzio. Negli ultimi cinque anni sono scomparse oltre 59.000 imprese manifatturiere; un calo di oltre il 10 % tra il 2019 e il 2024, con settori nevralgici come moda, pelletteria e meccanica industriale tra i più colpiti. Solo per il 2024‑25, Cerved stima che quasi l’8,5 % delle PMI italiane rischia la chiusura.

Non è un’emergenza futura: è già in atto.

Ecco perché manager e dipendenti delle multinazionali e delle eccellenze certificano allo stesso tavolo al Ministero del Made in Italy per provare a salvare ciò che resta. Ci sono tavoli di crisi attivi in decine di realtà, dalle acciaierie alle concerie fino all’hi‑tech.

Eppure nessuno ne parla davvero: nessuna mobilitazione, nessuna presa di posizione netta. Il Made in Italy che per decenni ha rappresentato l’orgoglio del mondo, oggi vale meno del silenzio di chi è costretto a scrivere lo “stato di crisi” invece che sognare l’export.

Chi resiste in azienda lo fa ogni giorno, con meno tutele, meno certezze, meno futuro.

Si moltiplicano le spese militari, si parla apertamente di coscrizione obbligatoria, di investimenti in armamenti, di economia di guerra. I leader sembrano più impegnati a evocare il conflitto che a prevenirlo.

E l’Italia? L’Italia firma, allinea, tace. Nessuno che dica chiaramente: noi no. Nessuno che alzi la voce per dire che il coraggio, oggi, non è in chi si arruola alle armi, ma in chi diserta il pensiero unico della paura.

Altrove qualcuno prova a farlo. In Spagna, per esempio, c’è chi denuncia il riarmo come scelta politica mascherata da necessità. In Francia, centinaia di intellettuali e insegnanti hanno firmato appelli contro la militarizzazione del linguaggio e della scuola.

E noi? ...Eppure dovrebbe bastare una parte del Paese.

È già successo. È successo a Napoli, nel 1943. Una città intera, con donne, ragazzi, operai, insorse e mandò a fanculo i nazisti in tre giorni. Senza armi, senza eserciti, ma con un senso della dignità che oggi sembriamo aver smarrito. Perché quando la coscienza si accende, anche una sola città può cambiare la Storia.

Non serve una rivoluzione, basta svegliarsi. Smettere di accettare l’assurdo come inevitabile, il disumano come normale. Basta anche solo una voce che non si piega, una comunità che si alza, una città che dice “non ci sto”.

La coscienza, quando si accende, è contagiosa, ma deve cominciare da qualcuno.

In questo Paese esiste ancora un popolo che pensa, che lavora, che si indigna. Non si vede nei sondaggi, non urla nei talk show. È quello che si alza la mattina e si porta sulle spalle l’intero peso del silenzio, ma ogni tanto quel popolo si ricorda chi è. E smette di obbedire.

Non per distruggere. Ma per ricostruire ciò che hanno venduto senza chiederci niente.

Restare umani. Restare coscienti. Restare presenti.

In un Paese che perde le sue coordinate, ognuno di noi può essere il punto fermo.

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