Appunti di una cittadina.
- giorgia dublino
- 12 giu
- Tempo di lettura: 6 min
Questi sono gli appunti di una cittadina. Non un’analista, non un’eletta, non una che ha la risposta pronta. Solo una che osserva, ascolta, incassa. E a un certo punto scrive. Opinioni. Sensazioni.
È probabile pure che siano cazzate, ma il mio cervello, come fa ogni giorno con ciò che vede, sente, subisce ha elaborato una mappa.
Una semplificazione. Una proiezione.
Una versione parziale del reale, come tutte le mappe. Perché sì: la mappa non è il territorio!
Quello che vedi non è mai tutto. È una sintesi, una scelta, una distorsione a volte.
Ma è l’unico modo che abbiamo per orientarci nel caos.
Non pretendo di avere ragione. Ma pretendo di provare a capire.
E in questo tentativo ci metto dentro l’umano, il politico, il personale.
Ci metto le bandiere, i silenzi, le urla non ascoltate, i gruppi WhatsApp, il cibo che manca a Gaza e la pacca sulla spalla a chi reprime.
Questa è la mia mappa: forse non coincide col tuo territorio, ma se stai leggendo, forse abbiamo almeno un paesaggio in comune.
C’è un gesto che ha fatto più male di molte parole.
Non un decreto, non un voto in aula, non l’ennesimo taglio mascherato da riforma.
Una pacca sulla spalla per la Presidente del Consiglio che in Senato, nel giorno in cui passava, senza troppo clamore, un decreto che rafforza la repressione e limita il dissenso.
Un gesto breve, istituzionale, quasi affettuoso.
Ma pieno di significato.
Pieno di quella complicità tra potere e consenso che rende tutto normale. Legittimo. Persino giusto.
E lì, in quel momento, ho avuto un pensiero che non mi aspettavo: appendere tutte le bandiere della Palestina al posto di quelle del Napoli calcio.
Non perché non ami la mia città, non perché il calcio non sia, a suo modo, un linguaggio popolare.
Ma perché in questo momento il silenzio fa più paura del rumore.
E mentre lo Stato si assicura che nessuno possa più bloccare una strada, alzare la voce o srotolare uno striscione senza rischiare una denuncia.
Io mi sento moralmente obbligata a lasciare un segno.
Dall’altra parte dell’oceano, intanto, Trump ha ordinato il dispiegamento dei Marines e della Guardia Nazionale a Los Angeles, in risposta a proteste antirazziste e alle nuove retate contro i migranti.Il governatore Gavin Newsom ha parlato apertamente di “un attacco alla democrazia”, accusando Trump di “fabbricare crisi per trarne vantaggio politico”.
E non finisce qui.
Vuole pene fino a un anno di carcere per chi brucia la bandiera americana, nonostante la Corte Suprema l’abbia sempre ritenuto un gesto protetto dal Primo Emendamento.
Minaccia di applicare la legge di insurrezione del 1807.
Progetta una parata militare a Washington, con tanto di nomine onorarie ai generali confederati.
In molti parlano ormai di svolta autoritaria, di un’America che si irrigidisce, che preferisce la forza al confronto, la repressione alla mediazione. E mentre guardiamo con stupore e distanza quello che accade là, qui in Italia, con un altro lessico ma la stessa logica, qualcosa di simile ha già preso forma.
Le critiche sono arrivate: dal PD, dal M5S, dai sindacati come la CGIL, fino a ONG internazionali come Human Rights Watch, Antigone e persino osservatori ONU, che parlano apertamente di deriva autoritaria.
Il governo invece lo definisce uno strumento di ordine pubblico.
Ma la domanda rimane sospesa, in gola: ma tutto a posto?
Perché mentre in America si spara ai cortei, in Italia si criminalizzano le proteste.
Mentre lì si militarizzano le città, qui si ammutolisce la piazza.
E allora forse non è poi così diversa, questa corsa al controllo.
Forse il problema non è più solo chi comanda.
Ma anche quanto siamo disposti a lasciar fare.
E allora viene da chiederselo: che fine ha fatto la disobbedienza civile?
Non quella violenta, distruttiva, rabbiosa. Ma quella che nella storia ha portato progresso, consapevolezza, diritti. Quella che ha fatto da argine al potere quando diventava cieco.
Oggi, invece, la disobbedienza è “pericolosa”, “da reprimere”, “da punire”.
Lo dice un decreto.
Lo conferma un Parlamento.
Lo celebra una pacca.
E mentre qui si criminalizza chi si sdraia in strada per fermare un camion, nel Mediterraneo... e nei notiziari addomesticati, i bambini di Gaza continuano a morire.
Sotto le bombe. Tra le macerie. Nel silenzio.
Decine di civili uccisi, centinaia di feriti, colpiti mentre cercavano cibo, acqua, speranza. E non in un conflitto aperto, ma in una coda per sopravvivere.
E noi qui, a guardare, con le finestre chiuse, i balconi addobbati solo per le feste di quartiere.Come se la sofferenza, se è lontana, non ci appartenesse.
Ma se è tutto legale, è anche tutto giusto?
Questa è la domanda che ci stanno disabituando a fare.
Ci vogliono spettatori, non cittadini. Consumatori di decreti, non portatori di coscienza. Soggetti passivi, purché tranquilli.
Ecco perché le bandiere, oggi, valgono più di un tweet.
Perché sono lente. Visibili. Ostinate.
Non vanno via con uno scroll.
Restano. Disturbano. Chiedono di scegliere da che parte stare.
Non so se appendere quelle bandiere servirà a qualcosa.
Forse no. Forse sì.
Finirò per credermi parte di un Paese che non mi rappresenta più. Un Paese che applaude la fermezza e dimentica la compassione. Che reprime i corpi e censura i sentimenti. Che dà pacche sulle spalle a chi sottrae diritti, e poi chiede “moderazione” a chi ha solo il coraggio di farlo notare.
Io non sono moderata.
Sono stanca.
E quando si è stanchi, non si può più stare zitti.
Perché il silenzio, oggi, non è più una zona neutra.
È una scelta. È una resa. È una firma invisibile in calce a tutto quello che non approviamo, ma lasciamo fare.
Ci sono i referendum.
Quelli che dovrebbero essere lo strumento più diretto e popolare della democrazia. Quelli che, sulla carta, servono ai cittadini per dire “no” a una legge che non li rappresenta.
Peccato che non ci vada più nessuno.
Peccato che basta un po’ di astensione per affondare tutto.
E adesso, come se non bastasse, Forza Italia propone di raddoppiare le firme necessarie per proporne uno: da 500.000 a 1 milione. Come dire: non basta che pochi ci credano, rendiamolo anche più difficile da tentare.
Un altro giro di vite. Un’altra porta chiusa.
Un’altra occasione in meno per farsi sentire.
E mentre il dibattito istituzionale si consuma sul quorum e sulla legittimità popolare, io penso a quelli che non votano non per disinteresse, ma per paura.
Gente che lavora a nero, che vive in bilico, che si è fatta un equilibrio precario e ha terrore che qualcuno lo smuova. E nella loro testa passa un pensiero semplice e spietato: “Se vado a votare mi sgamano. E ora sto così bene, chi me lo fa fare?”
E come dargli torto del tutto?
Perché in Italia le tasse sono alte, spesso sproporzionate, e non corrispondono ai servizi ricevuti.
Paghi tanto, ma in cambio hai asili insufficienti, sanità al collasso, trasporti che fanno acqua, giustizia lenta e scuola precaria.
È il patto sociale che si è rotto: lo Stato pretende, ma non restituisce.
E così l’evasione diventa una zona grigia, non più solo furbizia, ma autodifesa, sopravvivenza, sfiducia.
Molti pensano: “Se dichiaro tutto mi stritolano. Se resto invisibile almeno respiro.”
Ma questo ragionamento, che pure ha radici comprensibili, è anche quello che ci sta dissanguando tutti. Perché lo Stato, nel dubbio, fa cassa dove può. E alla fine paga sempre chi è tracciabile, chi non può scappare, chi già fatica.
Così si crea una società paralizzata: nessuno si fida, nessuno si espone, nessuno partecipa.
Ma tutti si lamentano.
Proprio come succede, ogni giorno, in quel luogo in apparenza innocuo ma rivelatore: il gruppo WhatsApp.
Il regno della lamentela senza responsabilità.
Dove tutti sanno cosa non va, ma pochi si prendono la briga di fare.
Dove si parla troppo e si fa poco.
Dove ci si ricorda degli altri solo per chiedere, mai per offrire.
Dove si scarica, si delega, si commenta, ma non si costruisce nulla.
E allora mi chiedo: se non riusciamo a essere civili in uno spazio con venti persone e una notifica ogni dieci minuti, come possiamo pensare di essere cittadini in uno Stato con sessanta milioni di anime?
Non lo so se cambierà qualcosa.
Se una bandiera al balcone, una firma sotto una petizione, una parola scritta con rabbia e lucidità possano davvero smuovere qualcosa. Non lo so se qualcuno si sveglierà, se cominceremo a riconoscerci di nuovo come parte di una comunità invece che utenti di passaggio.
Ma so che tutto ciò che non si dice, non esiste.
E tutto ciò che si rimanda, si perde.
So che oggi, in un Paese dove si può essere schedati per una bandiera e premiati per un decreto che spegne il dissenso, il silenzio non è neutrale. È complice.
E allora scelgo di non stare zitta.
Scelgo di esserci, anche da sola.
Scelgo di dire, di firmare, di appendere, di disturbare, di condividere.
Perché se nessuno comincia, non comincia nessuno.
E a furia di aspettare gli altri, smetteremo di esistere anche per noi stessi.
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