Le mani, dove il pensiero si fa gesto.
- giorgia dublino

- 5 giu
- Tempo di lettura: 7 min
Alberto entra, l’acqua scorre, il bagnoschiuma sparisce. Ma le mani… nemmeno sfiorate. Come se avessero avuto l’immunità diplomatica dal sapone. È come se nel suo cervello si attivasse questa logica: “Mi sto lavando tutto… quindi le mani si laveranno da sole, per forza. Sono in doccia, no?”
No! La doccia non è una lavatrice a ciclo integrale. Le mani, se non le strofini, restano uno stato a parte. E se prima avevi il cioccolato sotto le unghie, ora hai… cioccolato umido.
È il mistero pedagogico del secolo: la doccia selettiva.
Un classico dei bambini: riescono a lavarsi i capelli dimenticandosi la testa.
E quando glielo fai notare? Ti guardano confusi, offesi quasi, come se tu fossi l’assurda: “Ma ho fatto la doccia! Me lo stai dicendo sul serio?!”
Sì. Sul serio. Le mani fanno parte del corpo. Sorpresa.
E io ho pensato: ma com’è possibile?
Come si fa a lavarsi tutto, e dimenticarsi proprio le mani?
Poi mi è venuto in mente che lo facciamo tutti, ogni giorno.
Ci laviamo le coscienze. Facciamo bei discorsi. Postiamo citazioni, ci indigniamo per le ingiustizie del mondo. Ma spesso ci dimentichiamo di guardare le nostre mani: cosa stringono, cosa lasciano, cosa sporcano.
Le mani sono azione. Contatto. Responsabilità. E non si lavano da sole, nemmeno sotto la pioggia di buoni propositi.
Le mani, non sono mai solo mani: sono simboli potentissimi. Parlano di azione, potere, relazione, colpa, creatività e destino.
Le mani, in molte culture del mondo, non sono solo strumenti fisici, ma simboli profondi di protezione, potere, destino e relazione.
Nel mondo mediorientale, ad esempio, troviamo l’Hamsa, conosciuta anche come Mano di Fatima o di Miriam: una mano aperta, spesso raffigurata con un occhio al centro, capace — secondo la tradizione — di allontanare il male e portare fortuna.
In India, invece, i gesti delle mani sono parte di un linguaggio sacro: le mudra. Ogni posizione delle dita comunica uno stato d’animo, una preghiera, una qualità spirituale — come la pace, il coraggio, l’apertura.
In molte religioni, lavarsi le mani assume un significato preciso. È il gesto simbolico del distacco dalla colpa, come fece Ponzio Pilato: un lavaggio solo apparente, che non cancella, ma serve a scaricare la responsabilità.
Nella tradizione ebraica, invece, c’è il Netilat Yadayim, il lavaggio rituale delle mani prima del pane, al mattino, dopo il bagno. Un atto che non ha nulla di estetico: è un gesto di purificazione. Perché le mani, nel toccare il mondo, assorbono anche la sua impurità.
C’è poi il tema del destino. In molte culture, la mano è considerata una mappa personale: le linee che la attraversano raccontano chi siamo, cosa abbiamo vissuto, dove potremmo andare. La chiromanzia, presente in diverse tradizioni, distingue tra la mano “sociale”, quella destra, e quella “originaria”, la sinistra: la prima racconta ciò che scegliamo, la seconda ciò che ci portiamo dentro.
In alcune culture africane, le mani vengono decorate e dipinte nei riti di passaggio: sono segno di appartenenza, strumento di trasformazione, testimonianza visibile del cambiamento.
In molte tradizioni asiatiche, infine, offrire qualcosa con entrambe le mani è un atto di rispetto profondo, un dono completo, che coinvolge il corpo e lo spirito.
E nei Vangeli, le mani diventano veicolo di miracolo: Gesù impone le mani per guarire, per benedire, per toccare la sofferenza e trasformarla.
La mano, fin dall’origine della parola, è legata al fare, all’agire, al potere di trasformare.
Non a caso emancipare (da ex-manus capere) significa “togliere dalla mano”, rendere libero.
La parola "mano" nasce per afferrare. E forse è proprio questo il nostro problema: crediamo che basti stringere qualcosa per possederlo, ma spesso ci dimentichiamo che le mani servono anche a lasciare andare.
Le mani parlano. Anche quando stanno ferme.
Anche quando dimenticano di lavarsi, come ha fatto mio figlio ieri, uscito trionfante dalla doccia, con le mani ancora incrostate.
Tutto il corpo pulito. Tranne la parte che tocca il mondo.
Ecco, forse è questo il punto: le mani sono la nostra frontiera. Sono quelle che portano dentro casa la realtà: fango, graffi, carezze, colpe.
E non c’è doccia che basti se dimentichiamo di guardarci proprio lì, dove finisce il pensiero…e inizia il gesto.
I napoletani lo sanno: a gesti si capisce meglio. Ma non è solo un cliché, è una grammatica alternativa. C’è il gesto che ti chiede “che stai dicenn’?”, quello che ti avvisa “statte fermo”, quello che spiega “tutt’appost” anche quando tutt’appost non è. Mani che si alzano verso il cielo per invocare un miracolo o maledire un semaforo. Mani che pizzicano il vuoto per dare il ritmo a una lamentela. Mani che toccano, sfiorano, spingono, guidano il sentimento prima della voce.
E se pensi che sia folklore, hai capito poco, perché a Napoli le mani trasmettono verità: sono sincere, esagerate, ruvide, affettuose, teatrali.
Le mani napoletane non si lavano dalle responsabilità, si sporcano di realtà.
Perché la verità, qui, si tocca. Si fa. Si gesticola.
Sono strumenti di partecipazione e servono a fare il sugo e a fare la rivoluzione... A toccare il dolore, senza filtri. A tenere il mondo con dita intrecciate.
Nel Giappone antico, le mani erano considerate porte spirituali: i samurai non toccavano nulla “impuro” con le mani nude. Le mani erano sacre, perché esprimevano volontà. Ma sempre contenute. Sempre trattenute. Eleganza, controllo, distanza.
A Napoli? Il contrario.
Le mani sono espansione dell’anima. Si muovono come se volessero uscire da te, prendere parola, stringere la vita. Sono l’opposto del silenzio cerimoniale: sono il teatro aperto dell’esistenza.
Non stiamo parlando né del napoletano aristocratico con la mano leggera da ventaglio e il dito alzato da salotto liberty, né di chi ha il portafoglio pieno e le radici leggere che gesticola per apparire, non per sentire.
Qui stiamo parlando del napoletano autentico, quello popolare, viscerale, espressivo, che ha imparato a parlare con le mani prima ancora che con la bocca, perché nella vita vera le parole a volte non bastano.
E allora le mani parlano per te.
Sono le mani del fruttivendolo che ti pesa le emozioni insieme ai pomodori.
Quelle del muratore che prima di iniziare il lavoro si fa il segno della croce.
Quelle della nonna che benedice, impasta, accarezza e rimprovera con lo stesso gesto.
Sono le mani non educate al galateo, ma profondamente istruite alla verità del gesto.
Ecco perché questa riflessione non è folclore da cartolina, né estetica da fiction, ma antropologia emozionale di una città che tocca prima di spiegare.
Sotto le mani che impastano, sotto le parole che raccontano, sotto l’arte, il talento, la rabbia e la luce che tutti ci riconoscono.
E allora perché, con tutta questa bellezza, siamo così rovinati a Napoli?
Ho provato a darmi una risposta!
Abbiamo imparato a cavarcela a modo nostro, con l’ingegno, con la scena, con le mani e con la voce.
Ma cavarsela non è lo stesso che vivere bene. E vivere bene non è solo un talento, è anche un diritto.
Un diritto che spesso ci è stato negato con metodo.
Napoli è una città dove la sopravvivenza è diventata cultura, dove l’adattamento si è fatto arte, ma a furia di adattarci abbiamo normalizzato l’anomalia, resi poetici anche i buchi, le ingiustizie, i topi, i politici corrotti e i cimiteri abbandonati.
A Napoli la gente ride mentre crolla.
Ti offre il caffè anche se non ha niente.
Si inventa un lavoro dove lo Stato ha lasciato vuoto.
Ma intanto, si rompe. Dentro. E attorno.
La nostra umanità è straordinaria, ma da sola non basta a rimettere a posto una città che è stata spolpata, ignorata, disillusa.
I nostri artisti non hanno reti.
I nostri studenti scappano.
I nostri mestieri non fanno carriera.
I sogni si realizzano altrove, ma si sognano solo qui.
E il potere? Sta sempre in mano a chi non si sporca. A chi non conosce il vicolo, non sa cosa vuol dire arrangiarsi, non ha mai gesticolato per spiegare a un bambino affamato che oggi non ce n’è.
Siamo rovinati perché ci hanno insegnato a non pretendere, a dire “è sempre stato così”, a cercare fortuna, non giustizia. A trovare la scorciatoia, non la soluzione.
Eppure… nonostante tutto questo, non siamo finiti.
Siamo rovinati, sì.
Non ci fanno emergere perché sanno che, se solo ci dessero campo libero, cambieremmo le regole del gioco prima ancora che se ne accorgano.
E non parlo solo di creatività, talento, cultura.
Parlo di capacità di visione, intelligenza sociale, genio strategico travestito da caffè al bar.
A Napoli non manca niente. Tranne una cosa: l’autorizzazione a essere riconosciuti per quello che siamo davvero. Perché se ci vedessero davvero, non come folklore, non come problema, ma come modello alternativo di vita, il sistema salterebbe.
Altro che “capitale del Sud”: ci prendiamo pure la regia del futuro.
Perché noi sappiamo pensare in diagonale.
Perché dove loro si impicciano con procedure, noi troviamo la scorciatoia intelligente, che non è fregatura: è ottimizzazione umana.
Perché accattiamo col pensiero, non solo col portafoglio.
Perché abbiamo imparato a creare valore dal nulla, dalla crisi, dall’assenza.
E il paradosso è che il Nord, che ci guarda dall’alto, è una macchina che arranca senza la nostra energia sotto. Ci vuole come forza-lavoro, come export culturale, come folklore da copertina.
Ma guai a darci i mezzi per costruire un sistema nostro.
Perché se emergiamo davvero, finisce il monopolio... Finisce il mito del “ce la fanno solo loro”. Finisce la narrazione della “Napoli incapace”.
E inizia il panico: perché la creatività napoletana, una volta liberata, non si contiene.
Non è un caso se i nostri cervelli funzionano ovunque, ma qui li fanno sentire scomodi.
Non ci possiamo accontentare dell’esistente.
Lo dobbiamo cambiare.
Lo dobbiamo capovolgere.
E questo… fa paura???
E allora torno lì, a mio figlio Alberto che esce dalla doccia, contento, profumato, ma con le mani ancora sporche.
Perché nella sua testa, se si è lavato tutto, allora sarà bastato.
E invece no.
Le mani non si lavano da sole.
Vanno strofinate, guardate in faccia, affrontate sul serio.
Perché sono loro il punto di contatto con la realtà: toccano il mondo, lo sporcano, lo trasformano.
E lo sanno anche loro: quelli che ci tengono sotto traccia.
Sanno che se Napoli comincia a guardarsi le mani,
se invece di nasconderle le usa per scegliere, cambiare, costruire… allora non ce n’è per nessuno.







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