Riposa in pace, tra le crepe e l’erba alta. Una visita al cimitero.
- giorgia dublino
- 8 mag
- Tempo di lettura: 4 min
Sono 48 ore che la civiltà… o meglio, la sua parodia, mi sta ispirando.
Un crescendo di dettagli, situazioni, contraddizioni talmente surreali da sembrare sceneggiature. Ma non lo sono. Sono vere. Le osservo, le annoto, le fotografo.
Perché in questo paese basta uscire di casa per trovare materiale da trattato sociologico o da tragicommedia.
E oggi, il colpo di genio definitivo: una visita al cimitero nuovo di Napoli.
Un posto dove il tempo si è fermato. Ma non per poesia, bensì per incuria. Un luogo dove i morti non riposano in pace, ma piuttosto si assestano tra lastre spaccate, croci cadenti e bidoni traboccanti. Il “nuovo” cimitero. Nuovo di nome, vecchio di degrado.
Una distesa di marmo spezzato, erbacce in fiore, vialetti che sembrano usciti da un set post-apocalittico. Alcune tombe sembrano crateri, altre relitti archeologici. Il tutto adornato da una raffinata selezione di rifiuti sparsi qua e là.
Chi ci entra porta fiori, chi ci esce porta indignazione. Chi ci resta… beh, forse spera che almeno l’erba alta copra la vergogna.
Siamo nel regno dell’abbandono, ma con vista Vesuvio. Un’eccellenza tutta partenopea, dove anche il decoro ha deciso di morire.
Il silenzio è rotto dal suono sordo delle lastre che si spaccano sotto il peso dell’incuria. Lapidi divelte, marmo crepato, vasi riversi come dopo una guerriglia urbana.
Nel cuore dell’area destinata ai più “umili”, a giudicare dalla densità di croci in legno, le tombe sembrano più che altro caselle di un gioco macabro: chi ha perso il coperchio, chi l’identità, chi pure la dignità.
Una crepa come una faglia tettonica, altre che galleggiano su un tappetino di erba sintetica che nemmeno a San Siro. Siamo passati dalla pietà eterna alla mancanza strutturale, con un’architettura da post-terremoto e un arredo urbano degno di un deposito di rifiuti.
E non è finita. Se ti avventuri più in là, oltre i vialetti dissestati dove l’unica manutenzione è quella offerta dalle erbacce spontanee, arrivi a un’area che più che un cimitero sembra un campo incolto con croci piantate a caso. Una coreografia degna di una scena tagliata da “The Walking Dead”.
Poi ci sono i viali, i gloriosi viali di sampietrini, con i bidoni della spazzatura messi come sentinelle del degrado. Ma forse è solo un’installazione artistica, una performance di arte pubblica dal titolo “La città che non si prende cura neanche dei morti”.
E infine, l’angolo della giungla: dove un tempo c’erano tombe, oggi ci sono cespugli, fiori selvatici e frammenti di pietra come monumenti all’abbandono. Non è chiaro se qui riposino dei defunti o dei reperti. Di certo, a riposare da troppo tempo, sono gli amministratori competenti.
Parlano di piantare alberi “in giro per la città”, di restituire ossigeno, bellezza, radici. Ma forse dovremmo iniziare dai luoghi dove le radici affondano davvero. In profondità. Dove la memoria ha bisogno di ombra, cura, dignità. Invece, qui al cimitero nuovo di Napoli, il verde arriva solo sotto forma di infestanti e l’unico albero piantato è quello delle promesse elettorali seccate al sole.
Altrove, il cimitero è un’estensione della vita, non un parcheggio di morte. In alcune culture, messicane, ad esempio, si fa il picnic accanto ai defunti. Si mangia, si chiacchiera, si ride tra le tombe in spazi pensati per accogliere, non per respingere.
In Giappone, i cimiteri sembrano giardini zen: silenziosi, ordinati, puliti. Le lapidi sono curate con amore quasi quotidiano, come se la vita continuasse lì, tra una ciotola di incenso e un fiore sempre fresco.
In Norvegia, i cimiteri sono luoghi pubblici di contemplazione, integrati nel tessuto urbano, dove puoi sederti a leggere, passeggiare, respirare. Qui da noi se ti siedi, rischi che ti cada una lastra di marmo in testa. E non è una metafora.
Da noi il riposo eterno è una battaglia a turni: contro il tempo, l’abbandono, le infiltrazioni. Altro che “qui giace”: qui sprofonda, qui si sfalda, qui si dimentica.
Eppure, sarebbe così semplice: un po’ di verde vero, un piano di manutenzione minimo, una visione che veda i cimiteri non come l’ultima pagina di un faldone burocratico, ma come parte viva del paesaggio umano. Perché, lo diceva anche Calvino, “la memoria è come la sabbia: sfugge, ma lascia tracce”. E queste, purtroppo, sono solo di degrado.
Sono stata a Dublino, tempo fa. Avevo deciso che attraverso qualche defunto avrei scoperto le origini del mio cognome.
Mi sono ritrovata tra le lapidi in un viaggio nei cimiteri.
La bellezza di quei cimiteri? Distese ordinate, curate, silenziose ma vive. Luoghi che raccontano, accolgono, nutrono la memoria come un giardino nutre le stagioni. Nulla di tetro: solo una struggente dignità.
Alcune tombe sembrano scrivanie: fiori freschi, lettere, oggetti cari. Ci sono alberi, panchine. Nessun senso di abbandono. Nessuna lastra traballante. Nessun bidone che fa capolino tra le tombe come un ospite indesiderato.
Poi torni a Napoli. Al cimitero “nuovo”. E ti sembra di aver attraversato un portale spazio-temporale: da “Viaggio al centro della memoria” a “Benvenuti in Discarica Express”.
Qualcuno dirà che servono fondi, gare d’appalto, volontà politica. Forse.
Ma a volte basterebbe iniziare da un’idea, da un gesto, da un po’ di vergogna ben incanalata.
Io, per esempio, un progetto di rigenerazione ce l’avrei pure.
Ma non ve lo dico. Non per dispetto, sia chiaro. Ma perché mi dovete chiamare. E dovete chiedere scusa.
Non a me soltanto ma a tutti quelli che passano in silenzio tra le tombe rotte e le erbacce alte, sperando ancora che la memoria abbia un posto. Che il rispetto non sia un’eccezione.
Nel dubbio, la mia idea la tengo nel cassetto… anche perché in questo paese, se hai un’idea buona, o te la copiano male o ti chiedono di realizzarla gratis.
Ma voi, intanto, fatevi un giro al cimitero nuovo.
Portate un fiore.
E un elmetto.
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