Lezioni di democrazia creativa con Giorgia (no, non io. L’altra.)
- giorgia dublino

- 8 giu
- Tempo di lettura: 3 min
In un Paese dove l’astensione è diventata tendenza, lo Stato cucina la democrazia a bassa temperatura e te la serve con finta gentilezza: “Puoi scegliere se andare a votare… oppure no. Ma fallo civilmente, eh.”
Con il referendum dell’8 e 9 giugno 2025, tra un quesito abrogativo e un’insalata di interpretazioni, abbiamo assistito a un vero spettacolo da chef dell’ambiguità istituzionale. In cucina: Giorgia. No, non io. L’altra Giorgia. Quella con la divisa da presidente del Consiglio e il grembiule da influencer istituzionale.
Sì, il dato sull’affluenza di ieri (22,73%) è un segnale politico molto forte. O meglio: un silenzio assordante.
In Italia, perché un referendum abrogativo sia valido, è necessario che voti almeno il 50% + 1 degli aventi diritto. Con un’affluenza del genere, il referendum è fallito per mancanza di quorum. E anche rumorosamente.
Ma attenzione: non è solo colpa dell’apatia. È che ci sono più tipi di silenzio, e non tutti si equivalgono.
C’è quello beneducato e strategico, in giacca e cravatta, che arriva da chi comanda e “non invita nessuno”, ma nel dubbio non vota.
E poi c’è il silenzio di chi la politica la vive solo nei suoi effetti collaterali: contratti a termine, stipendi da fame, lavori in nero, mancanza di tutele.
Gente che non ha il tempo, la forza o il privilegio di illudersi che una scheda possa cambiare qualcosa.
In molte città, il referendum è percepito come un esercizio per chi ha il contratto a tempo indeterminato e la cena pronta alle otto.
Per tanti, l’astensione non è una scelta politica, è disillusione strutturale. È la voce stanca di chi si è già sentito escluso da tutto, figuriamoci dalla scheda.
Il risultato?
Un’astensione di massa in cui convivono strategie istituzionali e realtà ignorate. Un Paese che “non partecipa” perché o gli conviene non votare, o non se lo può permettere.
Ed è proprio da qui che nasce la nostra ricetta del giorno: tramezzino alla democrazia creativa con ripieno di dichiarazioni contraddittorie e salsa al finto rispetto delle istituzioni.
Per prepararla servono:
24 ore di dichiarazioni vaghe
48 ore di smentite parziali
72 ore di polemiche indignate
una spruzzata di “io rispetto le istituzioni, ma...”
e una coreografia finale al seggio, rigorosamente senza toccare l’urna
Una democrazia performativa, che si mostra ma non si consuma.
Un voto simbolico al negativo.
Una presenza scenica, come il prezzemolo, che non cambia il gusto ma fa arredamento.
L’immagine è semplice: un tramezzino apparentemente innocuo; all’interno, invece della sostanza democratica, trovi solo insalata di disillusione.
Perché se il governo ti dice: “Io non vado a votare, ma vado comunque al seggio...” tu, cittadino, inizi a chiederti se sei stupido, idealista, o tutte e due.
Il sottotesto è chiaro: “Io non partecipo, ma comando. Io non scelgo, ma rappresento. Io non voto, ma decido lo stesso.”
Una meravigliosa forma di democrazia-decorazione.
In questa cucina post-costituzionale, la vera portata non è la legge, ma la sua interpretazione creativa.
L’articolo 98 del Testo Unico delle leggi elettorali vieta a chi ricopre cariche pubbliche di indurre all’astensione? Sì. Ma solo se lo fai troppo apertamente. Se invece lo fai con allusioni eleganti, dirette streaming e gesti simbolici, allora si chiama “comunicazione strategica.”
La verità è che un diritto, per essere esercitato, deve prima essere riconosciuto come tale.
E in Italia, il voto referendario è trattato come il pane raffermo della democrazia: lo si serve solo se ci sono avanzi di indignazione.
Nel frattempo, i ruoli familiari restano coerenti: il padre dà il cognome, la madre il latte, lo Stato il permesso di voto, ma solo se ti comporti bene.








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