top of page

Emozioni in streaming.

  • Immagine del redattore: giorgia dublino
    giorgia dublino
  • 10 giu
  • Tempo di lettura: 7 min

Le serie TV non sono più solo intrattenimento. Sono una forma di alfabetizzazione emotiva e culturale. Guardarle è come frequentare un corso accelerato di comunicazione, relazioni tossiche, tecniche di sopravvivenza post-rottura e micro espressioni facciali.

E soprattutto… di linguaggio.

Ogni serie è un po’ specchio, un po’ tutorial sentimentale, un po’ autoanalisi travestita da binge-watching.

La più antica delle parole moderne.

L’ho ritrovata nella nuova stagione di And Just Like That, e da lì il mio cervello ha iniziato a intercettarla ovunque: serie, dialoghi, didascalie.

“Cool” non significa più solo “alla moda” o “stiloso”. È diventato un atteggiamento esistenziale: la capacità di restare impassibile anche quando la tua vita sembra scritta dagli sceneggiatori di Euphoria dopo una notte insonne.

In pratica: se sei cool, puoi sbagliare tutto… ma farlo con stile.

È lo status di default di ogni personaggio con trauma irrisolto e guardaroba monocromatico.

Se non rispondi al telefono, sei misterioso.

Se piangi ma con l’eyeliner perfetto, sei cool.

Il problema di essere cool è che a volte diventa una forma di autodifesa così ben costruita… da diventare un'arma. Di solito parte come stile, poi diventa schermo, infine scudo spaziale. E chi ha imparato a non mostrare niente, neanche un “mi manchi”, spesso è anche quello che ghosta.

Perché in un mondo dove la vulnerabilità è cringe e il silenzio è estetico, la sparizione è il gesto più elegante (e più codardo) che si possa fare.

La mia preferita del momento.

Italianizzazione istintiva di ghosted, ovvero: sparire nel nulla come se non fossi mai esistito. Non una spiegazione. Non un messaggio. Solo un’assenza totale, come se l’altro si fosse dissolto nell’etere o risucchiato in un buco nero digitale.

Nelle serie, succede spesso così: lui/lei ti guarda intensamente, dice “ti richiamo dopo”, e poi? Poi niente. Rimani lì. In eterno buffering emotivo.

Ma nella vita vera è anche peggio.

Perché dopo la prima ora cominci a farti domande: ho detto qualcosa di sbagliato? Sarà finito il credito? Si sarà rotto il telefono? Ho sognato tutto?

Poi guardi l’ultima spunta grigia.

E capisci: non è un disguido tecnico. È ghosting.

E fa più male di una recensione negativa su Tripadvisor.

Perché mentre tu cercavi connessione (in tutti i sensi), qualcuno ha scelto di scomparire come un personaggio secondario senza arco narrativo.

Ghostare è facile.

Basta premere silenzioso.

Riceverlo, invece, ti lascia nel limbo di una storia mai chiusa, dove tu interpreti tutti i ruoli: vittima, detective, editor dei tuoi stessi messaggi.

Se ghostare è sparire, gaslightare è restare… ma distorcere tutto.

Chi ti ghosta almeno ti lascia nel vuoto. Chi ti fa gaslighting invece resta lì, ma riscrive la tua realtà in tempo reale. Prima ti dice “sei troppo sensibile”, poi ti fa dubitare di ciò che hai visto, di ciò che hai detto, perfino delle emozioni che provi.

È come se ti lasciassero leggere il copione… ma con le battute invertite, e il finale già deciso: è sempre colpa tua.

Il più pericoloso tra i neologismi pop.

Deriva dal film Gaslight (1944), in cui un uomo manipola la moglie al punto da farla credere pazza. E non con urla o violenza, ma con piccole omissioni, dubbi insinuati, oggetti spostati di proposito e poi negati.

Oggi, il termine è diventato il marchio di fabbrica di una manipolazione gentile solo in apparenza.

Il gaslighting è subdolo: ti fa sentire “esagerata”, “drammatica”, “instabile”… anche quando hai semplicemente reagito a un’ingiustizia.

Nelle serie è il cuore velenoso di molte relazioni tossiche travestite da passioni travolgenti.

Il partner ti urla addosso, poi ti porta i fiori.

Ti tradisce, poi ti fa sentire paranoica.

E tu, spettatore, lo capisci. Ma il personaggio no. Perché chi fa gaslighting spesso ha un ottimo taglio di capelli, una playlist curata da Spotify e uno sguardo da “non potrei mai farti del male”.

E invece.

Nella vita vera è più frequente di quanto pensiamo.

Succede sul lavoro, nelle relazioni, perfino in famiglia.

Ti porta a chiedere scusa anche quando ti hanno mancato di rispetto.

Ti fa dubitare della tua memoria, delle tue parole, delle tue emozioni.

Fino a quando ti ritrovi a correggere te stessa per non dare fastidio.

E la cosa più spaventosa? Il gaslighting non ti cancella di colpo.

Ti riscrive. Fino a farti recitare il ruolo dell'antagonista nella storia in cui eri protagonista.

L’equilibrio si spezza quando passi dall’illusione alla figuraccia.

Se il gaslighting ti fa dubitare della realtà, il cringe ti fa dubitare di tutto il resto: del tempismo, del tono, del perché stai ancora guardando quella scena. È l’effetto collaterale di una società che ci spinge a performare, anche quando nessuno ha chiesto lo spettacolo.

È quando qualcuno ci prova troppo… e noi vorremmo solo una via di fuga, magari con i sottotitoli off.

Cringe è imbarazzo puro. Ma non quello tenero da prima media.

Il cringe è un disagio raffinato, totale, quasi artistico. Ti fa arricciare le dita dei piedi, serrarti le spalle, guardare lo schermo di sbieco sperando che finisca presto.

Nelle serie lo troviamo nelle dichiarazioni d’amore fuori contesto, in balletti TikTok non richiesti, nei dialoghi scritti da quarantenni che pensano che “bro” e “yolo” siano ancora slang.

Adulti che provano a sembrare giovani parlando come i figli… ma con l’accento da riunione di condominio.

Nella vita vera?

È il momento in cui riascolti un vocale che credevi brillante e invece era solo… troppo.

È leggere i tuoi post del 2012.

È quando qualcuno ci prova troppo, troppo presto, troppo male.

Il cringe ci ricorda che spesso, più che piacere, vogliamo essere accettati. Ma nel tentativo, perdiamo il ritmo. E un po’ anche noi stessi.

Dopo il cringe, arrivano loro: le red flag.

Segnali inequivocabili che qualcosa non torna, ma che, complice la sceneggiatura romantica e l’ansia da lieto fine tendiamo a ignorare.

Ogni red flag è una puntata pilota del disastro emotivo che verrà.

Bandierine rosse che sventolano in faccia con entusiasmo… e tu, da bravo spettatore sentimentale, fingi che sia solo vento.

Le red flag sono silenzi troppo lunghi, risposte passive-aggressive, commenti svalutanti camuffati da ironia. Sono quei momenti in cui qualcosa stona, ma tu dici “sarà un mio problema”.

La verità è semplice: se ti fa stare male, non è un dettaglio.

È una red flag.

E ignorarla non la rende meno rossa.

Dove le red flag avvisano, la plot armor protegge. Alcuni personaggi sembrano intoccabili. Possono tradire, fallire, cadere da un elicottero in fiamme… ma sopravvivono comunque. Perché? Perché servono alla trama. E tu, che nella vita non hai nemmeno una colonna sonora d’accompagnamento, ti chiedi: dove la trovo, io, una plot armor?

L’invisibile corazza narrativa che protegge alcuni personaggi da tutto: proiettili, karma, coerenza.

Lei che non si ustiona. Lui che sopravvive a qualsiasi trauma.

Protagonisti di polizieschi che si fanno strada nel crimine… con la camicia sempre stirata.

Nella vita vera, non esiste. Ma a volte sembra che certi influencer, certi colleghi, certe persone che “sbagliano sempre ma cadono in piedi” ce l’abbiano davvero. E noi? Noi inciampiamo in una frase sbagliata e rotoliamo giù per sei stagioni.

In slow motion.

Quando un personaggio è salvo, cosa ci resta da fare? Shippare.

Perché, anche se l’amore non salva tutti, almeno ci distrae.

Le ship sono atti collettivi di speranza. Lì dove la trama scricchiola, arriva il tifo del fandom a unire due sguardi in un bacio non scritto (ma molto desiderato).

Da relationship, significa tifare per una coppia reale, immaginaria o semplicemente improbabile. È un atto di fede e anche di fantasia.

Le ship sfidano il realismo, la logica, e persino la sceneggiatura. Ma sono il vero motore emotivo del pubblico.

A noi? Succede anche offline.

Tutti intorno a te dicono “ma quanto state bene insieme?”, mentre voi vi chiedete se è flirt o solo asma emotiva condivisa.

Le ship sono belle finché restano speranza. Ma attenzione: se salpano troppo presto, finiscono in naufragio.

E dopo che hai investito ore, emozioni, popcorn e pigiami nella tua serie del cuore, arriva lui: lo spoiler. L’equivalente narrativo di uno schiaffo in pieno sonno. Un colpo di scena rivelato troppo presto, da chi non sa tacere o da chi non sa vivere nel presente.

Il crimine peggiore dell’era digitale.

Rivelare un colpo di scena senza preavviso dovrebbe costare almeno 48 ore di log-out forzato.

Meme senza avviso.

Titoli di giornale.

Colleghi del lunedì mattina che aprono bocca senza misericordia.

È quella frase detta con leggerezza che ti distrugge la suspense costruita con amore. “Lui muore alla fine.” A quel punto muori anche tu. Dentro. E perdi fiducia nell’umanità, nei social, e in chi “non sapeva che eri ancora alla seconda stagione”.

Le serie ci insegnano, ci seducono, ci manipolano e, soprattutto, ci rispecchiano.

Ci mostrano cosa siamo, cosa accettiamo, cosa sopportiamo in nome dell’amore, dell’amicizia, della sopravvivenza.

Ma lo fanno con una lente particolare: quella del linguaggio.

Perché se è vero che le parole danno forma al pensiero, allora cool, ghostato, gaslighting & co. non sono solo vocaboli da fandom: sono etichette emotive che ci aiutano a nominare cose che, fino a ieri, non sapevamo neanche spiegare.

Le serie hanno inventato un glossario pop dove il trauma diventa trama, il disagio si fa estetica, e il caos relazionale trova finalmente un titolo in grassetto.

E allora ridiamo, ci identifichiamo, ci consoliamo.

Perché dire “mi ha ghostato” è più facile che dire “mi ha fatto sentire inesistente”.

Perché parlare di “red flag” è più semplice che ammettere di aver ignorato segnali che urlavano verità. E perché nominare il “cringe” ci fa sentire meno soli nella vergogna condivisa.

Il vocabolario delle serie è un dizionario emotivo travestito da intrattenimento.

Un codice comune tra spettatori di storie e protagonisti inconsapevoli delle proprie.

Un modo per fare ordine. Per dare nome. Per condividere.

Perché certe cose, prima di dirle sul serio, dobbiamo prima vederle succedere in streaming.

E poi riconoscerle nella puntata più difficile di tutte: la nostra.

Canzone da colonna sonora

Friday – The Chainsmokers feat. Fridayy

Perché serve una colonna sonora anche per i silenzi. "Friday" è la playlist emotiva del ghosting elegante: quello che non urla, non spiega, non chiude.

Solo svanisce.

Il beat rilassato ma malinconico, la voce impastata di solitudine e l’atmosfera sospesa raccontano perfettamente l’arte di sparire con aplomb.

È il sottofondo perfetto per chi ha vissuto una relazione da serie tv… e si è ritrovato in eterno buffering.



Commentaires

Noté 0 étoile sur 5.
Pas encore de note

Ajouter une note

#FOLLOWME

Grazie!

myfeed

  • Facebook
  • Instagram

ARCHIVIO

  • Instagram
  • Facebook

© 2023 by Jorjette.

#followme

Grazie!

bottom of page