Sulle linea telefonica dell’emancipazione.
- giorgia dublino
- 11 giu
- Tempo di lettura: 4 min
Aggiornamento: 11 giu
Non ero pronta.
Pensavo di aver acceso Netflix per una serie elegante e leggera, con costumi anni ’30, drammi amorosi, e un pizzico di femminismo da salotto.
E invece mi sono ritrovata coinvolta in una resistenza civile e sentimentale, tra dittature, lotte per i diritti, persecuzioni politiche, maternità negate e amori troppo grandi per essere rinchiusi in un’epoca.
Le ragazze del centralino è tutto questo: una serie che comincia come uno sceneggiato e finisce come un manifesto. Un manifesto per la libertà, l’identità, la sorellanza.
E per la memoria. Quella vera.
Sono donne che si guadagnano il primo impiego “moderno” in una compagnia telefonica a Madrid. Sembrano comparse da una pubblicità rétro, ma dietro le onde perfette dei capelli e le gonne a pieghe si nasconde la realtà cruda.
All’inizio sembrano archetipi, ma stagione dopo stagione si trasformano in qualcosa di più: combattenti in un mondo che non le vuole libere.
Dietro la femminilità elegante e il bon ton da centraliniste si nasconde la realtà cruda di un sistema patriarcale feroce, dove la libertà è un lusso, l’indipendenza una colpa, e l’amore una trappola. Sono donne che lavorano, ma non possono decidere. Che guadagnano, ma non possono spendere. Che parlano tutto il giorno al telefono, ma nessuno le ascolta davvero.
E poi c’è chi paga un prezzo ancora più alto.
Chi, come una di loro, vive un matrimonio fatto di violenze e silenzi, e ci mette anni e sangue a capire che non è normale sentirsi in trappola.
Il centralino diventa così una metafora perfetta: voci che passano, che chiedono aiuto, che si perdono nel rumore di fondo. In quella sala, ordinata e sottomessa, comincia invece la rivoluzione più disordinata di tutte: quella interiore. La presa di coscienza. Il rifiuto. La scelta, finalmente, di dire “basta”.
La protagonista designata è Lidia, quella che tiene insieme le trame, i segreti, i dolori.
Ma anche quella che, col tempo, si fa da parte per raccontare le altre.
Lidia è il filo rosso che lega ogni stagione, ogni svolta, ogni addio. È la linea telefonica che trasmette, che filtra, che collega.
Parla per sé, ma soprattutto per chi non può più farlo.
A volte l’hai amata, altre volte l’avresti scrollata. Perché Lidia è ambigua, combattuta, spesso guidata da un istinto di sopravvivenza più che da una visione. Ma alla fine, diventa qualcosa di più grande della sua storia personale. Diventa la voce della memoria.
E quando la senti chiudere il cerchio, raccontare l’ultima verità, non è solo un epilogo. È un passaggio di testimone. Da loro a noi.
La mia preferita? Carlota.
Non solo per lo stile (che è già un motivo valido), ma per il coraggio.
Carlota è quella che non scende a compromessi. Che ama chi vuole. Che lotta anche quando perdere è garantito.
Non fa la rivoluzione: la incarna, come se fosse scritta nel suo DNA. Carlota non entra in scena. Irrumpe.
Appare tra telefoni squillanti e colletti inamidati con l’eleganza di una duchessa e lo sguardo di una rivoluzionaria. Basta una battuta secca, un sopracciglio alzato, una risposta tagliente. Capisci subito: non sarà una comparsa.
Nata nella ricca e conservatrice aristocrazia madrilena, Carlota è il paradosso vivente di quella società: una figlia dell’élite che combatte contro i privilegi da cui proviene. Ma non con rabbia. Con determinazione, classe, e una sorprendente lucidità.
Carlota è il personaggio che attraversa tutte le battaglie della serie.
Quella femminista, contro un sistema che vuole le donne mute, sposate e servili. Quella sessuale, in un tempo in cui amare una donna poteva essere motivo di internamento. Quella politica, quando si espone senza paura, diventa attivista, giornalista clandestina, e prende schiaffi dalla vita, e dagli uomini, senza mai abbassare la testa.
Ma non è un’eroina perfetta.
Carlota sbaglia. Fugge. Tradisce. Torna. E proprio lì si gioca la sua grandezza: non nell’infallibilità, ma nella coerenza con sé stessa. Nel non voler mai essere altro da sé, anche quando farlo significherebbe salvarsi.
Carlota è anche (senza retorica) una delle rappresentazioni LGBTQ+ più potenti e credibili che ho visto in una serie mainstream. La sua relazione con Sara, poi Óscar, è un pezzo di storia nella storia: perché affronta il tema dell’identità di genere con una delicatezza rara, senza mai cadere nei cliché o nel pietismo.
Ama. Punto.
E in quell’amore trova forza, rivoluzione, famiglia.
Carlota è il personaggio che non si dimentica. Perché è il tipo di donna che ti fa desiderare di essere più coraggiosa, più libera, più “te stessa anche quando tremi”.
Ci insegna che essere fedeli alla propria verità può costare tutto. Ma vale tutto.
Nel finale (che non anticipo, ma che ha il sapore di un addio solenne) Carlota non si arrende.
Non indietreggia. Non svanisce. Si consegna alla storia, come fanno solo i personaggi che diventano simboli.
È la parte che non mi aspettavo.
La serie si spinge oltre le dinamiche romantiche, oltre le invidie e le gelosie da soap.
Si spinge dentro la storia, quella vera. La Spagna franchista. I desaparecidos. Le torture. I bambini strappati alle madri.
Ed è lì che capisci: questo non è intrattenimento. È memoria in costume.
E se fino a quel momento avevi seguito le protagoniste con un misto di affetto e curiosità, da quel punto in poi cominci a seguirle con il cuore in gola.
Non farò spoiler pesanti. Solo questo: non aspettarti il lieto fine.
Aspettati, piuttosto, un finale coerente. Crudele, eppure necessario.
Un finale che ti lascia lì, perché quando senti quella voce fuori campo dire: “Abbiamo dato la vita per essere libere. E lo rifaremmo ancora”, capisci che Le ragazze del centralino non sono finite. Vivono ancora, ogni volta che qualcuno sceglie il coraggio invece della rassegnazione.
Forse ci servirebbero più serie così.
Più fiction che scavano nei vuoti della storia, più donne raccontate non come vittime o muse, ma come esseri umani completi: fragili, forti, contraddittori, liberi.
E forse, nel 2025, ci servirebbe anche qualche Carlota in più.
O almeno, un buon motivo per ricordare chi ha lottato prima di noi.
Una lotta sussurrata
Take What You Can Get – Kalyo
Perché a volte si lotta con le mani vuote. Ma si lotta lo stesso. È il suono di chi sceglie il coraggio, anche quando non c’è niente da vincere.
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