Non esistono bene e male. Solo il potere.
- giorgia dublino
- 16 giu
- Tempo di lettura: 4 min
Lo dice Lord Voldemort.
Lo pensano in molti, anche senza essere mai passati da Hogwarts.
È una frase che riecheggia un pensiero nichilista o machiavellico, simile a ciò che direbbe Machiavelli, ma dopo una cura steroidea.
Ed è proprio questo intreccio tra letteratura fantasy, realtà e filosofia morale che che voglio esplorare.
Nel mondo di Voldemort, il potere è l’unica bussola. Bene e male sono parole da ingenui, da deboli, da chi ancora crede in qualcosa.
Il potere, invece, è.
Senza aggettivi, senza giustificazioni.
Ma se ci guardiamo intorno, quante volte questa visione si infiltra nella nostra realtà?
Quando una legge passa per interesse e non per giustizia.
Quando si giustifica la violenza “perché lo fanno tutti”.
Quando il fine diventa più importante dei mezzi, e il potere, anche quello piccolo, da condominio o da poltrona, diventa l’unica cosa da difendere.
Nella filosofia morale, da Platone in poi, il dibattito su bene e male è eterno. Ma c’è un punto in cui tutto si inceppa: quando si smette di cercare la verità e si cominciano a costruire solo narrazioni utili.
In quel momento, il potere diventa performativo: non serve più essere buoni o cattivi, basta sembrarlo al pubblico giusto.
E qui, Harry Potter non è poi così lontano da noi.
In un mondo dove i governi blindano il dissenso, puniscono chi aiuta e premiano chi tace, diventa difficile distinguere Voldemort da certi leader in carne e ossa.
Il rischio? Che la nostra rassegnazione trasformi quella frase in verità quotidiana.
“Non esistono bene e male. Solo il potere.”
La ripetiamo, la condividiamo, la accettiamo. Fino a quando non sarà più una battuta da antagonista, ma una linea editoriale, un tweet istituzionale, un mantra da campagna elettorale.
Ma allora, esistono bene e male?
Io credo di sì.
E forse il punto non è dire che esistono, ma scegliere da che parte stare ogni giorno, sapendo che il potere non è mai neutro.
È una bacchetta. E dipende da chi la impugna.
Il potere è anche nei piccoli contesti.
Ogni giorno, tra scuola, lavoro, relazioni e decisioni microscopiche ma cariche di simboli, basta un contesto in cui ci sentiamo poco considerati o messi da parte, e ci si aggrappa a ciò che resta:l’influenza, la parola, la capacità di orientare anche il gruppo più minuscolo.
È lì che accade la magia: non quella di Hogwarts, ma quella che trasforma una questione banale in una questione di principio.
Una gita? Un simbolo.
Una raccolta firme? Un terreno di confronto.
Un’iniziativa condivisa? Un’occasione per rimettere le cose “al loro posto”.
Ci sono conversazioni che nascono come confronto e diventano sfide silenziose.
Non è più questione di merende, fogli Excel o preferenze organizzative, ma di chi ha avuto l’ultima parola.
Eppure nessuno lo dirà mai apertamente.
Perché nei piccoli contesti, il potere si esercita col sorriso, con la battuta velata, con il classico “era solo un suggerimento”.
Ma lo senti. Lo capisci. Lo riconosci.
Il bene e il male si travestono; esistono, ma spesso indossano maschere.
A volte, il “bene” è chi prova solo a far funzionare le cose.
E il “male” è chi rema contro, fingendo di remare a favore.
Sarebbe però ingeneroso ridurre tutto a buoni e cattivi.
Meglio ammettere che il desiderio di contare è umano, anche se si manifesta nei modi più improbabili.
E se anche Voldemort fosse solo un membro frustrato di un gruppo WhatsApp… chissà.
Il potere è una questione di percezione, perché non serve neanche averlo, a volte basta che gli altri credano che ce l’hai.
E allora puoi muovere le fila, lanciare sondaggi farlocchi, proporre iniziative a orologeria, mettere in discussione scelte condivise “per principio”.
Non perché ti interessi davvero, ma perché così si ricorda chi comanda davvero. O almeno ci prova.
Succede nelle scuole. Nei comitati. Nelle famiglie.
Succede ogni volta che qualcuno non tollera l’ordine delle cose e invece di proporre, si oppone in loop, come se sabotare fosse l’unico modo per esistere.
È un’ombra sottile del potere: non costruisce, ma disturba. Non governa, ma frena. Non convince, ma logora.
E noi, spesso, non sappiamo come rispondere, perché non vogliamo passare per autoritari. Così lasciamo correre.
Ma quella frase intanto si avvera. Ogni giorno un po’ di più.
Forse la verità è che il bene e il male non sono sempre chiari, ma si intravedono nel modo in cui trattiamo gli altri quando abbiamo una minima possibilità di prevalere.
Quando possiamo alzare la voce, o tenere il punto solo per principio.
Quando c’è da decidere se appianare o incendiare.
Il potere ci tenta tutti.
Ma scegliere di non usarlo contro, quando potremmo, è forse l’ultimo vero atto di magia.
Anche se nessuno lo noterà.
Anche se il gruppo classe penserà che hai lasciato correre “per quieto vivere”.
Anche se qualcuno penserà di aver vinto.
Chi sceglie di non cedere al potere per il potere ha già vinto su qualcosa di più profondo: sull’ombra; sul rumore; sulla tentazione di diventare Voldemort per reazione.
Dal punto di vista sociologico, quando in un gruppo (che sia una classe scolastica, un condominio o un’istituzione) il potere diventa l’unica grammatica relazionale possibile, qualcosa si rompe.
Si rompe la fiducia. Si rompe la cooperazione autentica. Si rompe quel tessuto invisibile che tiene insieme le comunità: la capacità di riconoscere il contributo altrui senza sentirlo come una minaccia.
In un sistema dove tutto è competizione, anche l’organizzazione della festa di fine anno può diventare una prova di forza.
Le relazioni si polarizzano: chi ha voce e chi no, chi guida e chi contesta, chi vuole solo che funzioni e chi ha bisogno di dimostrare qualcosa.
È la logica del “campo sociale”, come direbbe Bourdieu: ognuno gioca la sua partita per occupare una posizione, anche minima, di visibilità o controllo.
Eppure, questa dinamica ha un prezzo: quando il potere è tutto, la relazione scompare.
Si parla, ma non si ascolta. Si partecipa, ma non si collabora. Si reagisce, ma non si costruisce.
E allora, anche nelle micro-società che abitiamo ogni giorno, la sfida non è vincere. È non cedere alla logica del potere per il potere, e continuare a difendere la possibilità di fare insieme, senza dover sempre primeggiare.
— Giorgia Dublino
un giorno alla volta, cercando di non usare la bacchetta per mandare tutti a quel paese.
Ogni riferimento a chat realmente esistenti è puramente sociologico. Più o meno.
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