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Ero in bagno senza cellulare.

  • Immagine del redattore: giorgia dublino
    giorgia dublino
  • 31 lug
  • Tempo di lettura: 4 min

Stamattina, mentre ero in bagno senza cellulare... sì, senza cellulare, evento raro quanto una nevicata ad agosto! mi sono ritrovata a fare una cosa dimenticata dal mio sistema nervoso: leggere le etichette.

Mi è bastato uno sguardo per risvegliare un gesto antico: occhi fissi sul flacone di bagnoschiuma. Attenzione improvvisamente catturata da parole come “emolliente”, “testato dermatologicamente”, “non ingerire”.

E lì, con i pantaloni abbassati e la mente finalmente libera, mi è tornato in mente un tempo che sembra lontano secoli, e invece erano solo altri gesti. Un’era pre-smartphone in cui in bagno si leggeva altro.

Libri. Riviste. Inserti. Cataloghi Avon. Manuali Ikea. E poi i Topolino, onnipresenti custodi del trono.

Ogni casa aveva la sua “biblioteca da gabinetto”. Era una collezione spontanea e casuale, un piccolo universo parallelo fatto di letture frammentarie e ripetute, dove raramente si leggeva una storia dall’inizio alla fine, ma si imparava tutto sulle avventure di Paperoga in ordine sparso.

Erano letture minime, ma autentiche. Lentamente assaporate.

Il bagno, allora, era l’unico luogo sacro della casa dove nessuno ti disturbava e, ironicamente, anche l’unico dove era socialmente accettabile prendersi il proprio tempo.

Poi è arrivato lui. Lo smartphone!

E con lui, il multitasking evacuativo: messaggi, mail, scrolling compulsivo tra un rotolo di carta e l’altro.

Oggi il bagno è diventato una succursale dell’ufficio, dell’ansia, del FOMO.

Il Fear of Missing Out, abbreviato appunto in FOMO, è una forma di ansia sociale legata alla paura di perdersi qualcosa. Letteralmente significa: “paura di essere tagliati fuori”, “paura di perdersi un’esperienza”.

In pratica è quella sensazione fastidiosa che provi quando: vedi le storie Instagram di tutti a una festa e tu sei a casa in pigiama; scorri i post di gente in vacanza e ti sembra che la tua vita stia passando invano; ti senti in dovere di rispondere a tutto, vedere tutto, esserci sempre, anche quando vorresti solo sparire sotto il plaid.

Il FOMO ti fa pensare che gli altri vivano meglio, più intensamente, più pienamente. E che se non partecipi, non commenti, non posti, ti stai perdendo qualcosa di importante.

È un effetto collaterale del nostro vivere sempre connessi, sempre visibili, sempre comparabili.

In bagno, per esempio il FOMO è ciò che ti spinge a portare il telefono anche lì, “nel caso arrivasse un messaggio importante”.

Ma nessuno ti scrive mai in quel momento. A meno che tu non sia Beyoncé. E anche lei, forse, ogni tanto dovrebbe leggere le etichette.

La convinzione millenaria che mentre tu fai una cacca tranquilla, altrove si stia svolgendo l’evento del secolo non è solo una moda linguistica da TED Talk o un’invenzione dei social media. È una sensazione antica quanto l’essere umano, ma che la modernità ha trasformato in uno stato ansioso permanente.

Questa paura esisteva anche prima degli smartphone. Ma oggi ha trovato il suo habitat perfetto: i feed infiniti, le notifiche a raffica, le storie da 15 secondi dove la felicità degli altri è confezionata come una promozione imperdibile.

Il FOMO ti fa sentire in ritardo anche quando sei puntuale.

Ti fa pensare che la tua vita sia pausa, mentre il resto del mondo è play.

Ti convince che se non controlli il telefono in bagno, potresti perderti qualcosa. Ma che cosa, di preciso, non si sa mai.

Ecco perché il bagno senza cellulare è diventato il nuovo atto rivoluzionario.

È il momento in cui scegli non sapere tutto subito, e ti concedi il lusso di non esserci. Di rallentare. Di leggere un’etichetta. Di restare fuori dal mondo… per rientrarci con più ironia e meno panico.

La verità è che mentre sei lì seduto, nessuno sta davvero vivendo l’evento del secolo. Anzi, anche gli altri, probabilmente, sono in bagno. Solo che scrollano.

Ma stamattina no.

Stamattina ero offline.

E nel silenzio sospeso di quel momento, senza notifiche, senza filtri, senza storie da guardare, mi sono sentita come un’archeologa della mia stessa memoria.

Un frammento di me è tornato a quando leggevo l’INCI del sapone liquido come se fosse una poesia. Quando “sodio laureth sulfate” mi suonava come un personaggio fantasy, e “pH neutro” era una promessa di vita equilibrata.

Siamo passati da Dove a TikTok.

Dal Cif crema al feed infinito.

Abbiamo perso qualcosa? Forse sì.

Abbiamo perso quella soglia piccola ma potente tra il dentro e il fuori, tra il fare e l’essere, tra il tempo dell’urgenza e quello dell’attesa. Abbiamo smarrito anche un certo tipo di lettura, quella che non serviva a niente, ma ci teneva compagnia.

Certo, non era alta letteratura. Ma ci faceva rallentare.

Ci portava altrove, mentre restavamo esattamente lì.

Seduti. Fermi. Concentrati.

Forse dovremmo reintrodurla, questa letteratura da WC, non per nostalgia, ma per igiene mentale. Magari creando una nuova collana editoriale “Bagni narranti. Libri brevi per momenti lunghi.” Oppure ristampando etichette poetiche: “Lascia andare ciò che non ti serve (anche metaforicamente)”; “Non agitare. Né te né il contenuto.”

In ogni caso, l’invito è uno solo: lascia il telefono fuori, almeno ogni tanto.

Torna a leggere cose inutili.

Riscopri il fascino del superfluo.

E se proprio non riesci, almeno sforzati di notare che il deodorante per ambienti si chiama Tramonto Artico, ma sa di ascensore.

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