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Facebook odia i neuroni.

  • Immagine del redattore: giorgia dublino
    giorgia dublino
  • 20 mag
  • Tempo di lettura: 6 min

Aggiornamento: 28 mag

Tutto è cominciato con una lingua. Anzi no, con un naso.

Tra due sedili, probabilmente di un treno, ma narrativamente spacciati per aereo, sbuca un golden retriever, sorridente e curioso, pronto a diventare il passeggero più discusso della settimana. Il post virale racconta un momento tenero e buffo, una piccola poesia quotidiana. Ma i commenti… sono tutta un’altra storia.

Il protagonista peloso non parla, non ringhia, non twitta. Si limita a infilare la faccia tra due sedili, con l’innocenza di chi vuole solo sniffare patatine e dispensare allegria. Ma per molti utenti, quella fessura diventa una crepa sociale, politica, morale. È il Titanic del buon senso, e tutti a bordo si dividono in: animalisti, legalisti, complottisti, filosofi da tastiera, nostalgici del silenzio e moderati in via di estinzione.

Tra le centinaia di interventi, emergono veri e propri archetipi: gli estasiati (“pagherei il doppio per averlo vicino!”), i fuffacheckers (“Non è un aereo, è un treno, e lo sapete tutti!”), i canocentrici (“Meglio un cane che certi esseri umani.”), i disillusi (“Anche stavolta siete riusciti a rovinare un sorriso.”) … e poi c’è un C***o M***i, eroe tragico del thread, che dichiara: “Io se posso cambio aereo.” Un commento diventato meme istantaneo.

Al centro della polemica, la domanda nemmeno troppo latente: cosa infastidisce davvero? Il cane? Le regole? L’odore? La libertà altrui? O forse il fatto che qualcuno riesca ancora a sorridere mentre noi stiamo già preparando l’hashtag per indignarci?

Un post scritto bene, che gioca con l’immaginario del “volo tranquillo”, con cuffie e snack, trasformandolo in un volo emozionale che però, dettaglio non trascurabile. sembra non essere mai decollato. Il golden era su un treno. E da qui l'accusa suprema: “Post falso”. Ma serve davvero la verità se ci fa ridere, discutere e sentirci vivi? Per molti sì. Per altri, basta il muso.

Alla fine, quel golden retriever ha fatto più servizio pubblico di molti notiziari: ha unito e diviso, commosso e fatto infuriare, mostrato che una fessura può contenere un intero paese, con le sue manie, le sue paure e la sua voglia disperata di scegliere da che parte stare. Anche quando si tratta solo di un cane curioso con una lingua troppo lunga.

Ciò che inizia come uno scambio su un cane curioso diventa una guerra civile semantica: è un aereo o è un treno? È legale o no? È un post fake o un’opera d’arte? È amore o inciviltà? E soprattutto: “E se uno è allergico? E se fa la pipì? E se abbaia? E se…?” …La creatura che voleva solo annusare delle patatine si ritrova ad incarnare tutti i mali del mondo contemporaneo. E Facebook, come sempre, ci mette il carico da undici: tra chi invoca l’ENAC, chi paragona i padroni a talebani, chi tira in ballo Salvini, il PD, Dio e la cipolla.

Se avessi scelto un post su Gaza, l’algoritmo sarebbe esploso. E forse anche io.

Ma in realtà, è proprio questa la chiave: il fatto che sia un post innocuo, tenero, addirittura buffo, rende ancora più evidente quanto le persone siano pronte a innescare un flame anche nel vuoto pneumatico dell’assurdo. È l’effetto “campo minato emotivo”: meno è importante l’argomento, più ci si sente liberi di vomitare rabbia, sentenze, moralismi e nevrosi represse.

I commenti sono il vero racconto di questo Paese. Si passa dalla poesia al veleno, dalla dolcezza alla condanna penale, in 3,5 secondi. C’è chi vede un cane e scrive: “Stupendo, Dio ti ringrazio per questi amori belli” e chi replica: “Io cambio volo, voi siete la rovina dell’umanità”.

Nel mezzo, una folla urlante che cerca disperatamente qualcosa da dire pur di esserci, anche quando sarebbe meglio tacere. Perché il punto non è più il cane. Non è mai stato il cane. È l’ego, la frustrazione, l’analfabetismo emotivo, la fame d’attenzione, l’ansia da notifica.

Altro che calcio. In Italia, lo sport più praticato è la polemica improvvisata su argomenti a caso. La fessura tra i sedili? È solo l’ultimo stadio di una lunga evoluzione della discussione inutile. Ricordiamo i banchi a rotelle, poi la Nutella alla mensa scolastica, il crocifisso in aula, le tette su Sanremo, il gatto sul banco di scuola in DAD.

Non importa che il tema sia educativo, religioso o vagamente animale: serve solo che sia divisivo e assolutamente privo di conseguenze dirette.

In questo, Facebook ha affinato il meccanismo perfetto: un luogo dove l’opinione è più importante della realtà, dove si scrive non per comunicare, ma per scaricare. Un social diventato il parcheggio del centro commerciale durante i saldi, ma senza carrelli: solo insulti, bandierine politiche, fake news da salotto e l’occasionale gif di un gatto che applaude.

Anche quando si tratta di temi cruciali, l’arena dei commenti non migliora. Anzi, spesso peggiora. Nel post del golden retriever la gente si indigna per finta, per sport, per sfogare il nulla. Nei post su Gaza, sul precariato, su una scuola che crolla o su un politico che osa esprimere un’idea… la gente si indigna per odio, e lo fa con un’intensità grottesca, violenta, spesso disumana.

Non è questione di contenuto: è questione di veleno. Il livello di tossicità è talmente alto che, al confronto, il cane tra i sedili sembra un tentativo collettivo di gentilezza. Gli altri temi? I commenti non diventano più profondi. Diventano più feroci. Più stupidi. Più rabbiosi.

Forse perché la rete è diventata l’unico posto dove tutti possono urlare: un flusso continuo, scomposto, automatico.

Un urlo continuo, scomposto, automatico. Non serve più avere qualcosa da dire: basta avere un dito libero e una connessione decente.

La parte tragica? Che nessuno legge per capire.

Si legge per rispondere. O meglio: per ribattere, per contraddire, per insultare, per dire “io la penso così e quindi ho ragione”.

Così il commento non è più un contributo. È una bandiera, piantata nel corpo morto della conversazione. E chi prova a riflettere, a smussare i toni, a cercare una sintesi… finisce sommerso da: “zitto, sei un moralista!/hai la tessera del partito?/e allora i bambini italiani?/Vai a fare compagnia al golden, che almeno lui non parla.”

La verità è che non c’è più spazio per il pensiero intermedio. O sei pro o sei contro. O sei cane o sei pipistrello. La zona grigia è disabitata. Il dubbio è visto come debolezza. L’ascolto è un’attività da boomer new age.

La connessione è veloce, ma la comprensione è in buffering da anni.

Non è solo colpa nostra. Certo, siamo adulti liberi con un pollice opponibile e una connessione illimitata, ma va detto: l’ambiente è tossico per costruzione.

I social non sono stati progettati per farci ragionare, ma per farci restare. E per farci restare, ci servono emozioni forti. Rabbia, paura, indignazione. Tutto ciò che è immediato, viscerale, divisivo… genera engagement.

Un post ben argomentato, con fonti e toni equilibrati? Lo vedranno in 3 persone e mezzo.

Un commento gridato, con CAPS LOCK e accuse infondate? Boom. Vola. Vira. Si propaga come un virus in un’aula affollata senza finestre.

L’algoritmo non vuole che pensi. Vuole che reagisci. Meglio ancora se lo fai male.

Più urli, più vieni premiato.

Più cerchi di capire, più vieni nascosto.

Il dialogo non è più redditizio. La riflessione non fa clic.

E così, giorno dopo giorno, ci troviamo intrappolati in un grande reality dell’isteria collettiva, dove anche il muso innocente di un golden retriever diventa innesco di un dibattito tossico, amplificato da un sistema che monetizza l’odio e silenzia la complessità.

Ma voi, che scrivete ancora con un cervello acceso, non vi sentite ogni tanto come chi si presenta con una tisana depurativa a una rissa da bar? Lucidi, ragionati, magari pure ironici…

E intanto là fuori l’algoritmo premia l’urlo, la reazione impulsiva, il post scritto in caps lock e postato da un bagno pubblico alle 2 di notte.

Siete sicuri che stiamo perdendo... o forse siamo gli ultimi a resistere?

Scrivere troppo bene, troppo lucido, troppo ragionato, nell’ecosistema digitale di oggi, è come presentarsi con una tisana depurativa a una rissa da bar.

E tu che fai?

Pubblichi un articolo pensato, magari con fonti, ritmo narrativo, autocritica e ironia.

Un suicidio algoritmico in piena regola.

Shoshana Zuboff parlava di capitalismo della sorveglianza. Ma oggi, siamo immersi in qualcosa di ancora più isterico: il capitalismo dell’urlo.”

Se non urli, non esisti.

Se non indigni, non generi interazioni.

Se non produci contenuti “additivi” (cioè quelli che provocano assuefazione emotiva) vieni seppellito sotto post di lip-sync, tutorial per piegare magliette e gente che sbraita contro l’olio di palma.

Perciò, cari compagni di tastiera pensante, non è che nessuno ci segue perché non piacciamo.

È che non siamo tossici. E questo, oggi, è già un atto di resistenza.

Con i nostri pensieri lunghi, i periodi subordinati e quell’ironia che ha bisogno di almeno due righe per funzionare, sembriamo reduci di un’altra epoca.

Siamo lenti, siamo ragionati.

E in un mondo che corre ovunque senza sapere dove, la lentezza è forse l’unica forma di rivoluzione rimasta.

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