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Instagram mi contoura e io mi evidenzio a caso.

  • Immagine del redattore: giorgia dublino
    giorgia dublino
  • 3 apr
  • Tempo di lettura: 4 min

Nel grande salone virtuale di Instagram, sono tutte makeup artist, hair stylist e regine dell’eyeliner perfetto. E io? Io scrollo. E rifletto. Truccata dalla vita, più che dal fondotinta.

C’è un universo parallelo, fatto di contouring impeccabili, ciglia a ventaglio e bocche disegnate con la precisione di un architetto. Si chiama Instagram.

Lì, la realtà è perfettamente sfumata, la luce è sempre quella giusta e i capelli hanno un volume che neanche nei film anni ‘90. Io ci entro con innocenza.

Un minuto prima sto cercando un tutorial su come fare il sugo veloce per cena.Un minuto dopo, mi ritrovo a guardare un reel in cui una ragazza si trasforma da “appena sveglia” a “vado agli Oscar” con tre pennelli, due dita e uno sguardo fiero.

È lì che capisco: sono entrata nel tunnel.

A quanto pare, il mondo è pieno di makeup artist autodichiarate, hair stylist freelance, esperte in skin care coreana e guru dell’effetto no makeup makeup, che ti fanno sembrare appena uscita da una spa anche se in realtà hanno usato sette prodotti in sette secondi.

E io? Io mi guardo allo specchio e vedo un evidenziatore rosa. Di quelli scolastici. Troppo acceso sulle guance, troppo spento altrove. Ho provato anche io, eh. Ho seguito un tutorial: "trucco nude in 5 minuti". Dopo 30 secondi sembravo nude veramente. Nel senso di struccata e sconfitta.

C’è da dire che queste donne sono brave. Alcune sono vere professioniste, altre lo diventeranno. Ma nel frattempo, ci regalano quell’inquietudine da “sto facendo abbastanza?”.

È un’ansia travestita da blush.

Perché nel mondo digitale, la competizione non è sul curriculum, ma sul primer.

Non importa quanto leggi, crei, sogni, scrivi, cresci figli o combatti con l’ISEE. Se non hai almeno una foto con il contouring da Kardashian, la tua autostima rischia grosso.

E così, tra uno scroll e l’altro, impari a riconoscere i nuovi linguaggi: “Glow up” non è un’emozione, è un dovere. “Skincare routine” non è cura di sé, è identità. “Before & after” non è cambiamento, è marketing. Eppure, mi piace pensare che ci sia spazio anche per chi non sa usare l’illuminante. Per chi ha le occhiaie e ci convive. Per chi crede che il trucco più potente sia avere qualcosa da dire. O anche solo la voglia di non dire nulla, ma farlo con dignità, anche se coi capelli legati male.

Instagram, nato come vetrina per condividere istanti, è diventato il backstage infinito di uno show che non finisce mai: quello della bellezza performativa. Non basta essere curate: bisogna saperlo dimostrare. Con precisione millimetrica, inquadratura strategica, ring light e caption motivazionale.

Siamo nell’epoca in cui ogni ragazza con una buona manualità, un iPhone e un po’ di tempo può diventare una beauty content creator. E attenzione: non è sarcasmo. Questo mondo muove miliardi, crea professioni, ridefinisce standard. Ma come tutti gli specchi deformanti, quello di Instagram riflette qualcosa che ci assomiglia, ma che non siamo.

Una volta c’erano le professioniste: le truccatrici nei backstage, le parrucchiere nei saloni. Ora ogni bagno è un camerino e ogni casa è uno studio.

Non si tratta più solo di truccarsi: si tratta di documentarsi mentre ci si trucca, parlare alla videocamera, spiegare, editare, vendere.

Il problema non è il trucco. Il problema è l’obbligo di performare.

C’è un’estetica dell’empowerment che somiglia molto a una nuova forma di oppressione: “sei libera, ma solo se sei anche perfetta”. Glow, ma non sudare. Sii naturale, ma con 12 prodotti.

E così, l’autenticità diventa un filtro tra gli altri.

Per molte ragazze, essere brave a truccarsi è diventata una skill sociale. Non è più solo un gesto personale: è un marchio, una firma. Serve a ottenere consenso, like, collaborazioni, lavoro. Un nuovo modo di stare al mondo.

È la professionalizzazione dell’apparenza: fare di sé stesse un brand.

Nel frattempo, chi non partecipa al gioco si sente fuori luogo.

Perché se non pubblichi, non esisti.

Se non sei bella, curata, “sul pezzo”, sei sciatta, o peggio: disinteressante.

E io? Io scrollo. Continuo a scrollare. E intanto penso.

A quando il trucco era un gioco, e non una strategia di crescita.

A quando l’immagine di sé si costruiva nello specchio della mamma, non nella fotocamera frontale.

A quando ci si truccava per uscire, non per essere viste.

Ma anche a quanto siamo fragili, tutte, sotto strati di fondotinta e filtri.

A quanto è faticoso apparire costantemente all’altezza.

A quanto è sottile la linea tra autodeterminazione e pressione sociale.

A quanto servirebbe una nuova parola per dire: “Mi piaccio, ma anche no. E va bene così”.

Forse non ci serve un nuovo correttore, ma uno sguardo più gentile su noi stesse.

Forse non dovremmo imparare a stendere meglio il fondotinta, ma a riconoscere quando stiamo solo cercando di essere all’altezza di uno standard che non ci appartiene.

Forse possiamo anche non essere makeup artist, né hair stylist, né glow-guru.

Possiamo semplicemente essere: disordinate, reali, imperfette.

Ogni tanto stanche. Ogni tanto spettinate. Ogni tanto fiere.

E se proprio dobbiamo truccarci, che sia per guardarci allo specchio e riconoscerci. Non per piacere a chi ci guarda mentre scrolla. E forse, in fondo, questo è il vero glow up: non piacere a tutti. Ma piacersi ogni tanto.

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