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Tra sartù e frittate di maccheroni.

  • Immagine del redattore: giorgia dublino
    giorgia dublino
  • 27 lug
  • Tempo di lettura: 4 min

Aggiornamento: 4 ago

Basta avere sempre un uovo in frigo e il piatto è tratto…Perché a Napoli, a tavola, si ricicla con amore. Si tramanda il gesto del riutilizzo come un rito familiare. Non per moda, non per ecologia, ma per saggezza antica.

Nel lessico familiare partenopeo, “ci facciamo una frittata?” non è una domanda: è una dichiarazione di resilienza. L’uovo è l’ammortizzatore sociale delle dispense sventrate. È il passpartout dei giorni storti, dei ritorni a casa senza voglia di cucinare, dei lunedì post-sartù.

E tu, pensi di non avere niente? Guarda bene.

Altrove si chiamano “avanzi”. A Napoli si chiamano “’a cena e stasera”.

La differenza è sottile ma profonda come una pirofila di sartù.

In ogni famiglia napoletana c’è una regola non scritta: il giorno dopo, si mangia meglio. Il ragù che ha “reposato”, il riso che ha assorbito tutti i sapori, la pasta che si è fatta frittata: tutto diventa più buono, più vero, più napoletano.

È una filosofia di vita. Un’estetica dell’adattamento. Un’arte del riuso culinario che potrebbe essere materia universitaria.

La frittata di maccheroni non è una ricetta: è una posizione esistenziale.

Nasce dal caos e lo trasforma in ordine, dorato e croccante.

È anarchica, democratica, inclusiva: ogni tipo di pasta può partecipare, anche quella spezzata. Anche quella condita con il sugo sbagliato. Tutti meritano una seconda chance, almeno in padella.

A Napoli si dice: “Aggio fatto na frittata, ma era buona.”

E lì c’è tutto: l’imprevisto, la colpa, la redenzione. Una parabola da mangiare a fette, anche fredde.

Se la frittata è il colpo di teatro, il sartù è il romanzo d’appendice.

Ogni ingrediente è un personaggio: le polpettine sono i figli piccoli, le uova sode gli zii severi, i piselli le cugine zitelle, il sugo la nonna onnipresente.

E quando lo tagli, il sartù, svela il suo segreto come un vecchio che finalmente racconta la guerra.

Non è mai solo un pranzo: è sempre un’eredità.

C’è poi lei: la pasta e spolicchini.

Che non è altro che pasta e fagioli del giorno prima, riscaldata con amore e lasciata addensare fino a diventare azzeccata azzeccata, come direbbero le zie.

Il giorno dopo, i sapori si sono fidanzati ufficialmente. Non litigano più, si fondono. Il cucchiaio fa fatica ad affondare, ma la bocca ringrazia.

È il piatto che ti abbraccia anche se non sei di buonumore. Che non fa rumore, ma risolve.

Per molti napoletani è la vera coccola, quella che ti rimette al mondo meglio di mille creme detox e un’intera seduta di mindfulness.

Molto prima che arrivassero i manuali di sostenibilità e i guru della zero-waste, a Napoli già si praticava il recupero alimentare con disinvoltura.

Non per ideologia, ma per amore. Per rispetto. Per fame, anche.

Perché buttare il cibo, qui, è come spezzare un legame.

E ogni piatto è una seconda possibilità data agli ingredienti… e anche a noi.

Aprire il frigo il lunedì e dire “non c’è niente” è da principianti.

Aprirlo e tirar fuori una frittata, una crocchetta, una monoporzione improvvisata di sartù: quello è da maestri.

Napoli insegna questo: che la bellezza è dove non te l’aspetti.

Che il giorno dopo non è un problema, è un’occasione.

L’arte napoletana del recupero alimentare non è solo una questione di economia domestica o ingegno in cucina. È un sistema culturale, una forma di resistenza e di narrazione collettiva.

Nel rito degli “avanzi trasformati” c’è una filosofia di fondo: valorizzare ciò che resta.

Napoli è una città che non spreca, ma trasforma. Che convive da secoli con la precarietà, e ha risposto alla scarsità non con l’accumulo, ma con la creatività.

La cucina del giorno dopo è una forma di resilienza comunitaria. Un modo di dare dignità a ciò che altrove verrebbe scartato.

Ma è anche una forma di memoria: ogni piatto rielaborato conserva tracce del giorno prima, come un racconto che si arricchisce ad ogni passaggio.

In un mondo che corre verso il nuovo e l’usa-e-getta, Napoli cuoce lentamente, riscalda, rimescola.

Qui il tempo ha un sapore: quello delle cose che maturano, che si sedimentano, che ritornano migliori.

Secondo Claude Lévi-Strauss, padre dell’antropologia strutturale, la cucina non è solo un’attività pratica, ma un linguaggio simbolico. Ogni cultura si esprime attraverso la trasformazione del cibo: dal crudo al cotto, dal fresco al fermentato, dal semplice al complesso. A Napoli, però, c’è una terza via che sfugge agli schemi: il riscaldato.

Il giorno dopo non è un fallimento, è un rito. Un passaggio. Un’evoluzione del gusto e del senso.

In un certo senso, potremmo dire che Napoli non cuoce: elabora.

E lo fa non solo per nutrire, ma per ricordare.

Ogni piatto rielaborato contiene la traccia di una tavolata, di un pranzo di famiglia, di un discorso interrotto da un piatto che “non si può buttare”.

La cucina del giorno dopo è, in fondo, un archivio domestico della memoria orale. Un modo per dire: “Non buttiamo via nemmeno quello che è successo.”

Quando riscaldi una pasta e patate e la trovi più buona, stai facendo un atto poetico: stai lasciando che il tempo migliori ciò che hai vissuto.

Ed è proprio questo, forse, il cuore invisibile della cucina partenopea: il tempo come alleato, non come nemico.

Nelle economie domestiche del Sud Italia, la cucina non è mai stata un luogo neutro.

È uno spazio di gestione del potere familiare, spesso femminile, e al contempo di resistenza alla precarietà.

Il recupero alimentare non nasce per moda né per ideologia ecologista.

È un’arte della sopravvivenza nobilitata dalla creatività.

Le donne (ma anche molti uomini cresciuti nel culto della mammà) diventano sacerdotesse del riuso alimentare, capaci di fare miracoli con mezza melanzana, un uovo e un pugno di riso del giorno prima.

Un gesto ripetuto ogni giorno, che diventa rito quotidiano, identità condivisa, forma di sapere.

In un mondo globalizzato che spinge al consumo e all’oblio, la cucina può insegnare a preservare, a rilavorare, a riscattare.

L’arte di non buttare niente a tavola non è solo napoletana. È antica.

Greci e Romani, prima ancora delle nonne dei Quartieri, sapevano che il cibo del giorno dopo è più stabile, più saggio, più vero.

Nel mondo antico, ciò che avanzava si trasformava: per necessità, certo, ma anche per rispetto.

Riscaldare un piatto era un gesto rituale, quasi sacro.

E oggi, ogni frittata di maccheroni, ogni sartù, ogni pasta “azzeccata azzeccata” è un frammento di quella memoria lunga; un’eredità cucinata a fuoco lento.

La cucina del recupero non è solo una tradizione popolare: è un archetipo universale.

Radicato nella cultura del ciclo, nella gratitudine per il cibo, e nella sapienza domestica tramandata da secoli.

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