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Famiglia: il Parlamento delle emozioni.

  • Immagine del redattore: giorgia dublino
    giorgia dublino
  • 25 mag
  • Tempo di lettura: 6 min

Aggiornamento: 28 mag

La famiglia non è solo il nucleo fondante della società. È anche la sua riproduzione in miniatura: più sincera, più rumorosa.

Altro che casa dolce casa: qui si discute, si urla, si propone, si sospende, si approva, si disapprova. Ma soprattutto… si media. Ogni giorno si apre una nuova seduta parlamentare, con mozioni alzate e umori che precipitano. Anche se qualcuno rovescia il succo proprio sul documento più importante (e unico) mai stampato in casa.

Il tavolo della colazione è la nuova Camera dei Deputati: ci sono mozioni di sfiducia genitoriale, emendamenti a promesse fatte la sera prima, decreti legge last minute tipo: “Dopo cena niente cartoni. Giuro.”

A volte si procede a colpi di fiducia. Altre volte, si scioglie tutto prima ancora di cominciare.

Nella stanza dei bambini si vota per alzata di voce.

In cucina si presenta l’opposizione: “Ma io non mangio QUEL riso lì!”

Nel bagno si combatte la guerra per il controllo dei tempi, un vero conflitto tra reparti: mamma in doccia, figlio che deve lavarsi i denti, papà che vorrebbe solo pace e silenzio.

Il vero problema non è il caos. È l’assenza di una maggioranza stabile.

I ruoli si mischiano a velocità record. Il genitore oggi è Presidente della Repubblica, domani portavoce dell’opposizione interna. Il bambino, invece, è contemporaneamente ministro dell’infanzia, capogruppo ribelle e sindacalista irriducibile: “Io sciopero la pappa!”

La crisi è sempre dietro l’angolo. Lampo, ma intensa. Un “no” può diventare una rivolta. Una maglietta sbagliata può scatenare un referendum. Un “dopo” mancato, un golpe emotivo.

Altro che buoni sentimenti e valori condivisi: qui ci sono correnti interne, voti di scambio, alleanze tattiche, leadership instabili.

Nel grande emiciclo familiare, i ruoli sono chiari… o almeno così sembrano.

C’è chi si crede il leader (spesso il componente più logorroico), ma alla fine nessuno governa davvero. Le decisioni si prendono per logoramento o per assenza di alternative. Il famoso “facciamo come dice tua madre” non è una resa: è un patto bipartisan per evitare l’insurrezione serale.

Ma attenzione: non sempre la madre è la pacificatrice neutrale.

A volte, è proprio lei a rimescolare le carte, a sabotare le alleanze, a creare un caos strategico in nome di un equilibrio superiore. Non per sadismo, eh! Per necessità. Perché sa che, in fondo, la pace è noiosa, e la quiete troppo lunga fa danni. Così, ogni tanto, lancia una frase ambigua (“Tanto qui nessuno ascolta mai”) e poi sparisce, lasciando i presenti a interrogarsi: ce l’aveva con me? Con tutti? Con sé stessa? Questa madre non media: sposta. Agita. Ridefinisce le geometrie familiari ogni giorno, come un premier senza maggioranza stabile che cambia coalizione in base al meteo o all’umore. È l’artefice del caos funzionale: litiga con uno, per far riavvicinare gli altri. Finge stanchezza per ottenere silenzio. Drammatizza per ottenere ordine. In fondo, governa per destabilizzazione. E funziona. Perché nessuno osa ignorarla. Il suo disappunto è il vero strumento di governo. Non fa colpi di Stato, ma sa generare piccoli terremoti domestici con la leggerezza di un colpetto dato alla tovaglia apparecchiata. Chi la chiama imprevedibile, chi troppo sensibile. In realtà è solo una stratega. Capace di rimescolare l’intero Parlamento familiare pur di evitare il peggio: la stagnazione. E se ogni tanto qualcuno sbotta con un “Ma che casini fai?”, lei risponde con una frase che è insieme manifesto e confessione: “Se non li faccio io, chi li fa?”

I figli? L’opposizione naturale.

Nati per contestare, affinati per negoziare, addestrati all’arte dell’ostruzionismo già nel grembo materno. Non importa se hanno 3 anni o 30: il principio è lo stesso. Se tu dici A, loro chiedono perché non B. Se cucini il loro piatto preferito, lo annusano con sospetto e ti chiedono: “Che ci hai messo?”

Ti votano contro per principio, per spirito critico, o semplicemente perché è lunedì. Quello che un tempo era un semplice capriccio ora ha la forma di una mozione di sfiducia: “Se non mi compri i biscotti al cioccolato, io non mangio niente per tre giorni.”

E guai a pensare che non sappiano trattare: conoscono perfettamente il valore di mercato del loro affetto, della loro collaborazione e persino del silenzio. Li concedono solo in cambio di qualcosa. Sono economisti emotivi in miniatura.

Il vero problema, però, nasce quando si alleano tra loro. Fratelli e sorelle che fino a un minuto prima si lanciavano pupazzi in testa, improvvisamente si uniscono contro un nemico comune: il genitore che ha osato dire “no”. In quei momenti si forma una coalizione trasversale e potentissima, basata su un unico programma: ottenere quello che vogliono, subito.

A quel punto il sistema entra in crisi. Le urla rimbombano come dichiarazioni di guerra, gli sguardi diventano interrogatori parlamentari, e tu, adulto, ti ritrovi a cercare compromessi disperati. Una riforma strutturale dell’educazione familiare? No. Serve qualcosa di più immediato. Serve un gelato. O un cartone animato. O la promessa, vaga e mai realizzabile, di “fare domani tutto quello che volete”. E se non funziona? Si convoca il comitato d’emergenza: “Aspettate che torna vostro padre.” Che è come dire: ora la palla passa a un altro ministero. Io ho dato.

Ah, il padre. Figura mitica e ambivalente: a volte divinità silenziosa, altro sottosegretario senza delega.

Un personaggio complesso. A seconda dei giorni (e dell’orario), può essere il Ministro della Difesa, il Capo dell’Opposizione, o il tecnico del suono che cerca disperatamente di abbassare il volume in aula. C’è il padre autoritario, che entra in casa come se fosse Montecitorio e subito pretende ordine, silenzio e rispetto delle regole. Ma dopo cinque minuti viene messo sotto con un “Papà ma mamma ha detto che…”.

Poi c’è il padre moderno, quello che ci prova: fa le merende, cambia i pannolini, si commuove davanti ai disegni dei figli. Ma resta comunque una figura che si deve guadagnare il potere. Perché, si sa, la linea del comando è tracciata da chi sa dove sono le calze pulite, non da chi sa accendere la lavastoviglie se qualcuno glielo dice. Quando arriva a casa, il padre spesso non trova il Parlamento riunito, ma un campo di battaglia: pianti, pentole sul fuoco, giocattoli ovunque e una madre con lo sguardo di chi ha appena negoziato un trattato di pace col nemico armato. A quel punto, lui viene accolto come il rappresentante estero che forse può mediare, ma solo se si schiera con l’opposizione (cioè i figli), oppure se paga da bere (cioè porta la pizza). E quando osa prendere posizione? Inizia la tragedia greca. A quel punto, il padre capisce. Resta in aula, ma solo per prendere appunti. Magari farà un’interrogazione a risposta scritta. A Natale. Eppure, quando serve davvero, c’è. Come i senatori decisivi nei voti importanti: parla poco, ma quando alza la mano, si nota. Anche se poi, spesso, si pente e si astiene.

Poi c’è la nonna. Figura sacra e inviolabile. È il senatore a vita che può rovesciare le sorti di un intero pomeriggio con una frase tipo: “A casa mia non si fa così.” Improvvisamente, cambia l’ordine del giorno. Si alzano le tensioni. Si ricorre alla diplomazia.

vignette caricature famiglia

Le cene? Sono sedute plenarie. Lunghissime, con interventi fuori tema, ordini del giorno modificati in corso d’opera, e mozioni affettive che sfociano in crisi isteriche.

Il bagno, invece, è la vera sala dei bottoni: chi lo occupa, governa.

E il compromesso? È l’arte suprema. Si fa finta di aver deciso insieme, quando in realtà si è solo evitata l’ennesima guerra lampo. Un equilibrio instabile, certo. Ma pur sempre un equilibrio.

Perché, a ben vedere, anche nei litigi più accesi, la famiglia, come la democrazia, è un sistema che funziona solo se tutti, prima o poi, si siedono al tavolo. Anche se è per decidere chi ha nascosto il telecomando. Alla fine, la famiglia è davvero il Parlamento più onesto che ci sia: si litiga a microfono aperto, si stringono alleanze senza verbali ufficiali, si cade, si vota, si sbaglia, si ride.

E si torna sempre a sedersi allo stesso tavolo, con gli stessi volti, gli stessi drammi e gli stessi abbracci. Niente garanzie, né immunità. Solo caos trasformato ogni giorno in un equilibrio provvisorio. Ma reale.

Perché, a differenza della politica vera, qui nessuno può davvero cambiare partito. Al massimo, si cambia stanza. E anche quando il Parlamento familiare sembra implodere, basterà una carezza, una fetta di pane con la Nutella, o un “scusa” mormorato al buio per far ripartire la macchina.

Fino alla prossima mozione di sfiducia, naturalmente. Ma si sa: è il bello della democrazia.

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