top of page

Amore a senso unico. Io e le Kelsey di Church’s.

  • Immagine del redattore: giorgia dublino
    giorgia dublino
  • 3 giu
  • Tempo di lettura: 5 min

Il suo nome è Kelsey. Sandalo in pelle di vitello prestige firmato Church’s; linea pulita, eleganza austera, nome da attrice degli anni ’60.

È elegante, solido, minimalista. Non grida “moda”, sussurra “status”.

Non lo definirei un sogno. I sogni hanno qualcosa di etereo, di nobile.

Questa è un’ossessione concreta, terrena, con tanto di prezzo di listino: 870,00€ (ottocentosettanta/00 euro).

Due listini incrociati: uno è il prezzo. L’altro è quello degli sguardi che lancio ogni volta che la vedo online.

E ogni volta che mi appare davanti nei banner, nei feed, nelle newsletter tentatrici io scivolo dentro un pensiero tossico: “E se per una volta me lo meritassi?”

Ma poi arriva la realtà e la vocina interiore che traduce tutto in lingua corrente: “No, sorella. Te lo meriti, ma non ora”.

Potrei cercare una giustificazione razionale. Potrei convincermi che è un investimento, che li userò tutta la vita, che la pelle è di vitello cresciuto ascoltando Mozart e accarezzato ogni mattina da un calzolaio zen.

C’è una strana forma di ipnosi che colpisce soprattutto tra marzo e luglio, nei momenti di stanchezza mentale o scroll compulsivo. È una forma sottile, estetica, silenziosa.

Non prevede pendoli. Non guarda negli occhi, ma si insinua nel feed.

È il potere delle scarpe. Quelle giuste. Quelle che ti fanno pensare: se le avessi, la mia postura morale migliorerebbe di colpo.

Nel 2025, l’illusione della scarpa salvavita è viva più che mai. Perché la vita è complicata, ma un paio di sandali ben fatti sembrano una soluzione plausibile a tutto: all’umore, all’autostima, al caos esistenziale del lunedì.

Peccato che oggi un paio di sandali di fascia alta costi quanto tre mesi di spesa. Anche col caffè in offerta.

E allora succede l’inversione magica: non sei più tu a scegliere la scarpa. È lei che ti guarda. Ti sussurra dal banner: “Non sei pronta, ma potresti diventarlo. Non sei quella giusta, ma potresti sembrarlo.”

E tu ci caschi. Inizi a razionalizzare: “Ne ho solo tredici paia simili. Questo è diverso. Questo è Church’s.”

E in quel momento capisci: non stai più comprando una scarpa, stai comprando una possibilità.

La possibilità di sentirti leggera, elegante, al di sopra dei problemi.

Magari anche sopra le rate.

A prima vista, 870 euro per un paio di sandali possono sembrare un atto criminale contro il buon senso.

Poi leggi la descrizione sul sito di Church’s e tutto si veste di nobiltà: pelle di vitello prestige, cuciture a mano, finitura artigianale, Made in England. E tu inizi a dubitare di te stessa. Non del prezzo, ma del fatto che non te li sei ancora comprati.

Church’s non vende scarpe. Vende l’idea che tu possa calzare l’eleganza britannica come un pedigree invisibile, che si manifesta a ogni passo con discrezione, come farebbe una duchessa di campagna che però sa benissimo dove parcheggiare a Mayfair.

Il prezzo alto ha la sua logica. Artigianato, qualità, produzione lenta e controllata, materiali selezionati. C’è tutta una narrazione rassicurante che ti fa sentire quasi grata di non pagare solo per “una scarpa”, ma per un pezzo di civiltà europea cucito a mano.

Eppure, diciamolo, sotto sotto c’è anche una quota di sadismo fashion.

Un brivido calcolato: ti piacciono? Benissimo.

Ti sembrano perfette per te? Ottimo.

Ora guarda il prezzo, e sentiti inadatta.

Fa parte dell’incantesimo. La distanza economica eleva l’oggetto, lo sacralizza.

Se potessero permettersele tutti, sarebbero semplici scarpe.

Invece no. Sono feticci di distinzione. E funzionano anche per questo.

Il brand lo sa.

Church’s è come quel partner elegante e freddo che non ti scrive mai per primo, ma che quando ti guarda ti fa dimenticare tutto. Anche il conto in banca.

Quando il desiderio supera le finanze, entra in scena l’arte dell’autoconvincimento. È una disciplina antica, affine alla meditazione, ma con più browser aperti e meno serenità.

Si comincia così: “Non sono adatte al mio arco plantare.”

Una bugia nobile, detta guardandosi allo specchio con lo stesso sguardo di chi rifiuta una crostata perché “deve sgonfiarsi”.

Funziona? A tratti. Ma bisogna essere molto brave a mentire. A se stesse.

Poi c’è la strategia della sostituzione affettiva.

Una via più pragmatica e meno crudele: trovi un modello simile, te lo racconti bene, lo chiami “ispirazione” e non “copia”, lo paghi meno di un bollettino scolastico.

Siti come Zalando e Yoox diventano il tuo rifugio. Cerchi qualcosa che dica “minimalismo sofisticato” e non “mi sono arresa”.

Perché, attenzione, la sostituzione affettiva non è rassegnazione. È resilienza estetica.

E comunque, diciamocelo: anche le Kelsey, appena le indossi, ti faranno le prime bolle.

È la legge non scritta del sandalo rigido: per addomesticarlo, devi prima sacrificare un pezzo di tallone.

Quindi al prezzo di 870 euro, aggiungici almeno 20 euro di cerotti Compeed.

Eleganza, sì. Ma con garze invisibili.

Nel frattempo, mentre noi ci contorciamo per non comprare un paio di sandali da 870 euro, l’altra sera a Report andava in onda l’inchiesta “Fuori moda”, un servizio che dovrebbe essere proiettato in loop nei camerini delle boutique di lusso.

Si parlava di Armani, Dior e altri marchi prestigiosi, di borse vendute a cifre a quattro zeri… e di produzioni spostate in Cina, dove i lavoratori (spesso sfruttati) le realizzano a costi irrisori.

Otto euro a borsa. Con turni massacranti, salari da fame e condizioni che di “prestige” non hanno nulla.

Nel frattempo, le stesse borse vengono vendute a 1.200 euro. Con tanto di luci soffuse, allestimenti minimal chic, e l’aura sacra del “Made in Italy”, anche quando dentro c’è ben poco di italiano.

Eh quindi sì, anche le Kelsey fanno male. Ti svuotano il conto e ti lasciano a negoziare con il tuo senso di colpa.

Non mi promettono empowerment, né inclusione, né rivoluzioni eco-solidali in punta di vitello prestige.

Sono semplicemente ciò che dichiarano di essere: un paio di sandali belli e spietati, come certi amori estivi che durano solo il tempo di un desiderio non consumato.

Perché la verità è che la moda, se proprio deve costare tanto, dovrebbe pesare non su chi osa sognarla tra un bollettino e un cashback.

Il vero lusso non è ciò che indossi. È potersi permettere di scegliere cosa non comprare, e uscirne comunque con stile.

...Alla fine non le ho comprate. E no, non ho comprato nemmeno un’alternativa economica, consolatoria, “quasi uguale”. Non ho cercato modelli simili, né ho cliccato su “visualizza articoli correlati”.

Ho semplicemente chiuso la pagina.

Un gesto piccolo, ma quasi rivoluzionario.

Le ho lasciate lì, tra i preferiti. Come certe tentazioni: meglio belle che reali.

Non perché non mi piacciano. Non perché non me lo meriti. Ma perché, a volte, scegliere di non cedere è l’atto più elegante che posso permettermi.

Ma ci ho scritto un articolo… che è un po’ come possederle, ma solo nel mio guardaroba immaginario.

E se un giorno le troverò scontate, in una qualche svendita mistica, giuro che non chiederò il numero. Le porterò via direttamente. Senza provarle. Perché a certe scelte si arriva preparate.

Come si fa con le cose belle.

Commenti

Valutazione 0 stelle su 5.
Non ci sono ancora valutazioni

Aggiungi una valutazione
  • Instagram
  • Facebook

© 2023 by Jorjette.

#followme

Grazie!

bottom of page