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  • La piccola Fashion Anarchist.

    Lo stile sfrenato secondo Giordana. Se dovessi trovare una definizione perfetta per Giordana, sarebbe "wildly stylish". Non semplicemente stilosa, ma stilosa in modo sfrenato, audace e senza compromessi. Il suo look non è solo un insieme di vestiti, ma una dichiarazione di indipendenza. Giordana non sceglie cosa indossare, Giordana compone un'opera d'arte ogni mattina. Il suo guardaroba è un’esplosione di colori, trame e dettagli improbabili che, in un modo che sfida ogni logica, funzionano perfettamente su di lei. Tulle e pantaloni della tuta? Perfetti. Corone da principessa e occhiali a forma di stella? Must-have. Calzini gialli sotto il diluvio con le friulane rosse? Avanguardia pura. E il bello è che tutto questo non è studiato, non è un tentativo di essere alla moda o di seguire tendenze. È puro istinto, pura espressione personale. Se esiste una vera icona della libertà stilistica, è lei. E se domani decidesse di uscire di casa con il costume da sirena sopra i jeans? Non mi stupirei affatto. Se c’è una regina della libertà in questa famiglia, quella è Giordana. Tre anni di pura determinazione, tre anni di rivoluzione stilistica, tre anni di “mamma, faccio io!”. Perché mentre il mondo si affanna a trovare il proprio stile, lei lo ha già trovato: un perfetto mix tra artista bohémien, esploratrice di mondi e (a detta di alcuni) "scappata di casa". Chi ha stabilito che le calze devono essere dello stesso colore? Perché mai una gonna di tulle non dovrebbe sposarsi con una maglia dei dinosauri? E chi ha deciso che le scarpe vanno allacciate? Certamente non Giordana, che sfida ogni convenzione con la sicurezza di chi sa che la vera eleganza è l’essere se stessi, sempre e comunque. Giordana è l’essenza della libertà, un’anarchica della moda infantile, una che ti guarda con disappunto se provi a suggerirle un abbinamento più sobrio. Perché lei non si veste, lei si esprime . Ed è proprio in questo che sta la sua magia: non segue regole, non si conforma, non si preoccupa del giudizio altrui. E mentre noi adulti ci preoccupiamo di cosa dirà la gente, se il nostro stile è adeguato all’occasione o se ci siamo ricordati di togliere l’etichetta dal maglione nuovo, lei esce di casa con  le friulane rosse, i calzini gialli (sotto il diluvio) la corona da principessa e gli occhiali da sole a forma di stella. Perché sì. E la cosa più incredibile? Sta benissimo. Se ci fosse una settimana della moda dedicata ai bambini con stile, Giordana ne sarebbe la musa ispiratrice. Il problema è che nessun stilista riuscirebbe a starle dietro. Un giorno è la principessa ribelle, l’altro è una rockstar in pigiama. C’è stato un periodo in cui ha deciso che le magliette andavano indossate al contrario e le giacche si portavano sulle spalle "come i supereroi". E guai a chi provava a farle cambiare idea. L’unico criterio che guida le sue scelte è un mix di umore e ispirazione del momento. Vuole essere una principessa? Allora via con strati su strati di tulle e non importa se sotto ci sono i pantaloni della tuta: deve poter correre veloce. Mentre io cerco di mantenere un minimo di coerenza cromatica, lei mi guarda con la superiorità di chi ha già capito tutto della vita. Perché dovremmo conformarci? Perché seguire le mode quando si può crearle? La verità è che io, in quanto madre, ho perso qualsiasi diritto decisionale sulla sua moda personale. Sono priva di ogni potere d’acquisto spontaneo : se le compro qualcosa senza la sua approvazione preventiva, posso già prepararmi a tornare in negozio con lo scontrino in mano. Perché no, non si indossa. Nemmeno sotto tortura. E non è che si limiti a dire "non mi piace". No, Giordana è una che argomenta, che ti spiega con dovizia di particolari perché quella maglietta non può assolutamente far parte del suo guardaroba. Una visione della moda più ferrea di un direttore creativo di alta moda. Anzi, già scorre gli shop online da sola e mette il cuore sugli articoli che le piacciono. Tre anni. A TRE ANNI. Io alla sua età probabilmente mi mangiavo la carta da parati, lei invece seleziona capi e accessori come una fashion blogger navigata. Un dettaglio non trascurabile: ha più cerchietti (le sue corone) che mutande. C’è chi accumula borse, chi impazzisce per le scarpe, e poi c’è Giordana che possiede un arsenale di cerchietti da far invidia a un negozio di accessori. Da quelli con fiocchi enormi a quelli con gli unicorni, da quelli glitterati a quelli con le pietre preziose fasulle, non c’è occasione in cui non trovi quello perfetto (perfetto per lei, ovviamente). Il problema? Ha i capelli costantemente annodati. Cioè, non è che siano semplicemente arruffati. No. Siamo a livelli di "cuscino aggrovigliante", di nodi che sembrano studiati dalla fisica quantistica, di capelli che se cerchi di pettinarli rischi di rimanere incastrata nella chioma come in una giungla tropicale. Ci ho ho provato, giuro che ci ho provato! Ho anche speso 25 euro per un balsamo senza risciacquo solo perché era "quello delle principesse". Perché se non è a tema favole, ovviamente, non lo vuole. Peccato che, tra un nodo e l’altro, neanche il balsamo magico di una fata possa fare miracoli. Il tutto, ovviamente, genera un trauma irrisolto in mia nonna, la classica borghese napoletana sempre apparecchiata e puntuale, con le mani fatte ogni settimana anche in età avanzata e un senso del decoro ereditato direttamente dalle signore bene di un tempo. Nonna, abituata a bambini sempre in ordine, capelli pettinati e vestitini stirati, quando la vede si porta la mano al cuore come se stesse avendo un mancamento. “Ma com’è conciata?!”, mi dice scuotendo la testa, quasi offesa… Oppure osserva con orrore il cerchietto perfettamente posizionato sulla testa e poi mi dice con aria di sentenza: “Ma almeno pettinala.” E io la capisco. Davvero. Perché Giordana non ha mezze misure: può essere una signorina raffinata oppure un piccolo uragano senza controllo. E il 99% delle volte è la seconda opzione. Come se non bastasse, Giordana ha già una spiccata passione per il make-up. Se non la vedo per più di cinque minuti, so che è in bagno con i miei trucchi. A tre anni. A questo punto mi sento di dire che a dodici probabilmente avrà una vanity table più fornita della mia. Smalti, rossetti, pennelli: le interessa tutto, e con la sicurezza di chi è già un’esperta. Se trovo il blush finito o il mascara in una posizione sospetta, so già chi è la colpevole. Ecco, se questo è il presente… non voglio immaginare il futuro. La scuola che ho scelto per Giordana non mi aiuta per niente. Ovviamente, ne vado fiera! Io la adoro, ma diciamo che non fa nulla per arginare questa sua natura… anzi, la esalta e la intensifica. Non è la classica scuola pubblica impiantata su radici latino-filosofiche… nooo! Loro offrono ai bambini la libera interpretazione. Libertà di pensiero, libertà di movimento, libertà di espressione. E a chi è che servirebbe, una cosa del genere? Giordana la sua voce ce l’ha già, forte e chiara. E questa scuola le ha dato il megafono. Ogni tanto, però, qualche richiamo arriva anche a me. Perché una cosa è lasciare spazio alla creatività, un’altra è trovarsi una mini regina di Arendelle che si aggira per la classe con tanto di velo da sposa e strascico scintillante. Sì, perché Giordana si è presentata a scuola vestita da Elsa di Frozen, in versione gala ufficiale. Con un’espressione solenne, il velo svolazzante sulle spalle e la sicurezza di chi sa di avere tutto il diritto di congelare chiunque osi contraddirla. Diciamo che non era proprio l’outfit più idoneo per le attività scolastiche. E diciamo che mi è stato fatto notare. Ma d’altronde, cosa dovevo fare? Dirle di no? Giordana non accetta un no senza un processo decisionale lungo ed estenuante. Ho valutato, ho tentato di negoziare, ho proposto alternative. Ha vinto lei. A questo punto, la domanda sorge spontanea: perché Giordana è così? È nata con questo spirito libero, o c’è qualcosa che ha contribuito a renderla un’icona di stile a soli tre anni? Dal punto di vista psicologico, il comportamento di Giordana rientra perfettamente in un mix di fattori che vanno dalla sua personalità innata al tipo di educazione che riceve, fino all’ambiente che la circonda. Ecco cosa potrebbe spiegare questa sua naturale inclinazione alla libertà di espressione e alla dittatura del gusto personale! A tre anni, i bambini attraversano una fase cruciale dello sviluppo: il bisogno di autonomia. È la fase in cui vogliono fare tutto da soli: vestirsi, mangiare, decidere cosa fare e quando farlo. È il periodo del famoso “No! Faccio io!”, che in Giordana ha trovato la sua massima espressione in campo estetico. Erik Erikson, uno dei più importanti psicologi dello sviluppo, descrive questa fase come il passaggio tra dipendenza e autonomia. Se il bambino sente di avere controllo sulle sue scelte, rafforza la fiducia in sé stesso. Se invece viene troppo limitato o contrastato, può sviluppare insicurezze o un’eccessiva paura di sbagliare. Il fatto che Giordana scelga ogni giorno il suo outfit con tanta sicurezza significa che si sente pienamente padrona di sé stessa. E guai a toglierle questo potere! Le neuroscienze ci dicono che il temperamento (ovvero la predisposizione innata a certi atteggiamenti) è in gran parte genetico. Alcuni bambini nascono con un carattere più adattabile e tendono a seguire le regole senza troppe proteste. Altri, invece, sono più indipendenti e testardi: vogliono esplorare, decidere, sperimentare da soli. Alcuni studi dimostrano che i bambini con alta autodeterminazione tendono a essere più creativi, sicuri di sé e, in futuro, meno inclini a lasciarsi influenzare dai giudizi esterni. In pratica, Giordana è nata con lo spirito di una leader, una che non seguirà mai il gregge… almeno per quanto riguarda lo stile. La teoria dell’attaccamento di Bowlby ci spiega che i bambini sviluppano la propria sicurezza in base al rapporto con i genitori. Se un bambino cresce in un ambiente che incoraggia la libera espressione e gli dà fiducia, si sentirà più sicuro nel prendere decisioni in autonomia. Ora… senza fare nomi (tipo il mio), diciamo che Giordana non cresce certo con una madre oppressiva che impone regole ferree su come vestirsi. Anzi, le viene lasciato molto spazio per esprimersi, e questa libertà rafforza la sua sicurezza nelle scelte. Il risultato? Una mini fashion icon con le idee chiarissime su cosa vuole e cosa NO. E poi c’è l’ambiente in cui cresce. Se Giordana avesse frequentato una scuola più “rigida”, probabilmente avrebbe trovato dei limiti al suo estro creativo. Ma nella scuola che ho scelto per lei, che enfatizza la libera espressione, la sua personalità ha trovato un terreno perfetto per sbocciare. Le teorie pedagogiche moderne, dimostrano che quando ai bambini viene data la possibilità di scegliere, creare ed esplorare, sviluppano un pensiero più originale e meno conformista. Quindi sì, la scuola non mi aiuta per niente… ma in fondo ne sono fiera! Ed ecco la vera domanda: quanto c’entro io in tutto questo? Perché, onestamente, non mi ritengo una persona così altezzosa e sofisticata. Un po’ sì, dai. Ma non fino al punto di crescere una figlia che a tre anni seleziona i suoi outfit con la stessa sicurezza di una stylist di Vogue. La verità è che i bambini osservano e assorbono tutto quello che vedono. Anche se non mi metto lì a imporre regole di stile, probabilmente Giordana ha percepito che l’immagine ha un valore, che il modo in cui ci vestiamo comunica qualcosa. E magari, nel suo modo assolutamente geniale e fuori dagli schemi, non sta facendo altro che reinterpretare quello che vede. Dopotutto, chi ha detto che il buon gusto debba essere noioso? Ma in fondo, va bene così. Alla fine, la lezione che Giordana ci sta dando è molto più profonda di quanto sembri: non si tratta solo di vestiti, ma di libertà di essere se stessi. E mentre noi adulti ci affanniamo a scegliere gli abiti giusti per le occasioni giuste, a preoccuparci di cosa penserà la gente, lei esce di casa con la corona da principessa e gli occhiali da sole a forma di stella. E sta benissimo. Forse, invece di scuotere la testa, dovremmo prenderla come esempio. Perché sentirsi bene con se stessi vale più di qualsiasi outfit perfetto. Canzone da passerella sovversiva Mon Soleil – Ashley Park Perché anche le piccole rivoluzionarie hanno bisogno di una colonna sonora tra paillettes e disobbedienza. E perché se devi riscrivere le regole dello stile, tanto vale farlo con un po’ di soleil nei capelli.

  • L'importanza dei titoli di testa (e di coda); ovvero, perché siete maleducati?

    Ci sono cose nella vita che non riesco proprio a capire. Per esempio, perché nei cartoni animati gli animali parlano ma i loro padroni no? Perché le borse da donna sembrano voragini in cui sparisce tutto tranne quello che serve davvero? E soprattutto, perché la gente al cinema ignora i titoli di testa e scappa durante quelli di coda? Ieri sera, con Alberto, abbiamo deciso di guardare Lego Batman – Il film. Lui, ovviamente, era entusiasta: Lego e supereroi insieme, cosa poteva esserci di meglio? Io, invece, ero preparata mentalmente a un’ora e mezza di mattoncini colorati e battute per bambini. Invece, già dai primi secondi, mi sono ritrovata a ridere da sola. Non perché fosse successa chissà quale scena comica, ma per la voce narrante che commentava i loghi delle case di produzione con un tono solenne e ironico al tempo stesso. Una scelta geniale. Un modo per dire: “Hey, ogni dettaglio è importante, pure queste scritte all’inizio”. E così, mi si è accesa una domanda che mi perseguita da anni: ma perché la gente non presta attenzione ai titoli di testa? Forse sono io il problema, ma ogni volta che vado al cinema mi aspetto un minimo di rispetto per l’esperienza cinematografica. Non pretendo il silenzio religioso di un monastero, ma neanche il caos di un mercato rionale all’ora di punta. I titoli di testa, per me, sono parte integrante del film. Sono come l’ouverture in un concerto, il sipario che si apre a teatro. Creano l’atmosfera, ti immergono nella storia ancora prima che inizi. Ma per il pubblico medio sono solo un fastidioso intervallo tra la pubblicità dei popcorn e la prima scena d’azione. E allora ecco la sfilata degli orrori: c’è chi rovista nel sacchetto di popcorn con la dedizione di un archeologo, deciso a trovare l’ultimo residuo di mais incastrato nel fondo, producendo un suono che potrebbe tranquillamente coprire la colonna sonora. Poi arriva il ritardatario professionista, quello che non si accontenta di essere in ritardo: deve anche rendere la sua entrata il più teatrale possibile. Sfila tra le file buie inciampando sugli spettatori seduti, illumina la sala col cellulare per cercare il posto (magari con la luminosità impostata a "supernova"), si sistema con calma e, giusto per completare il rituale, si dedica a un'attenta applicazione di burrocacao. E infine, l'immancabile commentatore da grande evento, colui che ritiene impossibile vivere un’esperienza visiva senza condividerne ogni pensiero ad alta voce. Si passa dalle domande esistenziali tipo “Ma questo chi è?”, fino alle profezie da esperto di sceneggiatura: “Secondo me muore subito”. E questo solo per quanto riguarda l’inizio. Ma il peggio arriva alla fine. Se i titoli di testa sono ignorati, i titoli di coda vengono trattati come un allarme antincendio. Appena appare la prima scritta bianca su sfondo nero, scatta il panico collettivo: I primi a scattare in piedi sono quelli seduti al centro della fila, così bloccano la visuale a tutti quelli che magari volevano rimanere. Seguono i corridori olimpionici, che in tre secondi sono già in fondo alla sala, come se rimanere qualche minuto in più potesse provocare danni permanenti. Poi ci sono i disperati della toilette, quelli che evidentemente hanno passato le ultime due ore a bere litri di Coca-Cola e ora rischiano di esplodere. Eppure, i titoli di coda non sono messi lì per riempire spazio. Ci sono momenti bellissimi nei finali di film. Colonne sonore che meritano di essere ascoltate, scene bonus, ringraziamenti, citazioni nascoste. La gente ha imparato a restare seduta solo per i film Marvel, perché teme di perdersi la scena post-credit. Ma diciamoci la verità: lo fanno solo per opportunismo, non per rispetto. Rimanere seduti fino alla fine non è solo un gesto di rispetto per chi ha lavorato al film (e che magari non vedremo mai sullo schermo, ma che senza di loro il film non esisterebbe). È anche un modo per vivere il cinema fino in fondo, senza fretta, senza l’ansia di scappare come se la sala dovesse esplodere da un momento all’altro. Forse il problema è che la gente vede il film come una storia che inizia e finisce solo nelle scene principali, senza considerare il contesto. Ma sarebbe come aprire un libro saltando la prefazione e chiuderlo prima dell’ultima pagina, ignorando i ringraziamenti o l’epilogo. E a proposito di libri, avete mai visto la reazione di uno scrittore quando qualcuno dice candidamente: “Io le prefazioni non le leggo mai” o “L’epilogo non mi interessa, tanto la storia è finita”? Il loro sguardo oscilla tra il dispiacere e l’incredulità, perché sanno che proprio lì, in quei dettagli che molti considerano superflui, si nasconde il senso più profondo dell’opera. Lo stesso vale per il cinema: ignorare i titoli di testa e di coda è come perdersi un pezzo della storia, il suo contesto, il lavoro di chi ha reso possibile tutto ciò che hai appena visto. La prefazione di un libro può dare le chiavi di lettura, presentare l'autore o spiegare il senso dell'opera. Allo stesso modo, i titoli di testa di un film costruiscono l’atmosfera, ti preparano al mondo in cui stai per immergerti. Non sono solo nomi, sono già parte del viaggio. E la conclusione? Nei libri, c’è chi si prende il tempo di leggere le note finali, le dediche, i ringraziamenti. Magari scopre un dettaglio interessante sull'autore, una storia dietro alla storia. Nei film è lo stesso: nei titoli di coda si nascondono piccoli dettagli, dediche personali, perfino scene extra. Ma la maggior parte delle persone, sia nei libri che al cinema, è troppo impaziente. Vuole arrivare subito al sodo, ignorando tutto il resto. C’è anche un altro punto: forse solo chi lavora nel mondo del cinema, o in generale nella creatività, sa davvero quanto contino quei nomi, quei titoli, quei dettagli che sembrano superflui. Uno sceneggiatore, un regista, un montatore, un grafico, perfino un tecnico delle luci, sanno che ogni titolo nei crediti rappresenta il lavoro, il sudore, l’impegno di qualcuno che ha reso possibile il film. Per chi è “del mestiere”, non guardare i titoli di testa e di coda è come ignorare il lavoro che sta dietro alla magia. Ma per la maggior parte degli spettatori è solo un inutile riempitivo. Forse è per questo che mi è piaciuta così tanto la voce narrante di Lego Batman: perché mi ha ricordato che anche un dettaglio apparentemente irrilevante può essere importante, se lo si sa guardare nel modo giusto. I titoli sono come l’educazione, se non li consideri, vuol dire che ti manca qualcosa. Forse non cambierò il mondo con questa riflessione, e di certo al prossimo film al cinema ci sarà sempre qualcuno che si alza prima del dovuto. Ma una cosa è certa: Lego Batman mi ha ricordato che l’attenzione ai dettagli fa la differenza. E che forse, la prossima volta, riderò da sola al cinema già dai loghi iniziali. Batman legge i titoli. E tu? “Who’s the (Bat)Man” – Patrick Stump   Un titolo iniziale c’è nell’articolo, e questo pezzo di Stump attacca con un basso squadrato e una rima pop decisa: l’ideale per introdurre la “maleducazione” dei titoli di testa. È una canzone che gioca con l’idea stantia del “chi è l’eroe”, perfetta per ribaltare le aspettative di chi pensa di bastare un nome in sovraimpressione.

  • The Day After... spot!

    Ah, la stagione degli spot dei profumi! Quella meravigliosa tradizione pubblicitaria in cui attori bellissimi, vestiti di seta o seminudi, corrono nel deserto, ballano sotto la pioggia o fissano il vuoto con sguardi intensi, mentre una voce sussurra parole esistenziali tipo "L’amour, c’est tout" o "Be yourself, be fragrance" . San Valentino, più che la festa degli innamorati, sembra essere la festa delle pubblicità di profumi. Per qualche motivo, le case di moda hanno deciso che il modo migliore per esprimere l’amore non sia con gesti reali o attenzioni sincere, ma spruzzandosi addosso un’essenza dal nome altisonante. E così, tra uno spot e l’altro, ci ritroviamo a domandarci: "Ma io, senza questa fragranza, riuscirò mai a essere desiderabile?" . Poi ci sono le pubblicità che puntano sull’erotismo sfrenato: lui e lei si annusano come segugi, il tutto condito da un montaggio di sguardi languidi e labbra socchiuse. Oppure quelle dal tono filosofico: voci profonde che recitano frasi sconnesse tipo "Il tempo è un’illusione. L’amore è un profumo. Tu sei infinito." … e giù milioni di euro per un flacone di liquido. E vogliamo parlare delle versioni maschili? Qui il copione è sempre lo stesso: uomo in smoking che guida un’auto sportiva (rigorosamente da solo), sfida l’oceano, cammina per una città deserta alle tre di notte, il tutto mentre un’attrice bellissima lo guarda come se fosse un semidio. Perché, si sa, se non indossi quel profumo, nessuno ti troverà attraente. Alla fine, ci caschiamo sempre: entriamo in profumeria, spruzziamo il tester, ci diciamo "quest’anno niente regali banali" , e torniamo a casa con l’ennesimo flacone da aggiungere alla collezione. E l’amore? Beh, quello non si compra… ma almeno profuma di vaniglia e legni pregiati! Ieri sera, tra un’apocalisse glaciale e una valanga di spot, abbiamo scoperto che l’amore è quando anche il disastro sa di lusso… e di profumo. Mentre cercavamo di guardare, con un certo masochismo, The Day After Tomorrow  su Mediaset, combattendo più contro gli spot che contro l’era glaciale, arriva la pubblicità del nuovo profumo Burberry Hero . Sullo schermo, Adam Driver corre a petto nudo accanto a un cavallo su una spiaggia deserta, in un crescendo epico di simbolismo. A quel punto, Adriano, con la sua consueta capacità di sintesi, se ne esce con: “Perché dovrei comprarmi un profumo che, dal messaggio pubblicitario, sembra che sappia di stallone dopo una corsa?” . Certo, con le informazioni corrette possiamo tranquillizzarlo: Burberry Hero  non è pensato per evocare l’odore di una scuderia dopo un derby. La fragranza, in realtà, punta a rappresentare una mascolinità moderna e sensibile, con note legnose e profonde, ispirate alla connessione tra uomo e natura. Adam Driver che si fonde con il cavallo in una visione quasi mitologica è un modo per evocare il concetto di forza primordiale e libertà. Ma provate voi a spiegare tutto questo a chi sta solo cercando di capire se Jack e il padre sopravviveranno alla glaciazione, tra un’interruzione pubblicitaria e l’altra. D’altra parte, The Day After Tomorrow  non è mica una visione a caso. Con i tempi che corrono, un bel ripasso su come sopravvivere a una catastrofe naturale non fa mai male. Non che ci aspettiamo che il mondo diventi improvvisamente una lastra di ghiaccio, ma tra cambiamenti climatici, disastri ambientali e tensioni varie, non è che oggi possiamo proprio rilassarci con serenità assoluta. Insomma, mentre Jack si rifugia nella biblioteca bruciando enciclopedie per scaldarsi, noi prendiamo appunti su cosa potremmo dover fare. E magari, nel dubbio, teniamo da parte anche una scorta di candele e batterie… che non si sa mai. Arriva di nuovo la pubblicità, perché, a questo punto, Mediaset ha deciso che The Day After Tomorrow  lo vedremo a puntate come una serie TV, ed ecco che sullo schermo compare lui: Edward Cullen. No, aspetta… Robert Pattinson. Ma l’effetto è lo stesso. Occhi malinconici, sguardo perso tra il misterioso e l’annoiato, e una motocicletta che, per qualche oscuro motivo, sembra usata più come divano che come mezzo di trasporto. Adriano, senza perdere un colpo, commenta: “Lei con Twilight seduta sulla motocicletta tutta al contrario… è come fare uno spot di una macchina con una una che guida in retromarcia! Ma che problemi hanno?” . E in effetti, la scena solleva qualche domanda. Lo spot di Dior Homme – I’m Your Man  ha tutto: la fotografia patinata, la musica che suggerisce intensità emotiva, Pattinson che alterna sguardi penetranti al vuoto cosmico. Ma lei in quella posizione così… poco convenzionale? Intanto The Day After Tomorrow  riprende, giusto il tempo di ricordarci che una buona scorta di coperte e cibo in scatola potrebbe tornare utile nel prossimo futuro. Ma non facciamo in tempo a prendere appunti che arriva l’ennesima pausa pubblicitaria. Se la vera sfida del film è sopravvivere all’era glaciale, la nostra è riuscire a vedere almeno mezz’ora di trama senza essere interrotti da un attore dall’aria tormentata che pubblicizza un profumo. E passando dal divano alla camera da letto, tra una pubblicità e l’altra, sento Adriano che, assorto nelle sue riflessioni da critico pubblicitario non riconosciuto, se ne esce con un’altra delle sue perle: “Come Johnny Depp che si rompe il bracciale! Non è Sauvage… è str**z!” . Un chiaro riferimento agli spot di Dior Sauvage , in cui il buon Johnny, con il suo fascino da rockstar mistico-desertico, si aggira tra scenari selvaggi, scavando buche, fissando il vuoto o suonando la chitarra con un’aria da “ho capito tutto della vita, ma non vi spiegherò mai cosa” . Il tutto, ovviamente, mentre si sfila il bracciale in un gesto simbolico che dovrebbe rappresentare la libertà, ma che, a detta di Adriano, sembra più un problema di fibbia difettosa. E in effetti, se il messaggio è quello della virilità pura e incontaminata, forse sarebbe meglio evitare scene che fanno pensare più a un “ maledizione, l’ho pagato su Etsy e si è già rotto ”  che a un atto di ribellione profonda. E mentre Adriano continua la sua crociata contro la logica pubblicitaria, io provo a difendere almeno uno degli spot che ci stanno bombardando: “Beh, almeno con Gucci Flora hanno avuto un po’ di coerenza: hanno preso Miley Cyrus, e la canzone è Flowers. Almeno lì un senso c’è!” . Lui mi guarda, incrocia le braccia e sospira come chi ha appena perso ogni speranza nell’industria del marketing: “Sì, vabbè, ma quello è facile. Se vendi un profumo che si chiama Flora e prendi una cantante che canta Flowers, hai semplicemente fatto il compitino. Dove sta il genio creativo?” . Effettivamente, ormai siamo a un punto in cui ci aspettiamo pubblicità sempre più assurde e scollegate. Se domani qualcuno decidesse di promuovere un profumo con uno spot ambientato nello spazio, con un astronauta che annusa l’etere e dice “Questo è il profumo del cosmo” , non ci stupiremmo più di tanto. Intanto, nel nostro piccolo, la nostra personale lotta per la sopravvivenza continua: riusciremo mai a vedere The Day After Tomorrow  senza interruzioni? Riusciremo a sfuggire alla pubblicità di profumi che ormai si susseguono senza soluzione di continuità? O finirà che, tra un centauro, un Pattinson in retromarcia e un Depp con problemi di accessori, dovremo rivedere il film un’altra sera? Ai posteri ...e agli spot, l’ardua sentenza. Colonna sonora del giorno dopo “Dolce Vita” – Ryan Paris Perché è impossibile parlare di pubblicità, spot anni ’80 e illusioni luminose senza evocare l’eterna promessa della Dolce Vita . In bilico tra malinconia sintetica e ottimismo pop, è il sottofondo perfetto per quel retrogusto amaro che arriva sempre... il giorno dopo.

  • Lezioni di democrazia creativa con Giorgia (no, non io. L’altra.)

    In un Paese dove l’astensione è diventata tendenza, lo Stato cucina la democrazia a bassa temperatura e te la serve con finta gentilezza: “Puoi scegliere se andare a votare… oppure no. Ma fallo civilmente, eh.” Con il referendum dell’8 e 9 giugno 2025, tra un quesito abrogativo e un’insalata di interpretazioni, abbiamo assistito a un vero spettacolo da chef dell’ambiguità istituzionale. In cucina: Giorgia. No, non io. L’altra Giorgia. Quella con la divisa da presidente del Consiglio e il grembiule da influencer istituzionale. Sì, il dato sull’affluenza di ieri (22,73%) è un segnale politico molto forte. O meglio: un silenzio assordante. In Italia, perché un referendum abrogativo sia valido, è necessario che voti almeno il 50% + 1 degli aventi diritto. Con un’affluenza del genere, il referendum è fallito per mancanza di quorum. E anche rumorosamente. Ma attenzione: non è solo colpa dell’apatia. È che ci sono più tipi di silenzio, e non tutti si equivalgono. C’è quello beneducato e strategico, in giacca e cravatta, che arriva da chi comanda e “non invita nessuno”, ma nel dubbio non vota. E poi c’è il silenzio di chi la politica la vive solo nei suoi effetti collaterali: contratti a termine, stipendi da fame, lavori in nero, mancanza di tutele. Gente che non ha il tempo, la forza o il privilegio di illudersi che una scheda possa cambiare qualcosa. In molte città, il referendum è percepito come un esercizio per chi ha il contratto a tempo indeterminato e la cena pronta alle otto. Per tanti, l’astensione non è una scelta politica, è disillusione strutturale. È la voce stanca di chi si è già sentito escluso da tutto, figuriamoci dalla scheda. Il risultato? Un’astensione di massa in cui convivono strategie istituzionali e realtà ignorate. Un Paese che “non partecipa” perché o gli conviene non votare, o non se lo può permettere. Ed è proprio da qui che nasce la nostra ricetta del giorno: tramezzino alla democrazia creativa con ripieno di dichiarazioni contraddittorie e salsa al finto rispetto delle istituzioni. Per prepararla servono: 24 ore di dichiarazioni vaghe 48 ore di smentite parziali 72 ore di polemiche indignate una spruzzata di “io rispetto le istituzioni, ma...” e una coreografia finale al seggio, rigorosamente senza toccare l’urna Una democrazia performativa, che si mostra ma non si consuma. Un voto simbolico al negativo. Una presenza scenica, come il prezzemolo, che non cambia il gusto ma fa arredamento. L’immagine è semplice: un tramezzino apparentemente innocuo; all’interno, invece della sostanza democratica, trovi solo insalata di disillusione. Perché se il governo ti dice: “Io non vado a votare, ma vado comunque al seggio...” tu, cittadino, inizi a chiederti se sei stupido, idealista, o tutte e due. Il sottotesto è chiaro: “Io non partecipo, ma comando. Io non scelgo, ma rappresento. Io non voto, ma decido lo stesso.” Una meravigliosa forma di democrazia-decorazione. In questa cucina post-costituzionale, la vera portata non è la legge, ma la sua interpretazione creativa. L’articolo 98 del Testo Unico delle leggi elettorali vieta a chi ricopre cariche pubbliche di indurre all’astensione? Sì. Ma solo se lo fai troppo apertamente. Se invece lo fai con allusioni eleganti, dirette streaming e gesti simbolici, allora si chiama “comunicazione strategica.” La verità è che un diritto, per essere esercitato, deve prima essere riconosciuto come tale. E in Italia, il voto referendario è trattato come il pane raffermo della democrazia: lo si serve solo se ci sono avanzi di indignazione. Nel frattempo, i ruoli familiari restano coerenti: il padre dà il cognome, la madre il latte, lo Stato il permesso di voto, ma solo se ti comporti bene.

  • Le mani, dove il pensiero si fa gesto.

    Alberto entra, l’acqua scorre, il bagnoschiuma sparisce. Ma le mani… nemmeno sfiorate. Come se avessero avuto l’immunità diplomatica dal sapone. È come se nel suo cervello si attivasse questa logica: “Mi sto lavando tutto… quindi le mani si laveranno da sole, per forza. Sono in doccia, no?” No! La doccia non è una lavatrice a ciclo integrale. Le mani, se non le strofini, restano uno stato a parte. E se prima avevi il cioccolato sotto le unghie, ora hai… cioccolato umido. È il mistero pedagogico del secolo: la doccia selettiva. Un classico dei bambini: riescono a lavarsi i capelli dimenticandosi la testa. E quando glielo fai notare? Ti guardano confusi, offesi quasi, come se tu fossi l’assurda: “Ma ho fatto la doccia! Me lo stai dicendo sul serio?!” Sì. Sul serio. Le mani fanno parte del corpo. Sorpresa. E io ho pensato: ma com’è possibile? Come si fa a lavarsi tutto, e dimenticarsi proprio le mani? Poi mi è venuto in mente che lo facciamo tutti, ogni giorno. Ci laviamo le coscienze. Facciamo bei discorsi. Postiamo citazioni, ci indigniamo per le ingiustizie del mondo. Ma spesso ci dimentichiamo di guardare le nostre mani: cosa stringono, cosa lasciano, cosa sporcano. Le mani sono azione. Contatto. Responsabilità. E non si lavano da sole, nemmeno sotto la pioggia di buoni propositi. Le mani, non sono mai solo mani: sono simboli potentissimi. Parlano di azione, potere, relazione, colpa, creatività e destino. Le mani, in molte culture del mondo, non sono solo strumenti fisici, ma simboli profondi di protezione, potere, destino e relazione. Nel mondo mediorientale, ad esempio, troviamo l’Hamsa, conosciuta anche come Mano di Fatima o di Miriam: una mano aperta, spesso raffigurata con un occhio al centro, capace — secondo la tradizione — di allontanare il male e portare fortuna. In India, invece, i gesti delle mani sono parte di un linguaggio sacro: le mudra. Ogni posizione delle dita comunica uno stato d’animo, una preghiera, una qualità spirituale — come la pace, il coraggio, l’apertura. In molte religioni, lavarsi le mani assume un significato preciso. È il gesto simbolico del distacco dalla colpa, come fece Ponzio Pilato: un lavaggio solo apparente, che non cancella, ma serve a scaricare la responsabilità. Nella tradizione ebraica, invece, c’è il Netilat Yadayim, il lavaggio rituale delle mani prima del pane, al mattino, dopo il bagno. Un atto che non ha nulla di estetico: è un gesto di purificazione. Perché le mani, nel toccare il mondo, assorbono anche la sua impurità. C’è poi il tema del destino. In molte culture, la mano è considerata una mappa personale: le linee che la attraversano raccontano chi siamo, cosa abbiamo vissuto, dove potremmo andare. La chiromanzia, presente in diverse tradizioni, distingue tra la mano “sociale”, quella destra, e quella “originaria”, la sinistra: la prima racconta ciò che scegliamo, la seconda ciò che ci portiamo dentro. In alcune culture africane, le mani vengono decorate e dipinte nei riti di passaggio: sono segno di appartenenza, strumento di trasformazione, testimonianza visibile del cambiamento. In molte tradizioni asiatiche, infine, offrire qualcosa con entrambe le mani è un atto di rispetto profondo, un dono completo, che coinvolge il corpo e lo spirito. E nei Vangeli, le mani diventano veicolo di miracolo: Gesù impone le mani per guarire, per benedire, per toccare la sofferenza e trasformarla. La mano, fin dall’origine della parola, è legata al fare, all’agire, al potere di trasformare. Non a caso emancipare (da ex-manus capere) significa “togliere dalla mano”, rendere libero. La parola "mano" nasce per afferrare. E forse è proprio questo il nostro problema: crediamo che basti stringere qualcosa per possederlo, ma spesso ci dimentichiamo che le mani servono anche a lasciare andare. Le mani parlano. Anche quando stanno ferme. Anche quando dimenticano di lavarsi, come ha fatto mio figlio ieri, uscito trionfante dalla doccia, con le mani ancora incrostate. Tutto il corpo pulito. Tranne la parte che tocca il mondo. Ecco, forse è questo il punto: le mani sono la nostra frontiera. Sono quelle che portano dentro casa la realtà: fango, graffi, carezze, colpe. E non c’è doccia che basti se dimentichiamo di guardarci proprio lì, dove finisce il pensiero…e inizia il gesto. I napoletani lo sanno: a gesti si capisce meglio. Ma non è solo un cliché, è una grammatica alternativa. C’è il gesto che ti chiede “che stai dicenn’?”, quello che ti avvisa “statte fermo”, quello che spiega “tutt’appost” anche quando tutt’appost non è. Mani che si alzano verso il cielo per invocare un miracolo o maledire un semaforo. Mani che pizzicano il vuoto per dare il ritmo a una lamentela. Mani che toccano, sfiorano, spingono, guidano il sentimento prima della voce. E se pensi che sia folklore, hai capito poco, perché a Napoli le mani trasmettono verità: sono sincere, esagerate, ruvide, affettuose, teatrali. Le mani napoletane non si lavano dalle responsabilità, si sporcano di realtà. Perché la verità, qui, si tocca. Si fa. Si gesticola. Sono strumenti di partecipazione e servono a fare il sugo e a fare la rivoluzione... A toccare il dolore, senza filtri. A tenere il mondo con dita intrecciate. Nel Giappone antico, le mani erano considerate porte spirituali: i samurai non toccavano nulla “impuro” con le mani nude. Le mani erano sacre, perché esprimevano volontà. Ma sempre contenute. Sempre trattenute. Eleganza, controllo, distanza. A Napoli? Il contrario. Le mani sono espansione dell’anima. Si muovono come se volessero uscire da te, prendere parola, stringere la vita. Sono l’opposto del silenzio cerimoniale: sono il teatro aperto dell’esistenza. Non stiamo parlando né del napoletano aristocratico con la mano leggera da ventaglio e il dito alzato da salotto liberty, né di chi ha il portafoglio pieno e le radici leggere che gesticola per apparire, non per sentire. Qui stiamo parlando del napoletano autentico, quello popolare, viscerale, espressivo, che ha imparato a parlare con le mani prima ancora che con la bocca, perché nella vita vera le parole a volte non bastano. E allora le mani parlano per te. Sono le mani del fruttivendolo che ti pesa le emozioni insieme ai pomodori. Quelle del muratore che prima di iniziare il lavoro si fa il segno della croce. Quelle della nonna che benedice, impasta, accarezza e rimprovera con lo stesso gesto. Sono le mani non educate al galateo, ma profondamente istruite alla verità del gesto. Ecco perché questa riflessione non è folclore da cartolina, né estetica da fiction, ma antropologia emozionale di una città che tocca prima di spiegare. Sotto le mani che impastano, sotto le parole che raccontano, sotto l’arte, il talento, la rabbia e la luce che tutti ci riconoscono. E allora perché, con tutta questa bellezza, siamo così rovinati a Napoli? Ho provato a darmi una risposta! Abbiamo imparato a cavarcela a modo nostro, con l’ingegno, con la scena, con le mani e con la voce. Ma cavarsela non è lo stesso che vivere bene. E vivere bene non è solo un talento, è anche un diritto. Un diritto che spesso ci è stato negato con metodo. Napoli è una città dove la sopravvivenza è diventata cultura, dove l’adattamento si è fatto arte, ma a furia di adattarci abbiamo normalizzato l’anomalia, resi poetici anche i buchi, le ingiustizie, i topi, i politici corrotti e i cimiteri abbandonati. A Napoli la gente ride mentre crolla. Ti offre il caffè anche se non ha niente. Si inventa un lavoro dove lo Stato ha lasciato vuoto. Ma intanto, si rompe. Dentro. E attorno. La nostra umanità è straordinaria, ma da sola non basta a rimettere a posto una città che è stata spolpata, ignorata, disillusa. I nostri artisti non hanno reti. I nostri studenti scappano. I nostri mestieri non fanno carriera. I sogni si realizzano altrove, ma si sognano solo qui. E il potere? Sta sempre in mano a chi non si sporca. A chi non conosce il vicolo, non sa cosa vuol dire arrangiarsi, non ha mai gesticolato per spiegare a un bambino affamato che oggi non ce n’è. Siamo rovinati perché ci hanno insegnato a non pretendere, a dire “è sempre stato così”, a cercare fortuna, non giustizia. A trovare la scorciatoia, non la soluzione. Eppure… nonostante tutto questo, non siamo finiti. Siamo rovinati, sì. Non ci fanno emergere perché sanno che, se solo ci dessero campo libero, cambieremmo le regole del gioco prima ancora che se ne accorgano. E non parlo solo di creatività, talento, cultura. Parlo di capacità di visione, intelligenza sociale, genio strategico travestito da caffè al bar. A Napoli non manca niente. Tranne una cosa: l’autorizzazione a essere riconosciuti per quello che siamo davvero. Perché se ci vedessero davvero, non come folklore, non come problema, ma come modello alternativo di vita, il sistema salterebbe. Altro che “capitale del Sud”: ci prendiamo pure la regia del futuro. Perché noi sappiamo pensare in diagonale. Perché dove loro si impicciano con procedure, noi troviamo la scorciatoia intelligente, che non è fregatura: è ottimizzazione umana. Perché accattiamo col pensiero, non solo col portafoglio. Perché abbiamo imparato a creare valore dal nulla, dalla crisi, dall’assenza. E il paradosso è che il Nord, che ci guarda dall’alto, è una macchina che arranca senza la nostra energia sotto. Ci vuole come forza-lavoro, come export culturale, come folklore da copertina. Ma guai a darci i mezzi per costruire un sistema nostro. Perché se emergiamo davvero, finisce il monopolio... Finisce il mito del “ce la fanno solo loro”. Finisce la narrazione della “Napoli incapace”. E inizia il panico: perché la creatività napoletana, una volta liberata, non si contiene. Non è un caso se i nostri cervelli funzionano ovunque, ma qui li fanno sentire scomodi. Non ci possiamo accontentare dell’esistente. Lo dobbiamo cambiare. Lo dobbiamo capovolgere. E questo… fa paura??? E allora torno lì, a mio figlio Alberto che esce dalla doccia, contento, profumato, ma con le mani ancora sporche. Perché nella sua testa, se si è lavato tutto, allora sarà bastato. E invece no. Le mani non si lavano da sole. Vanno strofinate, guardate in faccia, affrontate sul serio. Perché sono loro il punto di contatto con la realtà: toccano il mondo, lo sporcano, lo trasformano. E lo sanno anche loro: quelli che ci tengono sotto traccia. Sanno che se Napoli comincia a guardarsi le mani, se invece di nasconderle le usa per scegliere, cambiare, costruire… allora non ce n’è per nessuno.

  • Referendum: io sto nella merda per colpa vostra.

    Non sono mai stata una da partiti. Né di destra né di sinistra, né di centro né di bordo pista. Per anni mi sono definita (come tanti) “apolitica”, nel senso più onesto del termine: non mi ci ritrovavo, non mi fidavo, non mi interessava nemmeno troppo. Poi, ho cominciato a vivere davvero la mia vita. Con tutte le sue incasinate meraviglie: lavorare, crescere figli, cercare una casa, pagare bollette, fare file infinite per diritti che sembrano sempre più favori. E ho capito che, volente o nolente, la politica mi riguardava. Anzi: che la politica era già dentro la mia vita, solo che io non me ne accorgevo. A breve si voterà. Ancora una volta. Un referendum, stavolta. Una di quelle occasioni che, sulla carta, dovrebbero essere il cuore pulsante della democrazia. Un’occasione per esprimere un’idea, una visione del mondo, una preferenza. E invece, ogni volta che ne parlo con qualcuno…definiamolo con “età da pensione”, capita immancabilmente che mi senta rispondere con la nonchalance di chi ha già archiviato tutto: “A me non me ne frega niente. Tanto siete voi giovani che dovete pensare a ste cose… io ormai…” Ora. Fermiamoci un attimo. Perché io non so se ridere, piangere, o lanciare una ciabatta. E lo dico con tutto il rispetto (pure quello che non meritate). Perché se c’è una verità scomoda che fatico a mandare giù è questa: sto come sto anche per colpa vostra. E sì, parlo proprio con voi, quelli che oggi hanno l’“età da pensione” ma la lucidità selettiva. Quelli che dicono di non essere più interessati, come se la loro vita fosse ormai fuori dal sistema. Ma magari avete figli che lavorano con contratti a termine, o peggio, che sono stati licenziati con una scrollata di spalle. Magari avete nipoti che un giorno erediteranno non solo il vostro nome, ma anche il mondo che state lasciando così com’è. Magari vi troverete coinvolti, direttamente o indirettamente, nelle conseguenze di decisioni prese in nome vostro e del vostro “non me ne frega più niente”. Perché non è che, una volta superati i sessanta, ti scolleghi dalla realtà. Anche se fate finta di no, quello che succede nel Paese riguarda ancora tutti. Anche voi. E il referendum dell’8-9 giugno 2025, guarda caso, tocca proprio nervi scoperti che riguardano tutti noi, direttamente o di riflesso. E quindi? Quindi votare non è solo una questione astratta o “da giovani impegnati”. È capire se vogliamo lasciare ai nostri figli un mondo dove chi lavora può essere licenziato come niente, dove la sicurezza sul lavoro diventa un optional, dove chi vive qui da anni deve aspettarne dieci per sentirsi cittadino, o magari cinque se passa questo quesito. Voi che avete votato quando io ancora manco c’ero. Voi che avete scelto partiti, firmato deleghe, costruito un mondo con regole che adesso mi ingabbiano. Voi che avete approvato, tollerato o fatto finta di niente mentre si distruggevano servizi pubblici, diritti, prospettive. E adesso? Adesso “non ve ne frega niente”? Davvero? È vero! Chi sente parlare del referendum oggi vede solo slogan, facce in TV, analisi da talk show e drammi gonfiati sui social. Nel frattempo, i partiti parlano. Chi urla alla libertà, chi promette giustizia, chi tira fuori parole grosse come “Stato di diritto”, “valori occidentali”, “identità nazionale” e intanto nessuno che ci dica, con chiarezza, cosa ci aspetta il giorno dopo il voto. Sembra quasi che il referendum serva più a misurare le tifoserie che a risolvere qualcosa. La destra lo usa per fare muscoli, la sinistra per dire “vedete? ci siamo ancora”, e il centro, se lo trovate, forse sta cercando il Wi-Fi per connettersi con la realtà. Ma io, che nella realtà ci vivo tutti i giorni, vorrei un dibattito che non mi prendesse in giro. Ancora una volta, tocca a noi decifrare messaggi vaghi, tradurre slogan vuoti e capire se quella X sulla scheda cambierà qualcosa, o se serve solo a salvare qualche faccia in televisione. Io che invece nella merda ci sto con tutte le scarpe – tra mutui, figli, bollette, tagli alla scuola e al sociale – mi sento dire di “pensarci io”. Ma io ci sto pensando. Solo che, nel frattempo, sto pagando anche i vostri conti. Il diritto al voto non è un gettone usa e getta. Non si esaurisce a una certa età. Non si spegne con l’interesse. E poi, scusate, ma se ci lamentiamo che i giovani “non partecipano”, che “non leggono”, che “non votano”… poi quando finalmente uno si interessa gli diciamo pure: “Tanto non serve, è tutto già deciso”? Eh no. Io non voglio più sentirmi in trappola tra due generazioni che scaricano barile: chi ha votato troppo e chi non vuole più votare affatto. Io voglio poter dire che sto partecipando. Che non sto subendo passivamente. Che, nel mio piccolo, provo a non voltarmi dall’altra parte. Perché la verità è che il futuro si costruisce anche con un sì o con un no scritto su una scheda elettorale. E se il presente fa schifo, almeno proviamo a capire perché, e da chi è stato disegnato così. E quindi, sì. Vado a votare. Non perché creda nelle favole, ma perché fare la mia parte è l’unico modo che ho per non farmi comandare in silenzio.

  • Amore a senso unico. Io e le Kelsey di Church’s.

    Il suo nome è Kelsey. Sandalo in pelle di vitello prestige firmato Church’s; linea pulita, eleganza austera, nome da attrice degli anni ’60. È elegante, solido, minimalista. Non grida “moda”, sussurra “status”. Non lo definirei un sogno. I sogni hanno qualcosa di etereo, di nobile. Questa è un’ossessione concreta, terrena, con tanto di prezzo di listino: 870,00€ (ottocentosettanta/00 euro). Due listini incrociati: uno è il prezzo. L’altro è quello degli sguardi che lancio ogni volta che la vedo online. E ogni volta che mi appare davanti nei banner, nei feed, nelle newsletter tentatrici io scivolo dentro un pensiero tossico: “E se per una volta me lo meritassi?” Ma poi arriva la realtà e la vocina interiore che traduce tutto in lingua corrente: “No, sorella. Te lo meriti, ma non ora”. Potrei cercare una giustificazione razionale. Potrei convincermi che è un investimento, che li userò tutta la vita, che la pelle è di vitello cresciuto ascoltando Mozart e accarezzato ogni mattina da un calzolaio zen. C’è una strana forma di ipnosi che colpisce soprattutto tra marzo e luglio, nei momenti di stanchezza mentale o scroll compulsivo. È una forma sottile, estetica, silenziosa. Non prevede pendoli. Non guarda negli occhi, ma si insinua nel feed. È il potere delle scarpe. Quelle giuste. Quelle che ti fanno pensare: se le avessi, la mia postura morale migliorerebbe di colpo. Nel 2025, l’illusione della scarpa salvavita è viva più che mai. Perché la vita è complicata, ma un paio di sandali ben fatti sembrano una soluzione plausibile a tutto: all’umore, all’autostima, al caos esistenziale del lunedì. Peccato che oggi un paio di sandali di fascia alta costi quanto tre mesi di spesa. Anche col caffè in offerta. E allora succede l’inversione magica: non sei più tu a scegliere la scarpa. È lei che ti guarda. Ti sussurra dal banner: “Non sei pronta, ma potresti diventarlo. Non sei quella giusta, ma potresti sembrarlo.” E tu ci caschi. Inizi a razionalizzare: “Ne ho solo tredici paia simili. Questo è diverso. Questo è Church’s.” E in quel momento capisci: non stai più comprando una scarpa, stai comprando una possibilità. La possibilità di sentirti leggera, elegante, al di sopra dei problemi. Magari anche sopra le rate. A prima vista, 870 euro per un paio di sandali possono sembrare un atto criminale contro il buon senso. Poi leggi la descrizione sul sito di Church’s e tutto si veste di nobiltà: pelle di vitello prestige, cuciture a mano, finitura artigianale, Made in England. E tu inizi a dubitare di te stessa. Non del prezzo, ma del fatto che non te li sei ancora comprati. Church’s non vende scarpe. Vende l’idea che tu possa calzare l’eleganza britannica come un pedigree invisibile, che si manifesta a ogni passo con discrezione, come farebbe una duchessa di campagna che però sa benissimo dove parcheggiare a Mayfair. Il prezzo alto ha la sua logica. Artigianato, qualità, produzione lenta e controllata, materiali selezionati. C’è tutta una narrazione rassicurante che ti fa sentire quasi grata di non pagare solo per “una scarpa”, ma per un pezzo di civiltà europea cucito a mano. Eppure, diciamolo, sotto sotto c’è anche una quota di sadismo fashion. Un brivido calcolato: ti piacciono? Benissimo. Ti sembrano perfette per te? Ottimo. Ora guarda il prezzo, e sentiti inadatta. Fa parte dell’incantesimo. La distanza economica eleva l’oggetto, lo sacralizza. Se potessero permettersele tutti, sarebbero semplici scarpe. Invece no. Sono feticci di distinzione. E funzionano anche per questo. Il brand lo sa. Church’s è come quel partner elegante e freddo che non ti scrive mai per primo, ma che quando ti guarda ti fa dimenticare tutto. Anche il conto in banca. Quando il desiderio supera le finanze, entra in scena l’arte dell’autoconvincimento. È una disciplina antica, affine alla meditazione, ma con più browser aperti e meno serenità. Si comincia così: “Non sono adatte al mio arco plantare.” Una bugia nobile, detta guardandosi allo specchio con lo stesso sguardo di chi rifiuta una crostata perché “deve sgonfiarsi”. Funziona? A tratti. Ma bisogna essere molto brave a mentire. A se stesse. Poi c’è la strategia della sostituzione affettiva. Una via più pragmatica e meno crudele: trovi un modello simile, te lo racconti bene, lo chiami “ispirazione” e non “copia”, lo paghi meno di un bollettino scolastico. Siti come Zalando e Yoox diventano il tuo rifugio. Cerchi qualcosa che dica “minimalismo sofisticato” e non “mi sono arresa”. Perché, attenzione, la sostituzione affettiva non è rassegnazione. È resilienza estetica. E comunque, diciamocelo: anche le Kelsey, appena le indossi, ti faranno le prime bolle. È la legge non scritta del sandalo rigido: per addomesticarlo, devi prima sacrificare un pezzo di tallone. Quindi al prezzo di 870 euro, aggiungici almeno 20 euro di cerotti Compeed. Eleganza, sì. Ma con garze invisibili. Nel frattempo, mentre noi ci contorciamo per non comprare un paio di sandali da 870 euro, l’altra sera a Report andava in onda l’inchiesta “Fuori moda”, un servizio che dovrebbe essere proiettato in loop nei camerini delle boutique di lusso. Si parlava di Armani, Dior e altri marchi prestigiosi, di borse vendute a cifre a quattro zeri… e di produzioni spostate in Cina, dove i lavoratori (spesso sfruttati) le realizzano a costi irrisori. Otto euro a borsa. Con turni massacranti, salari da fame e condizioni che di “prestige” non hanno nulla. Nel frattempo, le stesse borse vengono vendute a 1.200 euro. Con tanto di luci soffuse, allestimenti minimal chic, e l’aura sacra del “Made in Italy”, anche quando dentro c’è ben poco di italiano. Eh quindi sì, anche le Kelsey fanno male. Ti svuotano il conto e ti lasciano a negoziare con il tuo senso di colpa. Non mi promettono empowerment, né inclusione, né rivoluzioni eco-solidali in punta di vitello prestige. Sono semplicemente ciò che dichiarano di essere: un paio di sandali belli e spietati, come certi amori estivi che durano solo il tempo di un desiderio non consumato. Perché la verità è che la moda, se proprio deve costare tanto, dovrebbe pesare non su chi osa sognarla tra un bollettino e un cashback. Il vero lusso non è ciò che indossi. È potersi permettere di scegliere cosa non comprare, e uscirne comunque con stile. ...Alla fine non le ho comprate. E no, non ho comprato nemmeno un’alternativa economica, consolatoria, “quasi uguale”. Non ho cercato modelli simili, né ho cliccato su “visualizza articoli correlati”. Ho semplicemente chiuso la pagina. Un gesto piccolo, ma quasi rivoluzionario. Le ho lasciate lì, tra i preferiti. Come certe tentazioni: meglio belle che reali. Non perché non mi piacciano. Non perché non me lo meriti. Ma perché, a volte, scegliere di non cedere è l’atto più elegante che posso permettermi. Ma ci ho scritto un articolo… che è un po’ come possederle, ma solo nel mio guardaroba immaginario. E se un giorno le troverò scontate, in una qualche svendita mistica, giuro che non chiederò il numero. Le porterò via direttamente. Senza provarle. Perché a certe scelte si arriva preparate. Come si fa con le cose belle.

  • Il programma digestivo dell’universo.

    Ci sono settimane in cui la vita ti insegna qualcosa. E poi ci sono quelle in cui la vita… ti scarica addosso tutto il programma digestivo dell’universo. Ovviamente la mia è stata la seconda! Tutto è cominciato martedì, durante l’allenamento di basket di mio figlio. Corri, salta, palleggia... e poi, il colpo di scena. Una di quelle situazioni in cui lo sport diventa una forma di meditazione intestinale. Ritorni a casa con un bambino e un paio di pantaloncini pieni di umiltà. Mercoledì, plot twist. È Giordana. La maestra me la consegna in braccio come un fragile pacco Amazon Prime, già aperto, già... compromesso. Gli occhi lucidi, la pancia dolente, e uno sguardo che dice tutto: “Mamma, l’anima mi ha abbandonato. E anche il resto.” E lì capisci che non è solo un virus. È un passaggio di testimone. Un’eredità familiare. A chi tocca, non si offenda. Infatti, tocca a me. Un giorno intero di rituali antichi: sguardo perso nel vuoto, rumori inquietanti, tisana al finocchio tra le mani come se potesse salvarmi l’anima (spoiler: no). Sabato e domenica, finalmente la quiete. Il sole. Il respiro. “È passato”, diciamo. Siamo salvi. Illusi. Il 2 giugno decidiamo di andare al mare, come brave famiglie che vogliono dimenticare. Il mare ci accoglie, il sole ci scalda. Ma sulla via del ritorno, tra curve e nostalgia, arriva il colpo di grazia. Diciamo solo che il tragitto fino a casa è diventato un test di sopravvivenza. Una sfida tra dignità e gravità. A volte la gravità vince. Stamattina, ancora provata, provo a ricominciare. Scendo con il cane. Cerco di dimenticare. E proprio mentre Bolt si dedica alle sue consuete riflessioni esistenziali nel prato, arriva lui. Un piccione. Silenzioso. Preciso. Poetico nella sua crudeltà. Mi caca l’anima addosso. E allora capisci. Non è solo una settimana no. È un messaggio cosmico. Un invito al silenzio. Alla contemplazione. In certi giorni non basta la pazienza. Serve un miracolo e una buona lavatrice. Il piccione è un animale sottovalutato. Volatile urbano, disprezzato, snobbato, eppure onnipresente. Ma quando decide di colpire, lo fa con precisione chirurgica. E non è mai un caso. Essere colpiti da un piccione è un rito di passaggio. È la vita che ti dice: “Tu pensavi di aver toccato il fondo? Aspetta, che ti aggiusto il finale.” Oppure: “Ti sei appena ripresa da tutto? Bene. Ecco una nuova prova spirituale.” In alcune culture, inventate da me mentre cercavo salviette nello zaino, il piccione è considerato un messaggero del destino, portatore di benedizioni mascherate da umiliazioni. Una cacca in testa è il contrario di una medaglia: non la meriti, ma te la becchi lo stesso. In fondo, il piccione ti mette al tuo posto. Ti ricorda che puoi organizzare la giornata, ma non l’universo. Che puoi essere madre, guerriera, project manager del caos… ma c’è sempre qualcosa che vola sopra di te e decide di lasciare il segno. Non dal cielo, ma dal balcone al terzo piano. Un avvertimento! A Napoli lo sappiamo bene: se un piccione ti caca addosso, porta fortuna. Ce lo ripetiamo come mantra, come scusa, come autodifesa. “Porta fortuna!”  ci gridano i passanti mentre cerchi di non piangere tornando a casa per cambiarti. Ma in fondo, è la città stessa che funziona così: tutto un equilibrio sottile tra il disastro e il miracolo, tra lo schifo e la benedizione. La cacca del piccione non è solo cacca: è ’a sciorta, la sorte. Un getto divino. Un’abluzione urbana. C’è chi si gioca i numeri al lotto; c’è chi si gratta; c’è chi si fa il segno della croce. E poi ci sono io, che mentre Bolt annusa un cespuglio, vengo colpita dalla trinità dello scorno: virus intestinale, mare rovinato, e piccione vendicativo. Eppure, una parte di me, vuole credere che sì, qualcosa di buono sta arrivando. Forse la cacca è solo un reset karmico. Una piccola pioggia digestiva dal cielo che ti ripulisce la vita (dopo avertela imbrattata per bene). Una benedizione travestita da incubo. E allora va bene… Mi affido alla saggezza popolare. Gioco 3 numeri al Lotto, bevo una tisana amara come la verità e accarezzo Bolt, che nel dubbio, sta alla larga dai piccioni. Perché a Napoli, anche la merda può essere un segno. E a volte, l’unico modo per sopravvivere è riderci sopra, e dire: “Addò ce sta ‘a munnezza, po’ nascere ‘na rosa.”

  • Il rispetto si impara da piccoli.

    Tutto è iniziato quando mi è comparsa un’immagine su Instagram… Era una di quelle immagini che ti fermano nel bel mezzo di uno scroll distratto. Una frase semplice e diretta, che mi ha colpito più di quanto pensassi. "Se un bambino non vuole dare un bacio o un abbraccio, non forzarlo. Il suo corpo è suo." L’ho riletta più volte. Mi sembrava ovvia, quasi banale. E poi un video di una mamma che insegna a sua figlia di 3 anni quali parti del corpo possono essere o non essere toccate. Eppure, se ci penso bene, non è affatto un concetto che mi avevano insegnato da piccola. Crescere negli anni in cui i baci e gli abbracci erano una sorta di moneta sociale, un dovere più che un gesto spontaneo, significava non mettersi mai il problema. Se la nonna voleva un bacio, glielo davi. Se la zia allargava le braccia, ti lasciavi abbracciare, anche se non ne avevi voglia. Nessuno mi aveva mai detto che potevo scegliere. Ricordate il famoso pizzicotto sulla guancia? Un classico intramontabile dell’infanzia di chiunque sia cresciuto negli anni ‘80 e ‘90. Una sorta di rito sociale a cui nessuno poteva sfuggire. Appena arrivavi a una riunione di famiglia, prima ancora di poter dire ciao, una zia, una vicina di casa o un'amica di tua nonna ti afferrava le guance con entusiasmo. E zac, il pizzicotto era servito. Ancora oggi, se ci penso, posso quasi sentirlo. Il fastidio, la pelle che bruciava, il sorriso forzato perché sapevi che, se avessi protestato, la risposta sarebbe stata sempre la stessa: "Ma che carino, guarda che guanciotte belle paffute! Dai, non fare il timido!" E guai a lamentarsi! Perché dire che non ti piaceva equivaleva a essere “ingrati”, “scostanti”, “bambini poco educati”. Ecco, il problema stava proprio lì. Quella cosa apparentemente innocua... un pizzicotto, un abbraccio forzato, un bacio imposto, insegnava implicitamente che il nostro corpo non ci apparteneva del tutto. Anche se non volevamo, lamentarsi non era un’opzione. Nessuno lo faceva con cattive intenzioni, ovviamente. Anzi, per loro era un gesto affettuoso, un modo di dimostrare affetto. Ma il messaggio che passava era sottile e potente. E se da bambino normalizzi questa dinamica, rischi di portartela dietro anche da grande. Guardando i miei figli oggi, capisco quanto sia importante che sappiano di poter dire di no. Se a un bambino non piace un pizzicotto, un abbraccio o un bacio, non è un capriccio. È una sensazione legittima. E imparare fin da piccoli che possono scegliere cosa accettare e cosa no è una lezione che si porteranno dietro per tutta la vita. Il rispetto per il corpo degli altri non si insegna con le parole, si dimostra con i gesti. Anche con quelli che sembrano piccoli e insignificanti. Perché, alla fine, sono proprio quelli che rimangono impressi. E così, come succede quando un’idea ti si infila in testa, ho iniziato a guardare certe dinamiche con occhi diversi. Soprattutto con i miei figli. “Dai un bacio alla nonna!”...Quante volte l’ho detto in automatico, senza neanche pensarci. Non per cattiveria. Un riflesso condizionato: il bacio era il sigillo della buona educazione, il gesto d’affetto che garantiva di essere un bambino gentile. Poi mi sono chiesta: e se in quel momento non avessero voglia? Non significa che non vogliono bene alla nonna, né che sono maleducati. Significa solo che in quel preciso istante non se la sentono di avere un contatto fisico. E allora? Perché dovrebbe essere un problema? Ho deciso di cambiare approccio. Se non vogliono dare un bacio, va bene. Invece di insistere, offro alternative: “Vuoi mandare un bacio con la mano? O preferisci un batti il cinque?” Sapete la cosa buffa? Spesso accettano una di queste opzioni con entusiasmo. Non perché qualcuno li obbliga, ma perché si sentono rispettati. E questo, alla fine, è il punto centrale: insegnare il rispetto non significa imporre gesti, ma dare libertà di scelta. Non si tratta solo di baci e abbracci. È una lezione che va molto più in profondità: il loro corpo è loro, e nessuno può decidere per loro quando si tratta di contatto fisico. Insegnarlo fin da piccoli significa dare ai nostri figli uno strumento fondamentale per la loro crescita: la consapevolezza che possono dire no quando qualcosa li mette a disagio. Che non devono accettare di essere toccati solo per non fare i maleducati. Noi siamo cresciuti con un’idea diversa: il no era sgarbato, un bambino doveva essere educato, obbediente, disponibile. Ma oggi abbiamo la possibilità di insegnare ai nostri figli che il no è un diritto. E che nessuno dovrebbe offendercisi. E quindi, cosa faccio concretamente? Se non vogliono, non devono. Se qualcuno insiste, intervengo con un sorriso: “Oggi non ha voglia, magari preferisce un saluto con la mano.” Ho scoperto che ai bambini piace avere delle scelte: il batti il cinque, il pugno, un bacio soffiato da lontano. Se vogliono abbracciare, lo fanno spontaneamente. Anche tra noi in famiglia: “Posso darti un bacio?” e se la risposta è no, va bene così. Non solo per baci e abbracci, ma per qualsiasi contatto che li metta a disagio. Devono sapere che il loro no è valido e che noi lo rispetteremo. I bambini imparano osservando. Se vedono che noi adulti rispettiamo i confini degli altri, lo faranno anche loro. C’è chi dice: “Ma così diventano freddi!” Una delle critiche più comuni è che in questo modo cresceranno bambini distaccati, incapaci di esprimere affetto. Ma è vero l’esatto opposto. Un bambino che sa di poter dire no è un bambino che, quando dice sì, lo fa con sincerità. E non perché qualcuno gli ha detto di farlo. Da quando ho iniziato a prestare attenzione a questo aspetto, ho visto i miei figli essere più spontanei nei loro gesti affettuosi. Li fanno perché vogliono, non perché devono. E questo, alla fine, è il vero insegnamento: il rispetto non si impone, si trasmette con l’esempio. Se vogliamo crescere bambini sicuri, consapevoli e rispettosi, dobbiamo partire da qui: dal rispetto per il loro corpo, per le loro emozioni e per le loro scelte. Anche quando si tratta di un semplice bacio alla nonna. Cosa dice la scienza sulla consapevolezza corporea nei bambini   Non è solo una questione di educazione o di sensibilità personale. Anche la scienza conferma quanto sia importante sviluppare nei bambini una consapevolezza del loro corpo fin da piccoli. Uno studio pubblicato da Rosario Montirosso e Francis McGlone, intitolato “The body comes first. Embodied reparation and the co-creation of infant bodily-self” , dimostra come il contatto fisico affettivo e la sensibilità interocettiva dei genitori siano fondamentali nella costruzione dell’identità corporea del bambino. Questo significa che i bambini apprendono chi sono anche attraverso il modo in cui vengono toccati e il rispetto che gli adulti mostrano verso il loro corpo. Inoltre, secondo le teorie di Jean Piaget, durante la fase senso-motoria (da 0 a 2 anni) i bambini sviluppano una consapevolezza iniziale del proprio corpo, imparando a distinguere sé stessi dagli altri. Questo processo continua nei primi anni di vita ed è influenzato dal modo in cui gli adulti interagiscono con loro. Forzare un bambino a esprimere affetto controvoglia può interferire con il suo sviluppo naturale, portandolo a credere che il suo corpo non gli appartenga davvero. Al contrario, rispettare le sue scelte lo aiuta a sviluppare una percezione sana di sé e a comprendere l’importanza del consenso nelle relazioni. E questa non è solo una lezione per i bambini. Dovremmo ricordarcela tutti.

  • Caffeognostica napulitana: il destino nella cremina (e nel cucchiaino)

    . .chi gira il cucchiaino con cuore leggero, confonde anche il destino. C’è chi legge le stelle, chi legge i tarocchi, chi legge le carte… e poi c’è ChatGPT che legge i fondi del caffè. Sembra uno scherzo, e invece è cronaca bizzarra: una coppia greca ha divorziato dopo una lettura fatta dall’Intelligenza Artificiale. Lui ha chiesto un’interpretazione simbolica del fondo nella sua tazzina turca. Lei ha letto le risposte. Non c’è stato bisogno di psicanalisi: il caffè, o meglio quel caffè, ha detto tutto. Qui a Napoli, dove il caffè è un atto civile e affettivo prima ancora che gastronomico, una cosa del genere è impossibile. Non perché ci vogliamo più bene. Ma perché da noi i fondi non si leggono: si scartano. È nella cremina che si cela il segreto dell’universo. A Napoli, il caffè non è una pausa: è un atto sociale, affettivo e simbolico. Si offre, si aspetta, si prepara con gesti precisi. E non si rifiuta mai, se non a costo di offendere chi lo propone. È il biglietto da visita di ogni casa, la sigla di ogni conversazione, la tregua tra due discussioni. Ma il rito ha anche le sue regole scaramantiche. E guai a trasgredirle. Mai girare il cucchiaino più di tre volte, o si “gira la fortuna”. Mai mettere il cucchiaino nella tazzina mentre la porgi: è come augurare qualcosa di storto. Va appoggiato sul piattino, sempre. Se la tazzina fa bollicine sul bordo, qualcuno sta pensando a te. O, più maliziosamente, sta sparlando. I fondi vanno buttati con la mano sinistra, altrimenti si “conserva il rancore”. E se il caffè esce senza cremina, non è solo un errore tecnico: è cattivo presagio. Segno che qualcosa non è stato fatto con amore (o che il barista ha litigato con la moglie, e si sente). La moka, a casa, è un oggetto sacro. Spesso non si lava mai con il detersivo, solo con acqua calda: per non “uccidere” l’anima del caffè precedente. Perché ogni tazzina porta con sé memoria, odore, traccia. A Napoli, il caffè è il filo invisibile che tiene insieme le giornate. Non è solo liquido nero e profumato: è il tempo che ti prendi per ricordare chi sei, anche quando fuori tutto va troppo veloce. È un superstizioso, teatrale, filosofico “ci sono ancora” servito in porcellana calda. Così nasce la Caffeognostica Napulitana: una filosofia travestita da rituale, un’arte divinatoria che ha il sapore della verità non detta e la forma di una tazzina bollente. Ecco la sua grammatica nascosta. La cremina è il karma… e anche un voto al barista Il primo impatto visivo conta, anche nel caffè. Se la superficie è lucida, compatta, con quella schiumetta che sembra la pelle perfetta di un neonato, allora sì: puoi iniziare la giornata con fiducia. La cremina è lo specchio di come ti stai trattando. Se ti concedi il tempo di scegliere un buon caffè, in un posto che conosce l’arte, allora sei anche il tipo di persona che si ascolta, che non si sacrifica sempre e comunque. Al contrario, se il caffè è senza cremina, slavato, svogliato, vuol dire che stai trascurando i dettagli. Stai correndo troppo. Stai dicendo troppi “vabbè” e troppo pochi “no”. La cremina non è solo estetica. È il karma che si deposita sulla vita: tutto torna, tutto si vede. Anche sulla tazzina. Il cucchiaino non mente. Nemmeno chi lo gira Il cucchiaino è il gesto consapevole. Tu non lo giri mai per davvero “a caso”. È un rituale. C’è chi lo fa piano, quasi religioso, come se stesse mescolando un’idea. C’è chi lo fa nervoso, tintinnando forte, come a voler svegliare il mondo. Ogni giro è una micro-coreografia del nostro stato emotivo. Se giri in senso orario, probabilmente stai cercando di portare ordine nel caos, vuoi far girare bene le cose, anche solo metaforicamente. Se invece lo fai in senso antiorario, può darsi che ti senta fuori sincrono, che qualcosa ti opponga resistenza, ed è allora che quel gesto diventa quasi magico, un tentativo silenzioso di invertire la rotta. Se poi non giri affatto, o bevi il caffè così com’è, sei forse in una fase di accettazione radicale, o di rassegnazione profonda, ma in ogni caso hai scelto di non interferire col flusso. Il cucchiaino è come un pendolo: oscilla tra quello che senti e quello che fingi di non sentire. Lo zucchero è un oracolo e il tuo grado di fiducia nel mondo Il momento in cui versi lo zucchero dice moltissimo di te. C’è chi lo fa prima ancora di assaggiare, segno che si fida dei propri gusti, o che ha bisogno di dolcezza come prevenzione. C’è chi prima assaggia e poi valuta: questi sono i riflessivi, quelli che vogliono capire cosa hanno davanti prima di decidere come affrontarlo. E poi ci sono quelli che mettono tanto zucchero anche nel caffè già dolce. Ecco, quelli sono in fase di compensazione emotiva. C’è un vuoto, e cercano di colmarlo. Non sempre funziona, ma apprezziamo il tentativo. La reazione al primo sorso è fondamentale. Se dopo aver messo lo zucchero sorridi, allora hai ancora fiducia nel futuro. Se arricci il naso, anche dopo due bustine, c’è qualcosa che non ti torna. Forse una relazione, forse una scelta. Forse, più semplicemente, te stessa. Le gocce nel piattino sono i tuoi margini di (s)contenimento Il piattino raccoglie ciò che trabocca. Come noi. Quello che sfugge alla tazzina è tutto ciò che non stai riuscendo a contenere: emozioni, fatiche, progetti a metà, cose non dette. Una sola goccia, ordinata: equilibrio. Sai dosare, sai contenerti, sai scegliere cosa vale e cosa no. Due gocce vicine: indecisione. Vorresti mantenere l’equilibrio ma ti senti tirata in due direzioni. Gocce ovunque: esondazione. Hai troppi pensieri, troppi stimoli, troppa energia (non canalizzata). Stai perdendo il controllo, ma con stile. E poi c’è un dettaglio ancora più rivelatore: se ripulire il piattino ti dà fastidio, o lo lasci sporco, vuol dire che stai lasciando troppe cose in sospeso. Piccole, magari, ma diventano sedimenti emotivi. E prima o poi si accumulano. Amaro, dolce, macchiato o sbagliato? La verità è nel sapore e nella scelta Il sapore del caffè è una confessione che fai senza accorgertene. Ciò che scegli, o anche solo ciò che ti capita nella tazzina, racconta di te molto più di quanto immagini. Se è amaro anche con lo zucchero, forse stai portando dentro dolori che non hai ancora avuto il coraggio di nominare. Vai avanti a testa alta, certo, ma qualcosa in fondo non si scioglie. Quel retrogusto amaro non è solo nel palato: è nel modo in cui affronti ciò che ti pesa. Il messaggio è chiaro: non basta addolcire, bisogna trasformare. Se è dolce al punto giusto, hai trovato una misura rara. Sai quanto zucchero serve, quanto silenzio, quanta indulgenza verso te stessa. Non è perfezione: è equilibrio. E l’equilibrio, si sa, è un lusso da gente saggia. Se è troppo dolce, stai cercando di compensare. Forse sei in un momento in cui hai bisogno di conforto, e lo zucchero diventa una carezza, una coperta calda in formato tazzina. Ma attenta: troppa dolcezza può stancare, o peggio, illudere. L’importante è che quel dolce sia scelto, non usato come anestetico. Se è macchiato, e lo hai voluto così, è perché hai fatto pace con le contraddizioni. Ti piacciono le sfumature, i “sì però”, le soluzioni imperfette. Non vuoi scegliere tra bianco e nero: cerchi il tuo tono, un compromesso poetico. E spesso ci riesci. Se invece è macchiato per errore, e quella macchia ti dà fastidio, allora sei in un tempo della tua vita in cui cerchi chiarezza. Vuoi sentire le cose per come sono, senza aggiunte, senza distrazioni. Il latte era di troppo. Come certe parole. O certe persone. Tazzina fredda o calda? Questione di rispetto (per sé e per il rito) La tazzina è la casa del caffè, e come ogni casa, parla di chi la abita. Se è calda tra le mani, racconta che ti vuoi bene, che pretendi cura anche nei piccoli dettagli, che noti se manca una virgola, se il cucchiaino è messo storto, se l’energia intorno è fuori posto. La tua attenzione è un dono, la tua sensibilità un superpotere — anche se, a volte, ti stanca. Se invece la tazzina è fredda, forse hai troppa fretta o qualcuno ti ha servito un’attenzione a metà. E se l’hai accettata senza dire nulla, chissà quante altre cose stai accettando nella tua vita, anche se non ti somigliano più. Il consiglio, in questi casi, è semplice e urgente: chiedi calore. Pretendilo. Offrilo. Perché chi beve da una tazzina fredda per non disturbare, troppo spesso dimentica di prendersi sul serio. Il sospirone finale è la tua preghiera laica Quel respiro profondo che segue il caffè è una pausa, un piccolo tempio mobile che ti porti addosso. Se lo fai naturalmente, se ti viene spontaneo, è segno che sei ancora in contatto con te stessa. Il sospirone è un respiro “di pancia”, come i bambini o gli attori di teatro: libera lo spazio interiore. Ma se non sospiri più, o se il caffè scivola via senza traccia, qualcosa si è rotto. Stai vivendo in apnea. Stai resistendo troppo, senza ricaricare. Il sospirone è la punteggiatura dell’anima. È come dire: “Ok, ci sono. Andiamo avanti.” Non è solo sollievo: è dichiarazione d’esistenza. Il caffè offerto: gesto, potere e sottotesto A Napoli “Te lo offro io ’o caffè” non è solo generosità: è dichiarazione d’intenti. A Napoli, la saggezza urbana è una forma di chiaroveggenza popolare, affinata in secoli di cortili, bassi, terrazzi, furbizie e miracoli. Non si studia, si assorbe. È fatta di gesti che valgono più di mille parole e di silenzi che dicono tutto. Ed è proprio questa saggezza a guidare anche il rapporto con il caffè offerto. Perché qui un caffè non si rifiuta mai… tranne quando si sa che è “troppo”. Troppo insistito, troppo fuori contesto, troppo carico di intenzioni sospette. E allora no, grazie. La risposta arriva gentile, ma ferma: "Sto nervoso, meglio di no." "Lascialo stare, mo me ne scappo." Oppure, la versione definitiva: "E se ci ha sputato dentro?" Sembra una battuta, ma è molto più di questo. È auto-difesa emotiva, intuito, radar attivato. Il napoletano sa leggere gli occhi, la postura, perfino il suono del cucchiaino. Sa quando un caffè è sincero e quando è un’esca. Non si fa ingannare dalla tazzina pulita: vede l’intenzione prima ancora del gesto. È per questo che rifiutare un caffè, a Napoli, non è mai un gesto da prendere alla leggera. È una dichiarazione silenziosa: “So quello che stai cercando di fare. Ma io mi conosco.” E in quella risposta, in quell’apparente diffidenza, c’è tutta la nobiltà ferita ma dignitosa del popolo partenopeo: accogliere quando si può, proteggersi quando si deve. Perché offrire un caffè non è mai solo offrire un caffè. Può essere un atto d’amore, un gesto di potere, una forma di perdono, o una sfida sottile lanciata con un sorriso. A volte è una mano tesa, altre una posteggia in incognito: ti offro il caffè, ma in realtà sto cercando il modo giusto per dirti che mi piaci, che ti osservo, che sto scegliendo le parole, ma nel frattempo scelgo la tazzina. Nel mondo del lavoro, poi, il caffè è una valuta invisibile. Te lo propongono per ammorbidirti prima di un rimprovero, per introdurre una proposta scomoda, o per sondare il terreno prima di coinvolgerti in qualcosa che non hai chiesto. Se ti offrono un caffè in sala riunioni, guarda bene la tazzina: non è detto che sia cortesia, potrebbe essere strategia. Il caffè, in certi ambienti, è il preludio alle note dolenti. E occhio: se chi lo offre non lo beve con te, se resta in piedi mentre tu ti siedi, se se ne va mentre tu sorseggi, allora quel caffè non è compagnia, è mossa. È come dire: “Ti ho messo in condizione di dovermi qualcosa.” E adesso vediamo se te ne accorgi. Infine, ci sono quelli che il caffè non lo accettano proprio. Per diffidenza, per orgoglio, o per paranoia legittimata dalla vita. “E se ci ha sputato dentro?” – lo dicono ridendo, ma mica troppo. È gente che ha visto cose, che ha imparato a difendersi anche dalle tazzine... Non è maleducazione. È autoconservazione! Le varianti moderne: cialde, capsule e crisi d’identità Il caffè in capsule ha introdotto una rivoluzione silenziosa: è comodo, pulito, rapido. Una pressione e il caffè è lì, pronto, senza errori, senza sbavature, senza attese. Perfetto per le mattine di corsa, per gli uffici che vogliono sembrare accoglienti, per le cucine ordinate che non sopportano la macchia sul fornello. Ma diciamolo con sincerità: dove sta l’anima? Dov’è finita quella piccola incertezza che accompagna ogni moka, quel margine d’errore che ti costringe a stare lì, a controllare, ad ascoltare il borbottio che sale come un respiro antico? Dov’è la schiuma che si forma piano, e la gioia sottile di vederla riuscita come si deve? E il silenzio d’attesa, quel momento sacro in cui non puoi fare altro che aspettare, magari in pigiama, magari con un pensiero che ancora non si è svegliato del tutto? E la guarnizione che non si trova mai, la caffettiera che sputacchia storta, il filtro che cade nel lavandino? Piccoli fastidi, certo. Ma anche piccole prove di pazienza quotidiana. Gesti imperfetti, pieni di presenza. La capsula, invece, è immediata, efficiente, rassicurante. Ma è anche chiusa, blindata, sterile. Un caffè che non chiede niente, se non un dito che prema un pulsante. Non ti coinvolge, non ti sfida, non ti seduce. Ti serve, e basta. E allora sì, il caffè in capsule ha migliorato le nostre vite. Ma ha anche tolto qualcosa. Ha sterilizzato il rito. Ha fatto sparire l’intimità. Ha tolto tempo al tempo. Perché a Napoli lo sappiamo: non è solo il caffè che conta. È tutto quello che succede mentre lo aspetti. C’è chi difende la capsula come simbolo di modernità, e chi la guarda come una bestemmia impacchettata. In Caffeognostica, la capsula è l’oracolo dell’urgenza: hai bisogno di controllo, efficienza, risultati. Ma occhio: l’anima vuole tempo. E il caffè, quando ha fretta, non consola più. La Caffeognostica Napulitana non predice il futuro: ti rivela a te stessa. Non ti dice se troverai l’amore, se riceverai un bonifico, o se oggi finirai il bucato. Ma ti fa rallentare. Ti costringe a guardare dentro ogni piccolo gesto. Ti ricorda che anche nei riti più banali si nasconde un mondo intero. Quindi sì, lasciamo pure che le AI leggano i fondi. Noi, nel dubbio, continuiamo a girare il cucchiaino, osservare la cremina, assaggiare la vita e sospirare come si deve. Funziona meglio dei tarocchi. E ha più gusto.

  • Riposa in pace, tra le crepe e l’erba alta. Una visita al cimitero.

    Sono 48 ore che la civiltà… o meglio, la sua parodia, mi sta ispirando. Un crescendo di dettagli, situazioni, contraddizioni talmente surreali da sembrare sceneggiature. Ma non lo sono. Sono vere. Le osservo, le annoto, le fotografo. Perché in questo paese basta uscire di casa per trovare materiale da trattato sociologico o da tragicommedia. E oggi, il colpo di genio definitivo: una visita al cimitero nuovo di Napoli. Un posto dove il tempo si è fermato. Ma non per poesia, bensì per incuria. Un luogo dove i morti non riposano in pace, ma piuttosto si assestano tra lastre spaccate, croci cadenti e bidoni traboccanti. Il “nuovo” cimitero. Nuovo di nome, vecchio di degrado. Una distesa di marmo spezzato, erbacce in fiore, vialetti che sembrano usciti da un set post-apocalittico. Alcune tombe sembrano crateri, altre relitti archeologici. Il tutto adornato da una raffinata selezione di rifiuti sparsi qua e là. Chi ci entra porta fiori, chi ci esce porta indignazione. Chi ci resta… beh, forse spera che almeno l’erba alta copra la vergogna. Siamo nel regno dell’abbandono, ma con vista Vesuvio. Un’eccellenza tutta partenopea, dove anche il decoro ha deciso di morire. Il silenzio è rotto dal suono sordo delle lastre che si spaccano sotto il peso dell’incuria. Lapidi divelte, marmo crepato, vasi riversi come dopo una guerriglia urbana. Nel cuore dell’area destinata ai più “umili”, a giudicare dalla densità di croci in legno, le tombe sembrano più che altro caselle di un gioco macabro: chi ha perso il coperchio, chi l’identità, chi pure la dignità. Una crepa come una faglia tettonica, altre che galleggiano su un tappetino di erba sintetica che nemmeno a San Siro. Siamo passati dalla pietà eterna alla mancanza strutturale, con un’architettura da post-terremoto e un arredo urbano degno di un deposito di rifiuti. E non è finita. Se ti avventuri più in là, oltre i vialetti dissestati dove l’unica manutenzione è quella offerta dalle erbacce spontanee, arrivi a un’area che più che un cimitero sembra un campo incolto con croci piantate a caso. Una coreografia degna di una scena tagliata da “The Walking Dead”. Poi ci sono i viali, i gloriosi viali di sampietrini, con i bidoni della spazzatura messi come sentinelle del degrado. Ma forse è solo un’installazione artistica, una performance di arte pubblica dal titolo “La città che non si prende cura neanche dei morti”. E infine, l’angolo della giungla: dove un tempo c’erano tombe, oggi ci sono cespugli, fiori selvatici e frammenti di pietra come monumenti all’abbandono. Non è chiaro se qui riposino dei defunti o dei reperti. Di certo, a riposare da troppo tempo, sono gli amministratori competenti. Parlano di piantare alberi “in giro per la città”, di restituire ossigeno, bellezza, radici. Ma forse dovremmo iniziare dai luoghi dove le radici affondano davvero. In profondità. Dove la memoria ha bisogno di ombra, cura, dignità. Invece, qui al cimitero nuovo di Napoli, il verde arriva solo sotto forma di infestanti e l’unico albero piantato è quello delle promesse elettorali seccate al sole. Altrove, il cimitero è un’estensione della vita, non un parcheggio di morte. In alcune culture, messicane, ad esempio, si fa il picnic accanto ai defunti. Si mangia, si chiacchiera, si ride tra le tombe in spazi pensati per accogliere, non per respingere. In Giappone, i cimiteri sembrano giardini zen: silenziosi, ordinati, puliti. Le lapidi sono curate con amore quasi quotidiano, come se la vita continuasse lì, tra una ciotola di incenso e un fiore sempre fresco. In Norvegia, i cimiteri sono luoghi pubblici di contemplazione, integrati nel tessuto urbano, dove puoi sederti a leggere, passeggiare, respirare. Qui da noi se ti siedi, rischi che ti cada una lastra di marmo in testa. E non è una metafora. Da noi il riposo eterno è una battaglia a turni: contro il tempo, l’abbandono, le infiltrazioni. Altro che “qui giace”: qui sprofonda, qui si sfalda, qui si dimentica. Eppure, sarebbe così semplice: un po’ di verde vero, un piano di manutenzione minimo, una visione che veda i cimiteri non come l’ultima pagina di un faldone burocratico, ma come parte viva del paesaggio umano. Perché, lo diceva anche Calvino, “la memoria è come la sabbia: sfugge, ma lascia tracce”. E queste, purtroppo, sono solo di degrado. Sono stata a Dublino, tempo fa. Avevo deciso che attraverso qualche defunto avrei scoperto le origini del mio cognome. Mi sono ritrovata tra le lapidi in un viaggio nei cimiteri. La bellezza di quei cimiteri? Distese ordinate, curate, silenziose ma vive. Luoghi che raccontano, accolgono, nutrono la memoria come un giardino nutre le stagioni. Nulla di tetro: solo una struggente dignità. Alcune tombe sembrano scrivanie: fiori freschi, lettere, oggetti cari. Ci sono alberi, panchine. Nessun senso di abbandono. Nessuna lastra traballante. Nessun bidone che fa capolino tra le tombe come un ospite indesiderato. Poi torni a Napoli. Al cimitero “nuovo”. E ti sembra di aver attraversato un portale spazio-temporale: da “Viaggio al centro della memoria” a “Benvenuti in Discarica Express”. Qualcuno dirà che servono fondi, gare d’appalto, volontà politica. Forse. Ma a volte basterebbe iniziare da un’idea, da un gesto, da un po’ di vergogna ben incanalata. Io, per esempio, un progetto di rigenerazione ce l’avrei pure. Ma non ve lo dico. Non per dispetto, sia chiaro. Ma perché mi dovete chiamare. E dovete chiedere scusa. Non a me soltanto ma a tutti quelli che passano in silenzio tra le tombe rotte e le erbacce alte, sperando ancora che la memoria abbia un posto. Che il rispetto non sia un’eccezione. Nel dubbio, la mia idea la tengo nel cassetto… anche perché in questo paese, se hai un’idea buona, o te la copiano male o ti chiedono di realizzarla gratis. Ma voi, intanto, fatevi un giro al cimitero nuovo. Portate un fiore. E un elmetto.

  • Facebook odia i neuroni.

    Tutto è cominciato con una lingua. Anzi no, con un naso. Tra due sedili, probabilmente di un treno, ma narrativamente spacciati per aereo, sbuca un golden retriever, sorridente e curioso, pronto a diventare il passeggero più discusso della settimana. Il post virale racconta un momento tenero e buffo, una piccola poesia quotidiana. Ma i commenti… sono tutta un’altra storia. Il protagonista peloso non parla, non ringhia, non twitta. Si limita a infilare la faccia tra due sedili, con l’innocenza di chi vuole solo sniffare patatine e dispensare allegria. Ma per molti utenti, quella fessura diventa una crepa sociale, politica, morale. È il Titanic del buon senso, e tutti a bordo si dividono in: animalisti, legalisti, complottisti, filosofi da tastiera, nostalgici del silenzio e moderati in via di estinzione. Tra le centinaia di interventi, emergono veri e propri archetipi: gli estasiati (“pagherei il doppio per averlo vicino!”), i fuffacheckers (“Non è un aereo, è un treno, e lo sapete tutti!”), i canocentrici (“Meglio un cane che certi esseri umani.”), i disillusi (“Anche stavolta siete riusciti a rovinare un sorriso.”) … e poi c’è un C***o M***i, eroe tragico del thread, che dichiara: “Io se posso cambio aereo.” Un commento diventato meme istantaneo. Al centro della polemica, la domanda nemmeno troppo latente: cosa infastidisce davvero? Il cane? Le regole? L’odore? La libertà altrui? O forse il fatto che qualcuno riesca ancora a sorridere mentre noi stiamo già preparando l’hashtag per indignarci? Un post scritto bene, che gioca con l’immaginario del “volo tranquillo”, con cuffie e snack, trasformandolo in un volo emozionale che però, dettaglio non trascurabile. sembra non essere mai decollato. Il golden era su un treno. E da qui l'accusa suprema: “Post falso”. Ma serve davvero la verità se ci fa ridere, discutere e sentirci vivi? Per molti sì. Per altri, basta il muso. Alla fine, quel golden retriever ha fatto più servizio pubblico di molti notiziari: ha unito e diviso, commosso e fatto infuriare, mostrato che una fessura può contenere un intero paese , con le sue manie, le sue paure e la sua voglia disperata di scegliere da che parte stare. Anche quando si tratta solo di un cane curioso con una lingua troppo lunga. Ciò che inizia come uno scambio su un cane curioso diventa una guerra civile semantica: è un aereo o è un treno? È legale o no? È un post fake o un’opera d’arte? È amore o inciviltà? E soprattutto: “E se uno è allergico? E se fa la pipì? E se abbaia? E se…?” …La creatura che voleva solo annusare delle patatine si ritrova ad incarnare tutti i mali del mondo contemporaneo. E Facebook, come sempre, ci mette il carico da undici: tra chi invoca l’ENAC, chi paragona i padroni a talebani, chi tira in ballo Salvini, il PD, Dio e la cipolla. Se avessi scelto un post su Gaza, l’algoritmo sarebbe esploso. E forse anche io. Ma in realtà, è proprio questa la chiave: il fatto che sia un post innocuo, tenero, addirittura buffo, rende ancora più evidente quanto le persone siano pronte a innescare un flame anche nel vuoto pneumatico dell’assurdo. È l’effetto “campo minato emotivo”: meno è importante l’argomento, più ci si sente liberi di vomitare rabbia, sentenze, moralismi e nevrosi represse. I commenti sono il vero racconto di questo Paese. Si passa dalla poesia al veleno, dalla dolcezza alla condanna penale, in 3,5 secondi. C’è chi vede un cane e scrive: “Stupendo, Dio ti ringrazio per questi amori belli” e chi replica: “Io cambio volo, voi siete la rovina dell’umanità”. Nel mezzo, una folla urlante che cerca disperatamente qualcosa da dire pur di esserci, anche quando sarebbe meglio tacere. Perché il punto non è più il cane. Non è mai stato il cane. È l’ego, la frustrazione, l’analfabetismo emotivo, la fame d’attenzione, l’ansia da notifica. Altro che calcio. In Italia, lo sport più praticato è la polemica improvvisata su argomenti a caso. La fessura tra i sedili? È solo l’ultimo stadio di una lunga evoluzione della discussione inutile. Ricordiamo i banchi a rotelle, poi la Nutella alla mensa scolastica, il crocifisso in aula, le tette su Sanremo, il gatto sul banco di scuola in DAD. Non importa che il tema sia educativo, religioso o vagamente animale: serve solo che sia divisivo e assolutamente privo di conseguenze dirette. In questo, Facebook ha affinato il meccanismo perfetto: un luogo dove l’opinione è più importante della realtà, dove si scrive non per comunicare, ma per scaricare. Un social diventato il parcheggio del centro commerciale durante i saldi, ma senza carrelli: solo insulti, bandierine politiche, fake news da salotto e l’occasionale gif di un gatto che applaude. Anche quando si tratta di temi cruciali, l’arena dei commenti non migliora. Anzi, spesso peggiora. Nel post del golden retriever la gente si indigna per finta, per sport, per sfogare il nulla. Nei post su Gaza, sul precariato, su una scuola che crolla o su un politico che osa esprimere un’idea… la gente si indigna per odio, e lo fa con un’intensità grottesca, violenta, spesso disumana. Non è questione di contenuto: è questione di veleno. Il livello di tossicità è talmente alto che, al confronto, il cane tra i sedili sembra un tentativo collettivo di gentilezza. Gli altri temi? I commenti non diventano più profondi. Diventano più feroci. Più stupidi. Più rabbiosi. Forse perché la rete è diventata l’unico posto dove tutti possono urlare: un flusso continuo, scomposto, automatico. Un urlo continuo, scomposto, automatico. Non serve più avere qualcosa da dire: basta avere un dito libero e una connessione decente. La parte tragica? Che nessuno legge per capire. Si legge per rispondere. O meglio: per ribattere, per contraddire, per insultare, per dire “io la penso così e quindi ho ragione”. Così il commento non è più un contributo. È una bandiera, piantata nel corpo morto della conversazione. E chi prova a riflettere, a smussare i toni, a cercare una sintesi… finisce sommerso da: “zitto, sei un moralista!/hai la tessera del partito?/e allora i bambini italiani?/Vai a fare compagnia al golden, che almeno lui non parla.” La verità è che non c’è più spazio per il pensiero intermedio. O sei pro o sei contro. O sei cane o sei pipistrello. La zona grigia è disabitata. Il dubbio è visto come debolezza. L’ascolto è un’attività da boomer new age. La connessione è veloce, ma la comprensione è in buffering da anni. Non è solo colpa nostra. Certo, siamo adulti liberi con un pollice opponibile e una connessione illimitata, ma va detto: l’ambiente è tossico per costruzione. I social non sono stati progettati per farci ragionare, ma per farci restare. E per farci restare, ci servono emozioni forti. Rabbia, paura, indignazione. Tutto ciò che è immediato, viscerale, divisivo… genera engagement. Un post ben argomentato, con fonti e toni equilibrati? Lo vedranno in 3 persone e mezzo. Un commento gridato, con CAPS LOCK e accuse infondate? Boom. Vola. Vira. Si propaga come un virus in un’aula affollata senza finestre. L’algoritmo non vuole che pensi. Vuole che reagisci. Meglio ancora se lo fai male. Più urli, più vieni premiato. Più cerchi di capire, più vieni nascosto. Il dialogo non è più redditizio. La riflessione non fa clic. E così, giorno dopo giorno, ci troviamo intrappolati in un grande reality dell’isteria collettiva, dove anche il muso innocente di un golden retriever diventa innesco di un dibattito tossico, amplificato da un sistema che monetizza l’odio e silenzia la complessità. Ma voi, che scrivete ancora con un cervello acceso, non vi sentite ogni tanto come chi si presenta con una tisana depurativa a una rissa da bar? Lucidi, ragionati, magari pure ironici… E intanto là fuori l’algoritmo premia l’urlo, la reazione impulsiva, il post scritto in caps lock e postato da un bagno pubblico alle 2 di notte. Siete sicuri che stiamo perdendo... o forse siamo gli ultimi a resistere? Scrivere troppo bene, troppo lucido, troppo ragionato, nell’ecosistema digitale di oggi, è come presentarsi con una tisana depurativa a una rissa da bar. Siamo nel regno del capitalismo dell’attenzione, dove, come scrive Byung-Chul Han “la comunicazione si è fatta rumorosa, impulsiva, reattiva, istantanea, e ogni lentezza viene percepita come una forma di perdita”. E tu che fai? Pubblichi un articolo pensato, magari con fonti, ritmo narrativo, autocritica e ironia. Un suicidio algoritmico in piena regola. Shoshana Zuboff  parlava di capitalismo della sorveglianza. Ma oggi, siamo immersi in qualcosa di ancora più isterico: il capitalismo dell’urlo.” Se non urli, non esisti. Se non indigni, non generi interazioni. Se non produci contenuti “additivi” (cioè quelli che provocano assuefazione emotiva) vieni seppellito sotto post di lip-sync, tutorial per piegare magliette e gente che sbraita contro l’olio di palma. Perciò, cari compagni di tastiera pensante, non è che nessuno ci segue perché non piacciamo. È che non siamo tossici. E questo, oggi, è già un atto di resistenza. Con i nostri pensieri lunghi, i periodi subordinati e quell’ironia che ha bisogno di almeno due righe per funzionare, sembriamo reduci di un’altra epoca. Siamo lenti, siamo ragionati. E in un mondo che corre ovunque senza sapere dove, la lentezza è forse l’unica forma di rivoluzione rimasta.

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