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  • Scarta la carta o lista. Il dilemma.

    In fila davanti alla scuola, il chiacchiericcio dei genitori diventa una fonte inesauribile di ispirazione. Stavolta il tema caldo è una festa di compleanno. Ci sono momenti, nella vita di un genitore, in cui ci si trova a riflettere su temi esistenziali. E non parlo di filosofia o politica, ma di questioni molto più pratiche e ardue da gestire: l’organizzazione di una festa di compleanno per bambini. “Hai già preso il regalo per la festa di sabato?” – chiede una mamma. “Sì, ho messo i soldi sulla lista”, risponde l’altra, con aria di chi ha fatto il suo dovere. “Lista? Ah non andiamo a sentimento!?”, interviene un terzo genitore, pronto a difendere la bellezza della sorpresa. Ed eccolo lì, il dibattito che si ripropone puntualmente: lista regali o scarta la carta? C’è chi, come me, preferisce la lista: una scelta pratica, quasi strategica. Si sceglie un negozio di riferimento (giocattoli, libreria, abbigliamento) e si guida la scelta degli invitati per evitare doppioni e oggetti indesiderati per il festeggiato, ma anche per i genitori che devono trovare un posto per tutto quello che entra in casa. La lista regali è il rifugio sicuro di chi vuole ridurre al minimo il rischio di incidenti diplomatici. Funziona così: si sceglie un negozio! Pro: ✅ Evita regali doppi o indesiderati. ✅ È utile per chi non sa cosa comprare. ✅ Permette di scegliere regali in linea con i gusti e le esigenze del festeggiato. ✅ Riduce il rischio di accumulare oggetti inutili in casa. Contro: ❌ Tende a eliminare il fattore sorpresa. ❌ Alcuni la vedono come un’imposizione poco elegante. ❌ Può risultare scomoda per chi vuole acquistare altrove o preferisce un regalo più personale. Per molti genitori la lista è un modo per mantenere il controllo su ciò che entra in casa: perché, diciamolo, nessuno vuole ritrovarsi con tre copie dello stesso puzzle da 100 pezzi o con l’ennesimo peluche gigante che diventerà un ingombro più che un amico del bambino. Ma la lista non è solo una questione di ordine e praticità. È anche un atto di difesa contro il caos che caratterizza l’altra scuola di pensiero: quella dello “scarta la carta”. Lo “scarta la carta” è per chi crede che l’apertura dei regali sia parte integrante della festa. Il festeggiato apre ogni pacchetto uno dopo l’altro, circondato da amici e parenti. Sorpresa, felicità, stupore… e poi il dramma. Perché c’è sempre, sempre, almeno un bambino che in quel momento si innamora follemente del regalo appena scartato e lo vuole per sé. Lo sguardo rapito, la mano che si allunga, il fatidico “anche io lo voglio!”, seguito da un pianto inconsolabile. E qui inizia il vero spettacolo, quello dei genitori che devono improvvisarsi esperti di diplomazia: Strategia della distrazione: “Guarda, ci sono le bolle di sapone!” Falsa promessa: “Magari te lo porta Babbo Natale…” Ma la realtà è che i bambini vivono il momento del regalo come una questione di vita o di morte. Se vedono un gioco che desiderano, scatta l’istinto di sopravvivenza: lo vogliono subito, senza compromessi. Molti genitori preferiscono far scartare i regali a casa, lontano dalla confusione, ma non tutti rinunciano a quello che per molti è il clou dell’evento. E poi c’è un altro dilemma: cosa si regala a un bambino? Giocattoli: sempre una certezza, ma bisogna azzeccare quelli giusti. Alcuni genitori preferiscono evitare giochi rumorosi, ingombranti o con mille pezzi. Libri: una scelta intelligente, ma bisogna conoscere bene i gusti del festeggiato. Abbigliamento: pratico, ma rischioso: taglia sbagliata, stile non gradito… insomma, una scommessa. Esperienze: biglietti per un parco giochi, un laboratorio creativo, una giornata in fattoria didattica. Un trend in crescita, ma meno immediato per il bambino. Ogni genitore ha il suo stile e il livello di resistenza al caos. C’è chi vuole avere tutto sotto controllo e chi invece accetta il rischio del “lo voglio anch’io” come parte dell’esperienza. Alla fine, l’importante è sopravvivere al compleanno con il minor numero possibile di crisi esistenziali (dei bambini e degli adulti). Forse il vero segreto è organizzare la festa in un parco e sperare che il divertimento all’aria aperta batta il dramma del pacchetto regalo. Ma lo sappiamo tutti: ci sarà sempre un bambino che vorrà proprio quel gioco. Esattamente quello. Alla fine della festa, il vero regalo più atteso non è per i bambini, ma per i genitori: un bel bicchiere di prosecco. E qualche minuto di silenzio.

  • Delusione o nulla.

    Ah, la vita! Quante volte ci illudiamo di dover vivere un’esistenza impeccabile, libera da errori, fallimenti e, ovviamente, delusioni. Ma chi ha mai detto che la perfezione sia davvero così affascinante? In fondo, sono proprio le sfumature delle esperienze negative a regalarci le lezioni più "preziose". Perché, diciamocelo, affrontare una delusione… per quanto dolorosa, è infinitamente più interessante che restare immobili, a godersi la dolce monotonia di non rischiare nulla. Oggi il successo è celebrato come l’unico standard di valore. Fin da piccoli ci viene insegnato che il raggiungimento di obiettivi ambiziosi è l’unico traguardo degno di nota, mentre il fallimento viene etichettato come segno di debolezza o inadeguatezza. E non è solo colpa delle vecchie tradizioni: i social media hanno deciso di unirsi al coro, amplificando questa cultura del "tutto o niente". Instagram, Facebook, TikTok… Queste piattaforme ci offrono un continuo spettacolo di momenti patinati e trionfi da copertina. In un feed costellato di immagini impeccabili, le incertezze, le difficoltà e i fallimenti rimangono relegati dietro le quinte, come se fossero semplicemente troppo noiosi per essere mostrati. Così, ci ritroviamo a confrontare la nostra realtà, tanto ordinaria, con un ideale irraggiungibile, generando quel delizioso mix di inadeguatezza e ansia che ormai conosciamo a memoria. Il bombardamento costante di successi digitali può far nascere una paura paralizzante del fallimento. E allora, molti scelgono la via “sicura”, evitando ogni forma di rischio per non compromettere la loro immagine impeccabile. Ma attenzione: scegliere la sicurezza a tutti i costi equivale a rinunciare a quelle scintillanti opportunità di crescita personale. Senza cadute, quelle piccole meraviglie, come potremmo imparare a reinventarci e a scoprire quel misterioso potenziale che si dice sia dentro di noi? Ironia della sorte, il fallimento, per quanto doloroso, è il passaggio obbligato verso il successo. Basta pensare a Thomas Edison: l’uomo che, dopo aver "fallito" migliaia di volte, ha finalmente inventato la lampadina, illuminando non solo le case, ma anche il mondo intero. Edison stesso scherzava dicendo di non aver fallito, ma di aver semplicemente scoperto migliaia di modi per non far funzionare una lampadina. Ogni suo insuccesso è stato un prezioso spunto per migliorare, per analizzare le scelte sbagliate e affinare la sua capacità di adattamento. Così come Edison ha trasformato ogni fallimento in una lezione indispensabile, anche noi possiamo imparare a vedere le nostre esperienze negative come i mattoni di una resilienza che ci rende, se non dei supereroi, almeno un po’ più forti e consapevoli. Accettare la nostra vulnerabilità e abbracciare gli ostacoli significa, in fin dei conti, riconoscere che ogni caduta è solo un altro passo verso una versione migliore di noi stessi. Rinunciare a rischiare per timore di delusioni? Che scelta così “innovativa”! Perché uscire dalla propria zona di comfort quando si può godere della rassicurante monotonia della stagnazione? La paura del fallimento è quel dolce freno che ci tiene lontani dalle nuove opportunità – perché, davvero, chi vorrebbe mai scoprire quel misterioso potenziale nascosto? Certo, una vita senza rischi promette un benessere immediato, ma a quale prezzo? Meglio restare fermi, evitando l’intrigante avventura della crescita personale. E poi, diciamocelo, prendersi dei rischi, anche a costo di subire delusioni, è come tuffarsi in un mare di incertezza per scoprire, con un pizzico di ironia, il coraggio di reinventarsi. Accettare la possibilità di deludersi diventa così un’arte raffinata: ogni passo incerto, ogni caduta spettacolare e ogni risalita trionfante si trasforma in una pennellata sul capolavoro della nostra vita. Le cicatrici emotive, quelle adorabili testimonianze dei momenti difficili, si trasformano nei simboli irresistibili di resilienza e crescita personale, trasformando ogni errore in un trofeo d’onore. In sostanza, una vita vissuta pienamente non è una sequenza di successi ininterrotti… troppo banale, diciamocelo, ma un mosaico variegato di esperienze, dove anche le delusioni occupano il loro giusto, ironicamente prezioso, spazio. E allora, perché non abbracciare ogni caduta, ogni delusione, e trasformarla in un’opportunità per crescere? Dopotutto, nella grande ironia della vita, è proprio nelle imperfezioni che risiede la vera bellezza. Approfondiamo? In psicologia non è certo visto come una condanna eterna, né come una punizione divina (non stiamo parlando di un giudizio universale, eh!). Piuttosto, viene considerato come una tappa fondamentale di quel strano e tortuoso viaggio che chiamiamo crescita personale. Un po’ come un viaggio in macchina: a volte ti perdi, ma quelle deviazioni ti portano in posti che non avresti mai immaginato. Ora, diversi approcci psicologici ci svelano il segreto: se lo guardi da un altro punto di vista, superare un fallimento non è solo un passo indietro, ma una gigantesca opportunità di apprendimento e sviluppo. Insomma, se si impara a prenderlo con filosofia, il fallimento può diventare il miglior insegnante che tu abbia mai avuto! È come se la vita ci dicesse: "Ehi, fermati un attimo, c'è una lezione qui per te!" Diversi approcci teorici ci ricordano che, se impariamo a reinterpretare quel piccolo scivolone con un sorriso, ogni inciampo può trasformarsi in una divertente opportunità di apprendimento e sviluppo. Secondo la teoria del growth mindset, ideata dalla psicologa Carol Dweck, le persone che credono nella possibilità di sviluppare le proprie capacità vedono il fallimento come un feedback utile e un’opportunità di miglioramento. Al contrario, chi adotta una mentalità fissa lo interpreta come una conferma definitiva delle proprie limitazioni. In quest’ottica, il fallimento diventa un banco di prova per rafforzare le competenze, trasformando un’esperienza negativa in una spinta verso il cambiamento. Il fallimento, inevitabilmente, innesca reazioni emotive come delusione, tristezza e una temporanea perdita di autostima. Tuttavia, la psicologia contemporanea sottolinea l’importanza dell’auto-compassione: riconoscere che il fallimento è parte integrante dell’essere umano e che, invece di giudicarsi duramente, è utile trattarsi con la stessa gentilezza riservata a un amico in difficoltà. Questa prospettiva aiuta a contenere l’impatto emotivo negativo e a favorire una ripresa più rapida. Numerosi studi in psicologia positiva evidenziano come il fallimento possa rafforzare la resilienza, ovvero la capacità di adattarsi e riprendersi dalle difficoltà. Le esperienze di insuccesso, se vissute in un contesto di supporto e apprendimento, diventano una palestra per lo sviluppo di strategie di coping efficaci. La resilienza non solo permette di superare gli ostacoli, ma prepara l’individuo ad affrontare sfide future con maggiore consapevolezza e determinazione. Non va dimenticato che la percezione del fallimento è fortemente influenzata dal contesto culturale e sociale. In una società che celebra esclusivamente il successo, il fallimento può assumere una connotazione stigmatizzante, rendendo ancora più difficile l’accettazione delle proprie sconfitte. Tuttavia, storie di grandi innovatori e leader – come Thomas Edison, che ha trasformato migliaia di fallimenti in passi necessari per l’invenzione della lampadina – dimostrano come il fallimento possa rappresentare il seme del successo futuro. Accettare i propri errori, sviluppare una mentalità di crescita, praticare l’auto-compassione e rafforzare la propria resilienza sono elementi chiave per trasformare il fallimento in una leva per il successo personale. Imparare da ogni esperienza negativa significa, in ultima analisi, scoprire e potenziare il proprio potenziale nascosto. Carol S. Dweck – Mindset: La psicologia del successo Dweck esplora il concetto di “growth mindset”, evidenziando come la convinzione nella possibilità di evoluzione delle proprie capacità trasformi il fallimento in un'opportunità di apprendimento. Kristin Neff – L’autocompassione Neff approfondisce il tema dell'auto-compassione, sottolineando l'importanza di trattarsi con gentilezza nei momenti di difficoltà, fondamentale per trasformare il fallimento in una tappa di crescita. American Psychological Association (APA) L’APA offre numerosi articoli e risorse sul tema della resilienza, evidenziando come le esperienze di fallimento possano rafforzare la capacità di adattamento e ripresa dopo le difficoltà. Barbara L. Fredrickson – La teoria dell’ampliamento e della costruzione delle emozioni positive Questo studio approfondisce come le emozioni positive possano aiutare a “costruire” risorse personali, rendendoci più resilienti di fronte al fallimento. George A. Bonanno – Resilienza umana Bonanno analizza la capacità dell’essere umano di riprendersi da eventi traumatici e fallimenti, sottolineando che le esperienze negative sono spesso il seme per una crescita personale inaspettata.

  • Tra lavoro, famiglia e un affettuoso golden retriever.

    Se c'è una cosa che ho imparato nella vita, è che non c'è mai un momento sbagliato per seguire i propri sogni. Solo negli ultimi due anni ho preso una decisione che potrebbe sembrare insolita per alcuni, ma che per me rappresenta un passo fondamentale verso il mio futuro: ho deciso di intraprendere il percorso di laurea. Questa scelta non è stata affatto facile. Mi sono posta molte domande e ho valutato attentamente i pro e i contro. Tuttavia, alla fine, ho capito che non c'era motivo di aspettare ulteriormente. La passione per il mio campo di studio e il desiderio di approfondire le mie conoscenze hanno prevalso su qualsiasi dubbio o incertezza. Il tempo è stato il mio nemico numero uno, con un lavoro impegnativo, due meravigliosi bambini che richiedono la mia attenzione e un affettuoso Golden Retriever che è parte integrante della nostra famiglia. Ho già vissuto diverse esperienze e ho acquisito competenze che mi saranno sicuramente utili nel mio percorso accademico. Ho imparato l'importanza della determinazione e della costanza nel perseguire i propri obiettivi, e so che queste qualità saranno mie alleate durante gli anni di studio. Inoltre, questa scelta è stata motivata anche dalla necessità del mondo del lavoro. Essere imprenditrice con un background consolidato è sicuramente un punto di forza, ma ho capito che in alcune realtà aziendali, l'aver ottenuto un titolo accademico può fare la differenza. Questo percorso mi darà la possibilità di accedere a nuove opportunità e di dimostrare che la mia determinazione e le mie competenze vanno oltre le esperienze imprenditoriali. Molte persone potrebbero chiedersi come sia possibile conciliare tutto. La risposta è semplice: il desiderio di crescita personale mi danno la motivazione e la determinazione necessarie per affrontare ogni sfida che si presenta. Una delle ragioni principali che mi ha spinto verso questa decisione è l'importanza dell'educazione come strumento di empowerment. Non importa quanto tempo sia passato dalla nostra ultima esperienza accademica, la volontà e la dedizione possono superare qualsiasi ostacolo. Un viaggio intenso e ricco di crescita, ma sono determinata ad affrontarlo con coraggio e dedizione. Sono pronta a superare ogni ostacolo e a raggiungere il traguardo che mi sono prefissata. E chissà quali nuove opportunità e scoperte mi riserverà il futuro. Sono pronta a lasciarmi sorprendere.

  • Il Ritmo sarcastico delle Lancette.

    Nella frenesia quotidiana, molti di noi si trovano ad affrontare sfide nella gestione del tempo, un elemento chiave per il successo e il benessere. Personalmente, mi ritrovo a non portare a termine alcuni lavori, consapevole fin dall'inizio che forse non saranno completati. Tuttavia, osservo con curiosità il contrasto con coloro che sembrano pianificare diligentemente le proprie giornate, apparentemente immersi in un costante impegno. Paradossalmente, però, spesso si ritrovano in ritardo o nel ciclico ritornello del "sto tornando" o “sto finendo”, che si trasforma, poi, in una lista di scuse. Mi sono imbattuta, anche, in risposte che giustificano il costante stato d'urgenza di molte persone, le cui affermazioni risultano essere "ci sono delle priorità, delle scadenze". Tuttavia, personalmente, trovo ironicamente che la mia unica scadenza tangibile sia quella relativa alla freschezza dei miei yogurt in frigorifero. Questa apparente dicotomia tra le esigenze reali e le affermazioni di priorità mi spinge a scrutare più a fondo le dinamiche complesse che guidano la gestione del tempo in un mondo, per come dicono tutti, costantemente in movimento. La prospettiva concettuale e psicologica sulla gestione del tempo evidenzia che il tempo in sé non è il fattore determinante, ma piuttosto come viene utilizzato.  Cominciamo con una citazione motivante: "Non è il tempo che abbiamo, ma come lo usiamo, che determina ciò che realizziamo." - Lou Holtz . Il concetto che il tempo in sé non sia il fattore determinante, ma piuttosto come viene utilizzato, affonda le radici nella psicologia della gestione del tempo. Lou Holtz, attraverso la sua citazione, mette in luce il potere di dirigere consapevolmente le nostre azioni e decisioni nel tempo disponibile. Da un punto di vista psicologico, la percezione del tempo è soggettiva e influenzata da fattori emotivi e cognitivi. La teoria dell'elasticità temporale suggerisce che la nostra percezione del tempo può variare in base all'esperienza e all'impegno mentale. Pertanto, dedicare attenzione e sforzi consapevoli a ciò che facciamo in un determinato periodo può estendere la nostra percezione di ciò che siamo in grado di realizzare. Sfatando il mito della quantità di tempo, si mette in luce l'importanza di concentrarsi sulla qualità delle attività svolte. La psicologia della realizzazione e della gratificazione immediata può giocare un ruolo significativo: concentrarsi su compiti significativi può portare a una maggiore soddisfazione personale e, di conseguenza, a una percezione di successo. La gestione efficace del tempo agisce come catalizzatore del successo poiché coinvolge anche la psicologia della pianificazione e dell'organizzazione. Creare una struttura temporale chiara e definire obiettivi concreti può ridurre lo stress e aumentare la motivazione, influenzando positivamente le nostre performance. Dobbiamo, quindi, considerare il tempo non come un vincolo rigido, ma come una risorsa flessibile e modellabile attraverso scelte consapevoli. Dopo ulteriori ricerche, ho fatto mia una “perla di saggezza”: "Le priorità sono non cosa tu fai, ma ciò che fai prima di tutto." Il concetto di priorità di Stephen R. Covey va oltre una semplice organizzazione delle attività quotidiane; si estende nella sfera più profonda delle nostre scelte e valori personali. Covey ci suggerisce di considerare la priorità come una questione di sequenza temporale e di dare la precedenza a ciò che è veramente significativo. Dal punto di vista concettuale, questo principio si basa sulla teoria dell'effetto domino nelle decisioni. Identificando e dando priorità alle attività che hanno un impatto significativo sulla nostra vita, generiamo un effetto a catena positivo che si riflette in una maggiore soddisfazione personale e nel raggiungimento dei nostri obiettivi. Psicologicamente, la pratica di dare priorità consapevolmente può contribuire a ridurre lo stress decisionale. L'idea di concentrarsi sulle cose più importanti prima di tutto è collegata al concetto di "carico cognitivo", dove la mente umana può affrontare solo un numero limitato di decisioni in un dato periodo. Prioritizzando, semplifichiamo il processo decisionale e creiamo un approccio più chiaro ed efficiente alle nostre attività. Inoltre, Covey sottolinea l'importanza di una riflessione continua sulle nostre azioni quotidiane. Questo aspetto psicologico invita a una forma di autoconsapevolezza che, nel contesto della gestione del tempo, si traduce in un'attenta valutazione delle attività che intraprendiamo. Questa riflessione può contribuire a modellare le nostre priorità in evoluzione, adattandole alle fasi diverse della nostra vita e alle sfide che incontriamo. Nel mondo un po' pazzo della gestione del tempo, dove le priorità sembrano un rebus e le scuse volano in giro come polvere, ci ritroviamo a ballare tra le lancette dell'orologio. In questo teatro dell'assurdo, dove le scadenze sono più liquide dei miei yogurt in frigo, la saggezza di Covey risplende sarcastica e ci chiediamo se le nostre azioni rispecchino davvero ciò che è "veramente significativo". Il "carico cognitivo" suona più come una scappatoia elegante per dire "mi spiace, non posso occuparmene", e dedicare tempo a riflettere sulle nostre azioni sembra un lusso, ma forse è giunto il momento di considerare la gestione del tempo come un'arte un po' stravagante. Qui, l'orologio assume il ruolo di uno spettatore sarcastico nel nostro perpetuo gioco di destrezza con il tempo.

  • Bisogna semplicemente sorridere e mandare a Fanculo.

    In un mondo che si muove a ritmi frenetici, dove l'incessante bisbiglio delle voci si confonde con il ronzio di sottofondo delle nostre vite quotidiane, mi ritrovo sempre più stufa. Stufa delle persone che non ascoltano veramente, quelle che si perdono nei meandri delle proprie convinzioni, incrollabili e assolute. Stufa di chi si pavoneggia nel ruolo di "dio" o di “tuttofare”, ostentando una presunzione che soffoca lo spazio per la genuina interazione umana. Questa sensazione di esasperazione mi è stata recentemente ispirata da due persone importanti nella mia vita, apparentemente frustrate per motivi diversi, ma in fondo legate da un comune disappunto. Condividendo con loro in privato questa citazione di Charles Bukowski, ho trovato un momento di profonda riflessione: "Uno poi si stanca di spiegarsi, di parlare, di cercare in tutti i modi di farsi capire. A volte bisogna semplicemente sorridere e mandare a fanculo." La verità è che siamo immersi in un oceano di comunicazione, ma affogati nella solitudine del non essere ascoltati. Questo pensiero, così crudo e sincero, mi ha aperto gli occhi su un aspetto cruciale della nostra esistenza sociale e personale. Charles Bukowski, emblematico nella letteratura underground americana e noto per la sua scrittura cruda e senza fronzoli, ha trascorso gran parte della sua vita a Los Angeles, dove ha dipinto con parole vivide e spesso sconcertanti le realtà della vita urbana, dell'alienazione, della povertà, e delle sue lotte personali con le relazioni, l'alcool e l'esistenza stessa. La citazione scelta incapsula in modo potente l'atteggiamento cinico e spesso disincantato di Bukowski nei confronti della vita. Queste parole risuonano con una qualità atemporale, esprimendo un sentimento di frustrazione verso il dover costantemente giustificarsi o adattarsi alle aspettative altrui. In questo contesto, Bukowski non si limita a esprimere un semplice disprezzo per le norme sociali convenzionali; ci invita piuttosto a considerare il potere liberatorio di abbandonare la lotta per la comprensione reciproca quando questa diventa opprimente. Ci sfida a valutare quando sia giusto ritirarsi, sorridere e, in senso figurato – o no!, "mandare a fanculo" le aspettative e i giudizi degli altri. Oltre a essere una semplice espressione di frustrazione, rappresenta un punto di svolta emotivo, un momento in cui il tentativo di comunicare e connettersi genuinamente con gli altri diventa un peso insostenibile. Questo "stancarsi" non è solo fisico o mentale, ma anche emotivo e spirituale. È il riconoscimento che, nonostante i nostri migliori sforzi, a volte non siamo compresi o apprezzati come meritiamo. Collegando questa idea alla libertà personale e all'autenticità, Bukowski tocca un nervo scoperto nell'esperienza umana. In un mondo che spesso premia la conformità e scoraggia la divergenza, affermare la propria individualità diventa un atto di coraggio. La citazione incarna la resistenza contro la pressione di adattarsi alle aspettative altrui, sottolineando l'importanza di rimanere fedeli a sé stessi anche di fronte all'incomprensione. Nel contesto professionale, questa citazione assume un'ulteriore dimensione di rilevanza. Molte persone si trovano a lavorare in ambienti dove, nonostante la loro competenza e dedizione, si scontrano con superiori che possono essere percepiti come inadeguati. La sensazione di lavorare sotto la guida di qualcuno che non solo non riconosce il tuo valore, ma potrebbe anche ostacolare il tuo progresso professionale, è incredibilmente frustrante. Bukowski, dal mio punto di vista, diventa un portavoce per chi si sente sottovalutato e incompreso nel proprio ambiente di lavoro. Il suo invito a "sorridere e mandare a fanculo" non è semplicemente un gesto di ribellione; è un richiamo a riconoscere il proprio valore e a cercare ambienti in cui questo sia rispettato e celebrato. In questo senso, la citazione di Bukowski può essere vista come un incoraggiamento a cercare la propria libertà e soddisfazione professionale, anche se ciò significa rompere con le convenzioni o le aspettative del luogo di lavoro tradizionale. Scegliere di ritirarsi o di rifiutare le convenzioni sociali, come il distacco volontario o il rifiuto di partecipare, può essere interpretato come un segno di dissenso o di critica sociale. Questo gesto sfida le norme stabilite e solleva domande importanti riguardo alla sostenibilità del nostro attuale stile di vita. Rappresenta un rifiuto consapevole della superficialità e dell'inautenticità che spesso permeano le interazioni sui social media, promuovendo un'esistenza più autentica e meno filtrata. Il valore del silenzio e del ritiro dalle interazioni sociali è un aspetto affascinante. Il silenzio, spesso sottovalutato, può essere un potente strumento di comunicazione. In contrasto con il rumore incessante, il silenzio può esprimere ciò che le parole non riescono a dire. Può indicare riflessione, disaccordo, empatia, o addirittura resistenza. In alcuni contesti, scegliere di rimanere in silenzio può essere una forma di espressione più forte che parlare. Questo atto può servire per imporre una pausa necessaria in una conversazione, permettendo sia a noi stessi che agli altri di riflettere più profondamente su ciò che è stato detto o su ciò che rimane non detto. La mia relazione personale con il silenzio risale ai miei primi anni di vita. Crescendo, sono stata spesso "accusata" dai miei genitori di non rispondere, di non prendere posizioni, e di guardare gli altri con un'aria che veniva interpretata come sfida o superficialità. Questa tendenza al silenzio, piuttosto che essere vista come una forma di comunicazione in sé, era spesso percepita come un segno di ribellione o di disinteresse. Tuttavia, riflettendo su quelle esperienze, mi rendo conto che il mio silenzio non era un segno di disimpegno, ma piuttosto una modalità di comunicazione a sé stante. In alcuni casi, il silenzio può essere una risposta ponderata, una scelta di non partecipare a dinamiche che si sentono opprimenti o inautentiche. Per un bambino o un adolescente, scegliere di rimanere in silenzio può essere un modo per affermare la propria individualità e per processare internamente le proprie emozioni e pensieri, specialmente in un ambiente dove si sentono incompresi o soverchiati. Questa mia esperienza personale evidenzia come il silenzio possa essere frainteso, specialmente quando chi ci circonda si aspetta modelli di comunicazione più tradizionali o espliciti. Inoltre, mostra come, fin da giovani, possiamo utilizzare il silenzio come uno strumento per navigare e reagire alle nostre relazioni e al mondo intorno a noi. Nel mio caso, il silenzio non era un rifiuto di comunicare, ma piuttosto una ricerca di uno spazio personale dove poter riflettere e crescere. In questo senso, il silenzio può essere visto come un atto di autodeterminazione, un modo per preservare la propria integrità interiore in un contesto che potrebbe altrimenti sembrare soffocante. Il silenzio può anche essere un indicatore che stiamo elaborando internamente le nostre esperienze, sentimenti e opinioni, prima di condividerle con gli altri. Questo processo interiore è cruciale per lo sviluppo di un senso di sé autonomo e per la costruzione di una comunicazione autentica e significativa. E quindi… quando è il momento giusto per sorridere e mandare a fanculo? Personalmente, credo che ci sia un tempo per tutto, ma quando si tratta di dire basta, non si dovrebbe aspettare che la situazione diventi insopportabile. Invece di permettere che le circostanze si accumulino fino al punto di esplodere, è spesso più saggio e salutare prendere una decisione decisa e agire subito. Questa filosofia si allinea con l'idea di autodeterminazione e rispetto di sé. Invece di sopportare passivamente situazioni negative, stress o rapporti tossici, c'è un potere nell'agire tempestivamente. "Mandare a fanculo" non deve necessariamente essere un gesto di rabbia o disperazione; può essere un'affermazione calma e deliberata dei propri limiti, un segno di autostima e di consapevolezza personale. È un atto liberatorio, che offre un senso di sollievo e di chiarezza. Invece di rimanere intrappolati in cicli di frustrazione o in relazioni malsane, scegliamo di fare spazio per ciò che è veramente importante e salutare per noi. Questo non significa agire in modo impulsivo o senza considerazione, ma piuttosto riconoscere e onorare i nostri bisogni, i nostri valori e la nostra salute mentale. Sia che ci troviamo in contesti privati o professionali, la capacità di imporre i nostri limiti è essenziale non solo per il nostro benessere psicologico, ma anche per la nostra salute fisica. Ignorare il nostro bisogno di rispetto e di autostima può portare a una somatizzazione, in cui lo stress emotivo e mentale si manifesta in problemi fisici, influenzando negativamente la nostra salute. Il rispetto di sé va oltre la semplice autostima; è un aspetto fondamentale del nostro benessere complessivo. Quando ci troviamo in situazioni in cui i nostri valori, i nostri bisogni o la nostra integrità vengono costantemente compromessi, il nostro corpo può iniziare a manifestare questi conflitti interni. Questi segnali non devono essere ignorati. È cruciale riconoscere che il prendersi cura di sé non è un atto egoistico, ma piuttosto una necessità per mantenere sia la nostra salute mentale che fisica. "Sorridere e mandare a fanculo" non è solo un gesto simbolico di liberazione, ma può essere un passo vitale verso la salvaguardia della nostra salute in senso ampio.

  • Il circo mediatico (in)nevato: il caso Roccaraso.

    Il caso Roccaraso è solo l’ultimo esempio di un fenomeno ormai consolidato: la realtà viene modellata dai trend social più di quanto ci piaccia ammettere. La viralità non è più solo un effetto collaterale della rete, ma è diventata il motore principale delle dinamiche sociali. Cosa significa? Significa che un evento non ha bisogno di essere davvero rilevante per guadagnarsi la ribalta nazionale. Basta che sia divertente, divisivo o assurdo abbastanza da generare interazioni, perché oggi l’informazione si basa sulla logica della visibilità. Chi fa parlare di sé, esiste. Chi non lo fa, sparisce. Ed è qui che entrano in gioco TikTok e le figure virali come Rita De Crescenzo, capaci di trascinare migliaia di persone in un vero e proprio pellegrinaggio social, che sia per ballare in strada, per seguire una moda assurda o per invadere una località di montagna senza alcuna pianificazione. La viralità è diventata più forte della programmazione, dell’organizzazione e persino del buon senso. Non c’è più bisogno di promuovere una destinazione con una campagna turistica ben studiata: basta che un video TikTok raccolga abbastanza commenti e condivisioni per trasformare un paese semi-deserto in un evento mediatico nazionale. Non importa se poi la neve è poca o se la località non è pronta ad accogliere orde di turisti dell’ultimo minuto. Il punto non è più l’esperienza in sé, ma l’atto stesso di partecipare al fenomeno. E a qualcuno fa comodo così. Più si alza il volume sulle sciocchezze, più i problemi reali restano in secondo piano. Oggi parliamo di Roccaraso, domani di un nuovo tormentone TikTok, e nel frattempo nessuno si chiede perché un genitore debba sudare sette camicie per trovare un posto in un asilo pubblico o perché una pensione dignitosa sembri più lontana di un impianto sciistico senza fila. Ma tranquilli: il prossimo fenomeno virale è già dietro l’angolo. E quando arriverà, saremo pronti a dimenticarci di Roccaraso esattamente con la stessa velocità con cui l’abbiamo reso un caso nazionale. Doveva essere una tranquilla stagione invernale, fatta di sciate, bombardini e bambini che si rotolano nella neve. E invece no. Benvenuti nel caso nazionale di Roccaraso, il tormentone che nessuno voleva, ma di cui ormai siamo tutti ostaggi. E io? Io trovo tutto questo ridicolo. Forse la cosa più coerente sarebbe stata non parlarne affatto. Ma ormai il danno è fatto, quindi tanto vale tuffarsi in questa follia collettiva con il giusto spirito critico. Tutto è iniziato con l’assalto turistico senza precedenti: 20.000 persone, perlopiù dalla Campania, sono piombate su Roccaraso in un weekend, trasformando la località abruzzese in un’inaspettata protagonista della cronaca nazionale. Le autorità sono corse ai ripari con controlli, prenotazioni obbligatorie e bus respinti ai confini del paradiso sciistico. I residenti hanno alzato gli occhi al cielo, mentre il resto d’Italia si divideva tra chi gridava all’invasione e chi difendeva il diritto a godersi la montagna. E poi è arrivato il grande problema: la neve ...o meglio, la sua assenza. Perché tra i pochi centimetri di bianco e le piste non proprio idilliache, alcuni turisti si sono sentiti traditi. “Dov’è la neve che ho visto su TikTok?” avranno pensato, mentre si guardavano attorno in cerca di un colpevole. A questo punto, la domanda è lecita: perché tutto questo rumore per una gita fuori porta? Davvero l’informazione nazionale non aveva altro di meglio da fare? Forse no. O forse il circo mediatico e social ha semplicemente trovato il suo giocattolo preferito: una storia di turismo selvaggio? C’era. Stereotipi regionali pronti a infiammare il dibattito? Anche. Il po t ere di TikTok nel plasmare la realtà? Ancora una volta, protagonista assoluto. D’altronde, se oggi una località può diventare un caso nazionale grazie a un trend su TikTok, domani potremmo ritrovarci Rita De Crescenzo a dettare la prossima destinazione turistica. E a giudicare da come vanno le cose, non sarebbe neanche troppo strano. Ed ecco servito il perfetto caso da chiacchiera infinita. E così, mentre la politica è in stallo (e forse è meglio non approfondire troppo, perché altrimenti dovremmo parlare di promesse elettorali evaporate come neve al sole), l’economia non offre colpi di scena (se non per ricordarci che il nostro stipendio continua a essere falcidiato da tasse e rincari), e il calcio si prende una pausa dai suoi drammi, il caso Roccaraso diventa l’argomento di punta. Un diversivo perfetto, che fa parlare senza far riflettere . A essere onesti, non c’è niente di nuovo sotto il sole o sotto la neve, per restare in tema. Il turismo di massa esiste da sempre. Il sensazionalismo mediatico pure. La voglia di scatenare polemiche inutili? Anche quella non è mai mancata. Ma la vera domanda è: perché continuiamo a cascarci? Forse perché queste non-notizie funzionano come una sorta di anestetico collettivo. Parlare di Roccaraso è più facile che affrontare la realtà di un Paese in cui le famiglie fanno i conti con l’inflazione mentre gli aiuti si assottigliano sempre di più. Il welfare è sempre più selettivo (per non dire assente) e gli asili nido pubblici sono spesso una chimera. Il sistema pensionistico tiene in ostaggio generazioni di lavoratori, che a 60 anni si sentono dire che “non ci sono le condizioni per andare in pensione”, mentre contemporaneamente si lamentano i giovani che “non vogliono lavorare”. Le tasse tagliano le gambe anche a chi ha uno stipendio alto, che però in busta paga vede ben poco. Parlare di questo sarebbe scomodo. Creerebbe malcontento. Aprirebbe discussioni che chi governa preferirebbe evitare. Quindi meglio concentrarsi su 20.000 turisti in Abruzzo, su due autobus respinti e su un pezzo di montagna che si è ritrovato più affollato di un centro commerciale il 24 dicembre. A prescindere dal "caso Roccaraso", c’è una morale più grande da cogliere. Se vi va di andare in montagna, fatelo pure, ma senza aspettarvi di trovare la cartolina che avete visto su Instagram. La realtà è sempre meno patinata dei social, e ormai dovremmo saperlo. Allo stesso modo, non credete a tutto quello che vedete su TikTok: un video virale può rendere qualsiasi destinazione irresistibile, ma non è certo un bollettino meteo affidabile. Una ripresa ben montata può far sembrare paradiso anche un parcheggio innevato con due centimetri di neve sporca. Ma soprattutto, attenzione alle tempeste mediatiche inutili. Se una notizia vi sembra eccessivamente gonfiata, probabilmente lo è. Ci sono argomenti che scaldano gli animi e fanno impennare le interazioni sui social, e questo spesso basta per trasformare un non-evento in un caso nazionale. Fate caso a quello di cui non si parla. Se tutta l’attenzione è concentrata su Roccaraso, chiedetevi quale tema più importante è stato messo in secondo piano. Perché il vero problema non è la neve, né i bus, né i turisti entusiasti o maleducati. Il vero problema è che il Paese è pieno di questioni irrisolte, e troppo spesso siamo distratti dalle fiere del nulla. E a qualcuno fa comodo così.

  • Chi controlla il Dibattito Sociale oggi?

    Ah, Facebook, il paladino della libertà di espressione… o almeno così ci vuole far credere. Negli ultimi anni, la piattaforma ha introdotto una serie di "rivoluzionari" aggiornamenti, promettendo di proteggere gli utenti da contenuti dannosi e di rendere il mondo un luogo più connesso e armonioso. Che dolce utopia! Ma guardando più da vicino, ci si accorge che non si tratta solo di piccoli ritocchi tecnici: stiamo parlando di un colosso digitale che, con un algoritmo qua e un filtro là, decide chi può alzare la mano e chi deve restare zitto nell’aula magna di internet. Insomma, non sono aggiornamenti, ma vere e proprie svolte culturali mascherate da innovazione. Perché il vero potere non sta solo nel farci parlare, ma nel decidere chi ascolta cosa. Oggi, i social media sono le nuove piazze globali, luoghi in cui miliardi di persone si incontrano per confrontarsi, scontrarsi o semplicemente condividere storie. Tuttavia, dietro l'apparente neutralità di queste piattaforme si cela un potere enorme: quello di decidere chi può parlare e cosa vale la pena ascoltare. Questa dinamica è al centro della trasformazione digitale che viviamo ogni giorno, con implicazioni profonde per temi come la rappresentazione, l'inclusività e la libertà di pensiero. Da sempre, il modo in cui parliamo di identità fuori dagli schemi, diversità e sfide sociali ha il potere di riscrivere la storia. Ma cosa succede quando è il sistema stesso a tirare i fili del dibattito, decidendo cosa mettere in vetrina e cosa nascondere nel retrobottega? Prendiamo gli imperatori romani, veri maestri nell’infrangere le norme sessuali della loro epoca. Adriano, ad esempio, visse alla luce del sole la sua storia d’amore con Antinoo, tanto che, dopo la morte del giovane, decise di farlo diventare un dio. Ma attenzione: questa "libertà" non era per tutti. Per i comuni mortali, certe relazioni erano tollerate solo fino a un certo punto. Insomma, un conto è essere l’imperatore, un altro è essere il panettiere di Pompei. Facciamo un salto avanti di qualche secolo e arriviamo a Oscar Wilde, il ribelle della società vittoriana. Brillante, famoso e… processato per la sua relazione con Lord Alfred Douglas. Condannato ai lavori forzati per "indecenza grave", Wilde divenne un simbolo di resistenza, mostrando al mondo che la società dell’epoca preferiva zittire chi non seguiva le regole piuttosto che accettare la diversità. A pensarci oggi, fa rabbia e tenerezza insieme. E poi c’è la Gioconda, che non poteva certo mancare in questa storia. Leonardo da Vinci ci ha lasciato uno dei più grandi enigmi artistici di sempre: un ritratto che, secondo molti, sarebbe un autoritratto "travestito". Maschile o femminile? Chissà! Di sicuro, la sua ambiguità ha continuato a far parlare e dimostra che le identità fluide non sono un’invenzione moderna, ma hanno sempre affascinato e sfidato i confini culturali. In ogni epoca, insomma, parlare di diversità ha sempre significato fare un atto di potere. Perché più se ne parla, più si creano spazi per resistere, affermarsi e, magari, cambiare le regole del gioco. Oggi, piattaforme come Facebook si comportano come i nuovi "imperatori" del discorso pubblico, decidendo chi merita visibilità e come. Ma niente corone d’oro o toghe imperiali: qui si parla di algoritmi, moderazione dei contenuti e scelte editoriali che determinano quali narrazioni emergono e quali, invece, finiscono nel dimenticatoio digitale. Ad esempio, le campagne LGBTQ+ spesso si trovano a fare i conti con restrizioni e avvisi di “violazione delle linee guida”, mentre contenuti discriminatori sembrano trovare un comodo angolino dove prosperare. Insomma, i social media non sono il luogo imparziale che a volte vorremmo immaginare, ma macchine potentissime che decidono cosa vediamo e, soprattutto, cosa pensiamo. La semiotica ci mostra che ogni immagine, ogni parola che appare nei nostri feed ha un peso culturale e politico. Se una piattaforma decide di promuovere la foto di una famiglia omogenitoriale o di censurare un bacio tra uomini, non si limita a comunicare: sta modellando percezioni, ideologie e credenze. Questo potere di selezione è immenso, capace di costruire o distruggere realtà. La storia, invece, ci insegna che parlare, raccontare e rappresentare è il primo passo verso il cambiamento. Quando Wilde fu condannato, si accese un dibattito sull’omosessualità. Quando Keith Haring dipinse muri contro l’AIDS, portò alla luce un’epidemia che molti avrebbero preferito ignorare. Oggi, nel mondo digitale, il dibattito non solo si espande, ma accelera, raggiungendo chiunque abbia una connessione internet. I social media sono piazze globali dove miliardi di persone si incontrano, ma ogni piazza ha i suoi vigilanti. Facebook, Instagram e altre piattaforme offrono spazi per visibilità e dialogo, ma spesso agiscono come silenziosi "custodi" del discorso pubblico. Le scelte algoritmiche decidono quali temi salgono sul palco e quali restano dietro le quinte. E qui il paradosso: post che celebrano la diversità possono essere etichettati come “contenuti sensibili”, mentre narrazioni più ostili, guarda caso, trovano più spazio. In definitiva, i social media non sono solo luoghi di confronto, ma laboratori dove si decide cosa merita attenzione. E per chi cerca di cambiare il mondo, imparare a decifrare segni e simboli è il primo passo per non cadere nella rete… in tutti i sensi. Chi decide cosa merita di essere visto? E quali sono le conseguenze di queste scelte sulla percezione pubblica? Sono domande che ogni tanto dovremmo farci mentre scorriamo i nostri feed. Nulla di ciò che vediamo online è lì per caso: ogni post, ogni immagine, è il risultato di una decisione – e spesso di una strategia – che non solo ci mostra una fetta di realtà, ma ci insegna anche come guardarla. È qui che la semiotica si rivela un superpotere: ci aiuta a decodificare questi processi e a vedere il filo invisibile che lega contenuti, scelte e significati. Ma attenzione, il digitale non è solo controllo e censura: può essere anche resistenza. Movimenti come #LoveWins, che ha celebrato la legalizzazione del matrimonio egualitario negli Stati Uniti, o iniziative come It Gets Better , che danno voce ai giovani LGBTQ+ per combattere il bullismo, dimostrano come la tecnologia possa ribaltare lo status quo. Questi spazi digitali si trasformano in megafoni globali, capaci di amplificare storie e creare reti di supporto. Certo, non sono perfetti, ma è innegabile che abbiano il potenziale per trasformare il dialogo e generare cambiamenti concreti. La rappresentazione, quindi, non è solo una questione di "essere visti": è una questione di scelte. Ogni post che condividiamo, ogni video che finisce nei nostri feed, contribuisce a costruire un panorama culturale che può spingere verso l'inclusione o, al contrario, alimentare le divisioni. È qui che entra in gioco una responsabilità enorme: quella di utenti, aziende e creatori di contenuti. Perché scegliere cosa raccontare e come farlo non cambia solo il presente, ma modella anche il futuro del dibattito pubblico. E, come abbiamo detto prima, più un tema viene discusso, più diventa difficile ignorarlo. Perché il segreto è questo: parlarne. Più lo facciamo, più alimentiamo il dibattito. E più lo alimentiamo, più diventa complicato fermarlo o farlo sparire. Il potere della conversazione sta tutto qui: creare spazi dove le persone possano confrontarsi e riflettere, anche quando il tema in questione fa storcere il naso o divide le opinioni. Judith Butler lo dice bene: "La realtà è costruita attraverso performance sociali e discorsi mediatici." E se c’è una cosa che il digitale sa fare bene, è trasformare quei discorsi in megafoni potenti. Parlare, raccontare, rappresentare. Tre azioni semplici che, però, possono cambiare la società. Ma attenzione: quando un tema diventa visibile – soprattutto sui social – si entra in un campo minato. La visibilità è un’arma a doppio taglio: può illuminare e portare accettazione, ma anche polarizzare e creare conflitti. Immaginiamo un argomento che per anni è stato un tabù, nascosto sotto il tappeto. Quando finalmente si comincia a parlarne, quel tema esplode sulla scena pubblica, incontrando sostenitori entusiasti… e oppositori agguerriti. È il prezzo della visibilità: da un lato, parlare di qualcosa significa legittimarlo. Dall’altro, può attirare odio e resistenze. Sui social media, poi, il fenomeno si amplifica: gli algoritmi amano i contenuti che fanno discutere, specialmente quelli divisivi. Un post che celebra la diversità o una campagna pubblicitaria inclusiva può generare amore, ma anche scatenare commenti velenosi. Eppure, quando un argomento entra nel dibattito pubblico, qualcosa cambia. Anche se la conversazione è inizialmente polarizzante, il fatto stesso di parlarne lo rende parte della realtà collettiva. La visibilità diventa un motore di trasformazione, capace di allargare i confini dell’accettazione sociale, anche quando le resistenze sembrano insormontabili. Il digitale amplifica tutto questo. Ogni tema diventa accessibile a tutti, ma ognuno lo interpreta a modo suo, attraverso il filtro delle proprie esperienze e pregiudizi. È vero, la visibilità rende l’odio più evidente. Ma attenzione: ciò che vediamo online non è sempre la realtà dominante. Spesso è solo la parte più rumorosa. Allo stesso tempo, quella visibilità diventa una fonte di ispirazione per molti, che trovano il coraggio di unirsi al cambiamento. La responsabilità, quindi, non è solo delle piattaforme che decidono cosa mettere sotto i riflettori, ma anche di chi partecipa al dibattito. Serve consapevolezza: riconoscere quando un contenuto è manipolatorio, promuovere storie costruttive e creare spazi di confronto sicuri. Perché, per quanto rischiosa, la visibilità resta un’opportunità. Se gestita con rispetto, può alimentare il progresso e avvicinare quella società più inclusiva che, in fondo, tutti sogniamo. Oscar Wilde, nel pieno delle polemiche e delle condanne che lo circondarono, disse: "L’uomo è meno se stesso quando parla in prima persona. Dategli una maschera, e vi dirà la verità." Oggi, i social media offrono quella maschera a miliardi di persone, rendendo possibile una visibilità senza precedenti. Ma con essa arriva anche la responsabilità di scegliere quali verità raccontare e come farlo. La visibilità non è mai stata neutrale, né lo è oggi. Come ai tempi di Wilde, ogni storia narrata o censurata contribuisce a modellare la società. E anche se i dibattiti che ne nascono possono sembrare confusi o dolorosi, il semplice fatto di parlarne porta già il cambiamento. Dopotutto, la conversazione, nelle sue mille forme, è il primo passo per trasformare idee in realtà. Wilde lo sapeva bene: le parole, una volta dette, hanno il potere di resistere al tempo e di plasmare il futuro.

  • La vita in acido (gastrico)

    Questo articolo è il racconto ironico di una realtà quotidiana che, sono sicura, molti conoscono bene. Per fortuna, con un pizzico di leggerezza (e un po' di bicarbonato), si riesce ad andare avanti. Se lo stomaco è il secondo cervello, allora per qualcuno è un filosofo esistenzialista con tendenze autodistruttive. Sì, perché mentre alcuni vivono vite felici, mangiano sushi e dormono serenamente, altri combattono con dolori, attorcigliamenti e gastriti causate non dal peperoncino, non dal caffè, ma dalla… come dire… infinita capacità di complicarsi l’esistenza. Un grande classico. Ti svegli, cerchi di affrontare la giornata, ed ecco che arriva la fatidica telefonata di qualcuno che “non vuole disturbare”. C’è chi sente il telefono squillare e si emoziona, chi lo ignora, e poi quelli che si contorcono. Sanno già che, dall’altra parte, gli aspetta un fiume di parole, richieste e problemi che richiedono la loro attenzione immediata. Non importa chi sia. Anche solo lo squillo basta a provocargli quella fitta acida sotto lo sterno. E lo stomaco già urla: “Non rispondere!” C’è quella categoria di persone che giustifica ogni atto di scarsa logica o rispetto con la frase: “Sto passando un momento difficile”. Bene, chi non ne ha? Però lo stomaco non lo sa, e mentre tu scarichi i tuoi traumi, lui si piega su sé stesso come un origami, aggiungendo quel pizzico di dolore acuto che non guasta mai. C’è chi, per trovare qualcosa, non guarda davvero. Si gira attorno, osserva i muri come se avesse una vista ai raggi infrarossi e poi sbotta: “Non c’è!” Ora, ditemi, come si può spiegare allo stomaco che quel qualcosa è esattamente lì, sotto i suoi occhi? Non si può! Lui si contrae, la gastrite si amplifica, e si finisce per cercare quel “tesoro” mentre è in atto un’esplosione interna. Ci sono poi le conversazioni che iniziano con: “Ti devo dire una cosa”. Bene. Peccato che, per arrivare al punto, si passi per l’antica Roma, l’invenzione del telefono e il racconto della zia di un’amica che una volta ha visto un UFO. Nel frattempo, lo stomaco si chiede: “Riuscirà a finire prima che mi venga un’ulcera?” Spoiler: no. Ma abbiamo chi...poveretto, non lo fa apposta, ma ci mette del suo. Quando parla o fa qualcosa, lo stomaco non si arrabbia, no, si rattrista. Si piega su sé stesso e sussurra: “Va tutto bene…”. Perché a volte, più che il nervosismo, è la malinconia che crea quella bella sensazione di roccia incandescente nello stomaco. Dopo aver somatizzato rabbia, frustrazione e un pizzico di vergogna altrui, qualcuno arriva a dirti che sei tu il problema. E via di crampi! Ah, il colpo di grazia... Perché non basta il danno emotivo, serve anche quello fisico. Lo stomaco non dimentica, soprattutto dopo una frase così. Io provo a rilassarmi, a ignorare, persino a respirare profondamente. Ma ogni volta che ci provo, arriva un nuovo episodio, un’altra scena che il mio stomaco non riesce a digerire. La verità è che non si tratta di un problema di alimentazione, ma di “ gestione ”. Un medico potrebbe dirmi: “Devi rilassarti”. Eh, grazie, dottore. Lei ha mai provato a rilassarsi quando qualcuno ti scrive “posso chiamarti?” senza darti nemmeno il tempo di rispondere? Lo stomaco non si rilassa, si ribella. Se lo stomaco fosse un tribunale, io sarei sia l’accusato che il giudice. Perché, diciamolo, non è che la gastrite me la procurino solo gli altri. Anche io ci metto del mio: sono ipersensibile, mi agito facilmente, mi incastro nei pensieri come una mosca in un barattolo di miele. Però, anche riconoscendo i miei difetti, ammetto senza vergogna: non ce la faccio più. Prendiamo il telefono, per esempio. Non è solo il suono a farmi scattare, ma la mia reazione automatica: oddio, cosa sarà successo stavolta? Ho questo talento speciale di immaginare scenari apocalittici prima ancora di rispondere, e non appena apro bocca, il mio stomaco è già in sciopero. Sì, sono io che reagisco così, ma qualcuno vuole spiegarmi perché non si può mai telefonare solo per dire: “Ciao, come stai? Va tutto bene!” Poi c’è il mio problema con gli oggetti smarriti, o meglio, con chi non li cerca come farei io. Perché io sono di quelle che, quando cerca qualcosa, lo trova. Certo, magari sbuffo, ma alla fine salto fuori con il risultato. Quando invece vedo qualcuno che si gira attorno a caso, puntando gli occhi ovunque tranne che nel punto giusto, mi si attivano i nervi gastrici. E sì, magari dovrei essere più paziente, meno polemica. Lo so. Ma come si fa? E qui lo ammetto: anche io, a volte, mi perdo nei meandri dei miei racconti. Però c’è un limite. Quando ascolto qualcuno partire da lontano per arrivare al dunque, mi chiedo perché io non riesca mai a bloccare queste epopee verbali. Il mio stomaco si contrae, mentre dentro di me una voce urla: Arriva al punto! Ma non lo dico. Perché? Perché ho paura di sembrare scortese. E così, la gastrite vince ancora. Poi c’è il mio grande difetto: mi sento responsabile per tutto e per tutti, e questo è un lavoro straordinario che lo stomaco non vuole più fare. A volte mi sembra di essere in un film drammatico in cui lo stomaco recita il ruolo della vittima sacrificale. Un po’ come in “Il diavolo veste Prada”, dove la povera Andy finisce per somatizzare tutte le pressioni e richieste assurde della sua boss Miranda Priestly. Solo che, nel mio caso, Miranda non è una sola: sono tante piccole Mirande che si aggirano nella mia vita, chiedendo, criticando e dimenticando che io ho, appunto, un limite. Oppure, prendiamo “Inside Out”: mi immagino la mia Rabbia che preme un pulsante gigante nello stomaco ogni volta che qualcuno mi esaspera. Il problema è che le altre emozioni (Tristezza, Gioia, persino Disgusto) sembrano tutte impegnate a fare altro, lasciando lo stomaco da solo a gestire il disastro. Secondo la psicologia somatica, lo stomaco è uno dei principali organi in cui il nostro corpo trattiene emozioni non elaborate. La rabbia repressa, il senso di colpa, la frustrazione e persino le interazioni sociali quotidiane possono manifestarsi come sintomi fisici. Se poi aggiungiamo il peso della responsabilità collettiva che ci auto-imponiamo (quello che la sociologia chiama carico emotivo delle relazioni) ecco che il mio stomaco diventa il campo di battaglia di dinamiche interpersonali che non riesco a gestire fino in fondo. Siamo sinceri: io non sono una vittima innocente. Certo, le persone attorno a me sanno come accendere i miei nervi gastrici, ma io ci metto del mio, con la mia incapacità di lasciar correre, il mio voler controllare sempre tutto. Il mio non voler deludere: forse è questo il vero problema. Forse è proprio questo il punto: non voler deludere. Essere sempre lì, pronti a risolvere, ascoltare e persino capire chi non capisce noi. E così, mentre il mio stomaco si contrae, il carico emotivo aumenta e io continuo a credere, ingenuamente, che sia mio dovere tenerlo in equilibrio. Alla fine, però, lo stomaco è stanco. Va bene riconoscere i propri difetti, ma magari, cari “stimolatori di gastrite”, dateci un taglio anche voi. Perché un conto è ammettere i miei errori, un altro è continuare a sentirmi così. Quindi, sì, sarò responsabile, ma ora scusatemi: il bicarbonato mi chiama.

  • Occhio al fuorigioco! Il fenomeno degli allenatori da divano.

    Ogni settimana, come un rito immancabile, milioni di tifosi si trasformano in esperti di tattica, veri e propri allenatori da divano. Dopo ogni partita, il mondo si riempie di tecnici improvvisati, pronti a spiegare con tono solenne ciò che si sarebbe dovuto fare e ciò che mai e poi mai andava fatto. È un fenomeno che segue un copione preciso: si accende al triplice fischio, esplode sui social, nei bar e nei gruppi WhatsApp, per poi dissolversi nel giro di 48 ore. Ma basta una nuova partita per riaccendere la fiamma dell’esperto calcistico, e il ciclo riparte, inarrestabile. Il calcio è passione, discussioni animate e, soprattutto, una scusa perfetta per sentirsi esperti… almeno per un paio di giorni! Questo meccanismo ciclico non è solo un fenomeno di costume, ma racconta qualcosa di più profondo: il calcio è un linguaggio universale che crea appartenenza. Nel 2013 avevo sviluppato il progetto Supporters Azzurri, un’analisi sul tifo calcistico non solo come passione sportiva, ma come fenomeno sociale, culturale ed economico. Il calcio, con la sua capacità di aggregare, creava un senso di appartenenza che andava oltre il semplice evento sportivo. Il mio progetto mirava proprio a valorizzare questo aspetto, studiando il legame tra tifoseria, marketing sportivo e identità collettiva. L’idea alla base era quella di coinvolgere aziende in strategie di comunicazione innovative, capaci di sfruttare non solo la visibilità degli eventi calcistici, ma anche l’emozione e la fedeltà dei tifosi. Oggi, rispetto al 2013, il tifo ha subito una trasformazione radicale. La digitalizzazione ha reso il calcio sempre più globale e sempre meno legato alla dimensione locale dello stadio. I social media hanno moltiplicato le voci, permettendo a chiunque di diventare opinionista, ma hanno anche creato un nuovo tipo di tifoso: quello ‘virtuale’, che discute di calcio 24/7 senza mai mettere piede sugli spalti. Eppure, nonostante i cambiamenti, una cosa resta immutata: il calcio continua a essere un potente collante sociale, un’arena in cui la gente cerca identità e appartenenza. A tal riguardo, ho deciso di pormi delle domande e cercare delle risposte. Esiste una spiegazione scientifica per questo fenomeno? Il fenomeno degli "allenatori da divano" rientra in un comportamento psicologico ben studiato: il Dunning-Kruger Effect . Per dirla semplice, si tratta di quella simpatica tendenza umana a sopravvalutare le proprie competenze in un campo di cui, in realtà, si sa poco o nulla. Dopo aver visto una partita (o meglio, qualche highlights e i commenti sui social), ci si sente improvvisamente esperti di tattica, capaci di spiegare perché l’allenatore ha sbagliato tutto e come avrebbe dovuto agire. In ambito sportivo, ci sono anche studi sulla falsa percezione delle proprie abilità atletiche: una ricerca dell’Università di Chicago ha dimostrato che chi guarda sport con regolarità tende a convincersi di saperlo praticare meglio di quanto sia realmente in grado. Tradotto: il tizio che dice “quel rigore lo segnavo pure io” probabilmente ha la coordinazione di un sacco di patate. Infine, il fenomeno si lega anche alla cultura del tifoso: il calcio non è solo uno sport, ma un'identità, una fede . E quando la propria squadra gioca, ci si sente parte attiva, anche se l’unico sforzo fisico fatto è stato prendere il telecomando dal divano. Insomma, il mix perfetto di illusione di competenza, passione sportiva e la magia del “col senno di poi”. Quali meccanismi sociali si attivano dopo una partita? A livello sociale, il fenomeno degli allenatori da divano è un mix di dinamiche psicologiche e di appartenenza che si attivano automaticamente, quasi come un riflesso incondizionato. Il calcio non è solo sport, è tribù . Sostenere una squadra è un atto identitario, una forma di appartenenza quasi viscerale. Dopo una partita, il tifoso sente il bisogno di rafforzare il legame con il gruppo, che sia il branco di amici, il bar sotto casa o la community online. Commentare la partita diventa quindi un rituale sociale, un modo per sentirsi parte di qualcosa. Nel calcio, chi guarda da fuori ha sempre ragione. Perché? Perché non deve prendere decisioni reali. Il mister deve fare scelte in pochi secondi, con mille variabili da considerare. L'allenatore da divano, invece, parla dopo, col senno di poi, e con la calma di chi può analizzare ogni dettaglio senza pressioni. Questo crea l’illusione di essere più competenti di chi sta davvero sul campo. Una vittoria scatena l’euforia, una sconfitta è un dramma greco. In entrambi i casi, il tifoso ha bisogno di sfogare. Se la squadra ha vinto, ecco partire gli elogi all’allenatore (che fino alla settimana prima era un incapace). Se ha perso, si cercano colpevoli: l’allenatore, l’arbitro, la pioggia, il destino cinico e baro. È lo stesso meccanismo che scatta quando discutiamo di politica al bar: più che argomentare, dobbiamo sfogare frustrazioni e sentirci parte di una fazione. L’arena del dibattito è infinita, e chiunque può dire la sua e dire la propria opinione è quasi un obbligo, perché chi non commenta non esiste. Dopo una partita, l’allenatore da divano seleziona solo i dettagli che confermano le sue teorie. Se da mesi dice che il centravanti è scarso e quello sbaglia un gol, ecco la prova definitiva. Se invece segna una tripletta? “Eh, ma era un caso”. Questo è il classico bias di conferma, il filtro mentale che ci fa vedere solo quello che vogliamo vedere. E poi? Tutto si ripete. Il ciclo della vita del tifoso è semplice: pre-partita : "Oggi vinciamo sicuro" / "Sarà dura" durante la partita : "Dai che ce la facciamo" / "Questa squadra fa schifo" post-partita : "Te l'avevo detto" 48 ore dopo : si resetta tutto, in attesa della prossima partita. L'idea che ogni esperto improvvisato abbia il proprio stile e specialità viene da una dinamica tipica dei gruppi sociali e delle discussioni collettive: quando c’è un evento su cui tutti vogliono dire la loro (una partita, un fatto politico, un evento storico), si creano ruoli spontanei all’interno della conversazione. Nel caso degli allenatori da divano, questa suddivisione segue meccanismi simili a quelli di un ecosistema sociale, in cui ogni partecipante trova il proprio spazio, rinforzando la propria identità nel dibattito. Da dove nasce questa tendenza? Proprio come nel calcio giocato esistono attaccanti, difensori e centrocampisti, nelle discussioni post-partita emergono spontaneamente ruoli specifici. Ognuno trova la sua “specialità” nel commentare, un po’ per attitudine personale, un po’ per desiderio di distinguersi dagli altri. Anche chi non ha mai allenato o giocato ha bisogno di sentirsi un'autorità su un tema. E allora si specializza: chi parla di tattica, chi di arbitri, chi di mercato. Un po’ come negli uffici, dove c’è sempre quello che "ne sa" di politica, quello che "capisce di finanza" e quello che "prevede il futuro dell’economia mondiale" sulla base di due articoli letti su Facebook. Le trasmissioni sportive hanno contribuito a rafforzare questi ruoli: c’è l’esperto di tattica, il polemico, il difensore degli arbitri, l'opinionista che urla. Il tifoso medio, assorbendo questo modello, replica gli stessi schemi nelle proprie discussioni, scegliendo inconsciamente quale "personaggio" interpretare. Se una persona si è fissata che l’arbitro ha influenzato il campionato, ogni decisione arbitrale sarà vista come un complotto. Se un altro crede che il problema sia solo tattico, analizzerà sempre gli schemi di gioco. Ognuno si costruisce il proprio punto di vista e lo difende fino alla fine, come se fosse una missione. In pratica, quando si parla di calcio, non si discute mai e basta: si sceglie un ruolo, ci si specializza e si entra nel gioco. Non si tratta più solo di tifare, ma di ritagliarsi il proprio spazio nella discussione, sentendosi parte di qualcosa di più grande. Ma perché dura proprio 48 ore? Il fenomeno degli allenatori da divano segue una dinamica temporale precisa: una sorta di finestra magica che si apre subito dopo il fischio finale e si chiude gradualmente nell’arco delle 48 ore successive. È un periodo in cui il calcio diventa l’argomento dominante, tutti si sentono tecnici e ogni dettaglio della partita viene analizzato con la stessa attenzione di un’indagine forense. Fase 1: adrenalina (0-6 ore post-partita) Subito dopo il fischio finale, il livello emotivo è alle stelle. Che sia vittoria o sconfitta, il tifoso è carico di adrenalina e ha bisogno di sfogarsi. I social si riempiono di post (“Partita perfetta! Grandissimi!”) o di lamentele (“Allenatore da esonero immediato!”). Questa fase è dominata dall’impulsività: si parla per istinto, senza troppa logica. Il mondo sembra diviso in due: da una parte chi esalta la squadra, dall’altra chi chiede rivoluzioni immediate. Esplodono meme, analisi tattiche e insulti all’arbitro, il tutto condito da un numero esagerato di emoji. Fase 2: analisi (6-24 ore post-partita) Passata l’ondata di adrenalina, arriva il momento delle teorie e delle spiegazioni. I tifosi non si limitano più a dire "Abbiamo giocato bene/male", ma si lanciano in analisi pseudo-tecniche. È in questa fase che emergono gli esperti di tattica, di regolamento e di mercato, ognuno con la propria teoria da difendere a spada tratta. Anche i giornali e i programmi sportivi alimentano il dibattito: interviste, pagelle, “le cinque cose che abbiamo imparato dalla partita”. Fase 3: decadenza (24-48 ore post-partita) Dopo un giorno, l’intensità della discussione inizia a calare. Le polemiche resistono solo nei casi estremi: un errore arbitrale clamoroso o un risultato inaspettato possono prolungare il dibattito, ma in generale l’attenzione si sposta altrove. Si inizia già a pensare alla prossima partita. Gli stessi tifosi che 24 ore prima chiedevano l’esonero dell’allenatore ora iniziano a convincersi che “Forse serve solo un po’ di tempo”. Fine della finestra magica: il ciclo si chiude e si torna alla normalità. Almeno fino alla prossima partita. Il calcio è un ciclo continuo, in cui ogni partita lascia spazio rapidamente alla successiva. Il tifoso non può permettersi di rimanere ancorato troppo a lungo a un risultato, perché presto ci sarà una nuova sfida da vivere, discutere e analizzare. Nel frattempo, le emozioni si affievoliscono: la rabbia per un rigore sbagliato o l'euforia per una vittoria memorabile tendono a dissolversi con il passare delle ore. E poi, inevitabilmente, la vita reale riprende il sopravvento. Il lunedì mattina arriva puntuale, con le sue scadenze e responsabilità, e anche il più fervente allenatore da divano è costretto a riporre momentaneamente il taccuino tattico per dedicarsi a impegni più concreti. Quando il calcio diventa scienza esatta? Non tutti gli allenatori da divano sono uguali. Esistono diverse categorie di esperti improvvisati, ognuna con il proprio stile e la propria specialità. Si muovono con sicurezza nei dibattiti post-partita, ognuno con la sua teoria inossidabile, pronti a difenderla con la stessa convinzione di un professore universitario in cattedra. Ecco alcuni degli esemplari più comuni che popolano bar, gruppi WhatsApp e social network: Il tattico supremo : parla con la sicurezza di chi ha allenato in Champions League, spiegando con fare autorevole perché il 4-3-3 era una scelta folle e perché il 3-5-2 avrebbe cambiato tutto. Analizza le partite con una lavagna immaginaria e, se potesse, manderebbe schemi e formazioni direttamente all’allenatore. L’arbitro infallibile : conosce il regolamento meglio degli arbitri stessi (o almeno così sostiene). Ogni decisione dubbia è un complotto, ogni rigore negato è un furto con destrezza. A sentirlo parlare, il VAR dovrebbe chiamare direttamente lui per un parere definitivo. Il bomber : è quello che dice con sicurezza "quel rigore l’avrei segnato anche io", dimenticandosi che l’ultima volta che ha calciato un pallone risale alla gita scolastica in terza media. Secondo lui, il problema dei giocatori è la mancanza di "cattiveria" e "fame", anche se la sua massima attività sportiva è alzarsi dal divano per prendere le patatine. Il veggente del mercato : sapeva già tutto: che quell’acquisto era un bidone, che il giovane della Primavera era pronto per essere titolare da mesi e che il giocatore scartato sarebbe esploso altrove. Dopo il mercato estivo, è solito ripetere frasi tipo “L’avevo detto io” con la stessa espressione di un oracolo che ha previsto l’apocalisse. Il tifoso da stadio : lui c’era. E lo fa pesare. Ha visto tutto dal vivo, ha sentito la tensione dell’ambiente, ha vissuto le emozioni senza filtri. Per lui, chi ha guardato la partita in TV "non può capire davvero". Se la squadra ha perso, è pronto a dire "Si vedeva già dal riscaldamento che non c’erano con la testa", e se ha vinto, "Era chiaro che l’avremmo portata a casa". La sua opinione è legge, perché lui ha respirato il match in prima persona. Ogni partita è un palcoscenico per questi personaggi, e il bello è che tutti sembrano avere la verità in tasca. Poi, dopo 48 ore, il sipario cala… fino alla prossima sfida, quando gli allenatori da divano (e da stadio) torneranno a prendere posizione, pronti a dispensare le loro sentenze. Perché il calcio è una questione di fede e appartenenza tribale? Ho parlato di fede e tribù perché il calcio, più che un semplice sport, è un fenomeno sociale che tocca corde profonde nell’identità delle persone. Non è solo questione di seguire una squadra, ma di far parte di qualcosa di più grande, un sistema di appartenenza che ha dinamiche molto simili a quelle delle comunità religiose e tribali. La fede nel calcio si manifesta nel modo in cui i tifosi sostengono la propria squadra: con un senso di devozione assoluta, spesso irrazionale, che va oltre il risultato o la logica. Non si sceglie una squadra come si sceglie un film da vedere: la si vive, la si tramanda, la si difende a ogni costo, proprio come un credo religioso. Ci sono riti, canti, gesti simbolici e persino luoghi sacri, come lo stadio, che diventano parte integrante dell’esperienza. Allo stesso tempo, la dimensione della tribù emerge nel modo in cui i tifosi si aggregano e si riconoscono tra loro. Sostenere una squadra significa entrare a far parte di un gruppo, un'identità collettiva che si oppone ad altre tribù (gli avversari). Questo senso di appartenenza spiega perché, dopo ogni partita, i tifosi si sentano in dovere di commentare, analizzare e difendere la propria squadra come se fosse una questione personale. Il dibattito sportivo non è solo un passatempo: è un modo per rafforzare il legame con la propria "tribù" e confermare la propria identità dentro di essa. Il calcio non è solo sport, ma un'esperienza culturale profonda, fatta di emozioni, appartenenza e rituali collettivi. E come ogni fede o tribù che si rispetti, genera discussioni, divisioni, ma soprattutto una passione inesauribile. Perché in Italia il calcio suscita più passione di altri sport? In Italia il calcio non è solo uno sport: è una cultura, una tradizione, quasi una religione laica. Non si tratta solo di seguire una squadra, ma di ereditarla, come si fa con i valori di famiglia. A differenza di altri sport, il calcio è vissuto con un’intensità che sfida la logica: ogni sconfitta diventa un dramma, ogni vittoria una festa collettiva. È ovunque, nei discorsi quotidiani, nei bar, nelle trasmissioni sportive che riempiono ore di palinsesto televisivo. Ed è questo legame viscerale a renderlo ineguagliabile rispetto a qualsiasi altro sport. Uno dei motivi principali è la sua diffusione capillare: da decenni il calcio è lo sport più accessibile e popolare, quello che tutti hanno giocato almeno una volta, anche solo in un cortile o in una strada. Questo lo rende immediato, comprensibile e universale, a differenza di altri sport che richiedono attrezzature specifiche o conoscenze più tecniche per essere seguiti con coinvolgimento. C'è poi un fattore mediatico: il calcio è ovunque. Dalla TV ai giornali, dai bar ai social, la narrazione calcistica domina il dibattito sportivo quotidiano. Infine, conta anche il fattore identitario e tribale: le squadre di calcio rappresentano città, regioni, storie di vita. Il senso di appartenenza a una squadra è qualcosa di radicato, mentre altri sport, pur avendo grandi campioni e successi, non generano lo stesso tipo di legame emotivo. In pratica, il calcio in Italia è parte della nostra identità collettiva, qualcosa che va oltre il semplice gioco. Alla fine, il calcio è molto più di un gioco. È emozione, appartenenza, una scusa perfetta per discutere con gli amici e sentirsi esperti anche solo per un paio di giorni. Perché ogni partita è una storia, ogni tifoso un protagonista e ogni gol un ricordo da raccontare. E così, settimana dopo settimana, il ciclo ricomincia. Sempre uguale, sempre diverso. Allo stadio ci sono stata. Napoli, curva B. Ho visto cose che neanche nei film o nei documentari più realistici riuscirebbero a raccontare. Famiglie, amici, nemici, tutti riuniti nello stesso spazio, mossi da una passione comune ma vissuta in modi completamente diversi. Ho visto persone che conoscevo dal punto di vista lavorativo trasformarsi, reagire in modi inaspettati, abbandonare per novanta minuti ogni formalità. In curva il tempo si sospende: non esiste altro, solo la partita. Ma ho vissuto il calcio anche da casa, circondata da tifosi, davanti a un televisore che per novanta minuti diventa uno stadio virtuale. Il contesto cambia, ma non troppo. Le dinamiche restano simili: c’è chi soffre in silenzio, chi sbraita, chi analizza ogni dettaglio come un esperto di tattica. Anche tra le mura di casa, il calcio trasforma le persone, tira fuori reazioni viscerali, accende discussioni, fa esplodere gioie improvvise o delusioni cocenti. Il calcio visto dallo stadio ha un altro ritmo, un'altra percezione. Lì non sei solo uno spettatore, sei immerso in un contesto fatto di riti, emozioni e dinamiche che vanno oltre la partita. Ma anche fuori dallo stadio, nelle case, nei bar, nei gruppi WhatsApp, il tifo segue le sue regole, crea connessioni, accende passioni. Questo sport, più di ogni altra cosa, è uno specchio della società. È una liturgia collettiva. Lo si vive ovunque: nello stadio o sul divano, in silenzio o urlando, da soli o con un'intera città. Dunning-Kruger Effect David Dunning & Justin Kruger (1999) – Unskilled and Unaware of It: How Difficulties in Recognizing One’s Own Incompetence Lead to Inflated Self-Assessments . Journal of Personality and Social Psychology, Vol. 77, No. 6, pp. 1121–1134. Il Dunning-Kruger Effect, teorizzato dagli psicologi David Dunning e Justin Kruger nel 1999, descrive un bias cognitivo per cui le persone con basse competenze in un campo tendono a sopravvalutare le proprie capacità, mentre gli esperti veri, al contrario, spesso sottovalutano la loro superiorità rispetto agli altri. Nella loro ricerca, pubblicata nel Journal of Personality and Social Psychology , gli studiosi hanno dimostrato come chi possiede poche conoscenze in un determinato ambito non abbia nemmeno le competenze necessarie per valutare la propria incompetenza. Ed ecco spiegato perché, dopo una partita di calcio, milioni di tifosi improvvisamente si sentono esperti di tattica e strategia di gioco, sicuri di poter fare meglio dell’allenatore.

  • Muri di pietra, muri di idee.

    Cosa succede quando si è bloccati in casa per 15 giorni con l'influenza, due bambini pieni di energia e pochissime alternative di intrattenimento? Si finisce per guardare lo stesso cartone animato così tante volte da assimilarlo meglio di qualsiasi libro di storia. Nel nostro caso, il cartone in questione è stato I Croods 2 – Una nuova era e, tra un colpo di tosse e un altro, mi sono accorta che dentro questa buffa avventura preistorica c’è un concetto sorprendentemente attuale: il muro . No, non un muro di pietra, ma qualcosa di ancora più interessante. I protagonisti scoprono una comunità chiamata i Superior, una famiglia che ha trovato il modo di vivere al sicuro, separata dal resto del mondo. Ma la loro sicurezza ha un prezzo: hanno eretto una barriera invisibile tra loro e tutto ciò che sta fuori. E qui arriva la domanda cruciale: i muri servono a proteggerci o ci rinchiudono? NeI film d’animazione Croods 2, i Superior sembrano avere la vita perfetta: coltivano la terra, vivono in armonia e non devono preoccuparsi dei pericoli dell’esterno. Niente bestie feroci, niente pioggia improvvisa. Un paradiso. Certo, a parte gli scimpugnoni… insomma, credono di aver trovato l’equilibrio perfetto tra sicurezza e benessere, un po’ come quando pensiamo che chiudersi in casa con la febbre per 15 giorni sia l’occasione ideale per riposarsi… per poi ritrovarci a guardare lo stesso cartone fino a imparare a memoria ogni singola battuta. Eppure, non si accorgono che, nel tentativo di proteggersi, hanno finito per chiudersi. Il loro “muro” non è fatto di pietra, ma di idee, regole e convinzioni che li tengono separati dagli altri. Questo mi porta a riflettere su tutti i muri che nella storia hanno diviso popoli, culture e idee. I muri sono sempre stati la soluzione preferita dell’umanità per evitare problemi. Problema politico? Muro. Problema con i vicini? Muro. Paura del diverso? Ancora muro.  Il Muro di Berlino, costruito nel 1961, era una di quelle idee che sulla carta sembravano perfette: tenere separati due mondi con visioni opposte. Un piano infallibile… finché nel 1989 non si è scoperto che, forse, non era poi così brillante (Taylor, The Berlin Wall, 2006). Anche la Grande Muraglia Cinese è nata con le migliori intenzioni: difendere l’impero dalle invasioni. Ma, come nota Julia Lovell nel suo studio sull’argomento, più che un muro invalicabile, era una dichiarazione d’intenti: “Sappiate che qui non vi vogliamo, ma se insistete, fate pure un giro più lungo”. In effetti, molti eserciti nemici l’hanno semplicemente aggirata. I Romani, invece, erano più pragmatici. Quando costruirono il Vallo di Adriano, il messaggio era chiaro: “Da questa parte siamo civilizzati, da quella siete barbari.” Una distinzione che non ha impedito ai “barbari” di superarlo comunque, dimostrando che il concetto di “civilizzazione” è sempre piuttosto relativo. E poi c’è il Muro USA-Messico, che ha assunto un significato molto più ampio di una semplice barriera fisica. Da un lato, è stato presentato come un baluardo di sicurezza; dall’altro, è diventato il simbolo di una divisione sempre più marcata tra chi crede nelle frontiere rigide e chi vede il mondo come un unico grande villaggio globale (Andreas, Border Games, 2009). Peccato che, come tutti i muri prima di lui, non abbia impedito il passaggio di idee, persone e problemi. Questi muri nascono per la stessa ragione: proteggere da qualcosa o qualcuno. Ma, col tempo, diventano strumenti di separazione, che limitano non solo chi sta fuori, ma anche chi sta dentro. Oggi, anche senza mattoni e cemento, continuiamo a costruire barriere: culturali, tra generazioni che non si capiscono; ideologiche, tra chi ha opinioni diverse e non vuole ascoltare l’altro; sociali, tra chi ha accesso alle opportunità e chi ne è escluso. Se i muri fisici, per quanto imponenti, prima o poi crollano, quelli invisibili sono molto più difficili da abbattere. Anche senza cemento e filo spinato, continuiamo a costruire barriere che separano persone, idee e opportunità. Non servono confini di pietra quando le divisioni sono radicate nella società stessa. Ogni epoca ha visto un conflitto tra giovani e anziani, ma oggi la frattura sembra più profonda che mai. I cambiamenti sociali e i diversi valori hanno creato un muro tra generazioni che spesso non parlano più la stessa lingua. Il dialogo intergenerazionale diventa sempre più difficile, e spesso si cade nella trappola della reciproca incomprensione. Ma questo muro non è insormontabile: quando le generazioni si incontrano, possono scambiarsi esperienza e innovazione, costruendo un ponte tra passato e futuro. Il mondo si sta frammentando in gruppi che non si parlano più, ma si urlano addosso. Politica, religione, diritti civili: ogni tema diventa un campo di battaglia dove si sceglie un lato e si difende a oltranza, senza voler ascoltare l’altro. Le piattaforme digitali, invece di favorire il confronto, spesso alimentano il “muro degli algoritmi”, che ci mostra solo contenuti in linea con le nostre idee e ci conferma che abbiamo ragione. Questo fenomeno ha portato alla radicalizzazione delle opinioni: non si cerca più di capire l’altro, ma solo di distruggerne l’argomentazione. Il compromesso è visto come debolezza, il dibattito come una guerra da vincere. Servirebbe il coraggio di ascoltare, di mettere in discussione le proprie certezze e di riconoscere che la verità, spesso, sta nel mezzo. Ma in un’epoca di semplificazioni, prendersi il tempo per dialogare è la vera sfida. Forse il più antico dei muri, ma ancora il più solido è quello che separa chi ha opportunità da chi ne è escluso. L’istruzione, il lavoro, la sanità, la possibilità di realizzare i propri sogni: tutto questo è accessibile solo a una parte della popolazione. Le disuguaglianze economiche e sociali creano barriere molto più resistenti di qualsiasi confine fisico. Un bambino che nasce in una famiglia benestante avrà accesso a scuole migliori, a viaggi, a esperienze che gli apriranno più porte. Uno che nasce in un contesto svantaggiato, invece, dovrà lottare il doppio per ottenere la metà. Questo non vale solo per le differenze tra paesi ricchi e poveri, ma anche all’interno delle singole nazioni, dove il divario tra élite e classi più deboli continua ad allargarsi. Abbattere questo muro significa creare una società più equa, dove il talento e l’impegno contino più del punto di partenza. Ma finché il sistema continuerà a favorire chi è già avanti, questo muro resterà saldo, dividendo chi può sognare e chi deve solo sopravvivere. Ma anche quando si prova ad abbattere le barriere dell’ingiustizia sociale, esiste il rischio di costruire nuovi muri, meno visibili ma altrettanto limitanti. L’inclusione, per esempio, dovrebbe essere la chiave per una società più equa, in cui le opportunità non dipendano dal punto di partenza, ma dal merito e dalla volontà di ognuno. Tuttavia, se applicata in modo rigido, può trasformarsi in un altro tipo di separazione, creando distinzioni forzate invece di superarle. Quando l’idea di accogliere tutti diventa un sistema che suddivide e classifica, si rischia di rafforzare le stesse divisioni che si voleva eliminare. E così, senza rendercene conto, passiamo da un muro di esclusione a un muro di inclusione selettiva, altrettanto difficile da oltrepassare. L’inclusione è spesso vista come un valore positivo e indiscutibile, un principio che rende le società più giuste, aperte e democratiche. Tuttavia, come ogni concetto, può trasformarsi in un muro invisibile, che invece di abbattere le barriere, le rafforza in modo meno evidente. Quando l’inclusione diventa esclusione mascherata, quando separa invece di unire, si trasforma in un confine sottile e ambiguo, difficile da individuare e ancora più difficile da superare. L’inclusione nasce con l’obiettivo di dare spazio a chi storicamente è stato emarginato: minoranze etniche, comunità LGBTQ+, persone con disabilità, gruppi svantaggiati dal punto di vista economico o sociale. Si cerca di costruire una società dove tutti abbiano pari diritti e opportunità, senza distinzioni di origine, orientamento, genere o condizione. Ma quando il concetto di inclusione si radicalizza, può paradossalmente generare nuove divisioni. Creare categorie troppo rigide per rappresentare le differenze rischia di enfatizzarle anziché superarle. Si rischia di non vedere più le persone come individui, ma solo come membri di un gruppo specifico, definito dal loro genere, etnia o condizione. L’identità personale viene ridotta a un’etichetta, creando nuove forme di separazione. Per esempio, le politiche di quote obbligatorie in certi settori lavorativi o accademici, pensate per favorire la diversità, vengono talvolta percepite come discriminazioni al contrario. L’intento è garantire pari opportunità, ma quando si forza l’appartenenza a un gruppo per ottenere un vantaggio o per “bilanciare” statistiche, si rischia di sostituire un’ingiustizia con un’altra. Un altro problema nasce quando l’inclusione diventa un dogma assoluto, senza spazio per il dissenso o la sfumatura. Chiunque ponga domande o esprima dubbi su certe dinamiche viene immediatamente etichettato come “esclusivo”, “conservatore”, o addirittura “intollerante”. In questo modo, l’inclusione non è più un mezzo per aprire il dibattito, ma diventa un nuovo muro ideologico, che impedisce qualsiasi discussione fuori dalla narrazione dominante. Il dibattito sulle identità di genere, per esempio, è un caso emblematico: da un lato, c’è la volontà di riconoscere diritti e dignità a tutti, dall’altro, chi esprime posizioni più tradizionali spesso si trova escluso dalle conversazioni, senza possibilità di argomentare. Il rischio è che si passi da una società che escludeva alcune minoranze a una società che esclude chi non si allinea perfettamente al nuovo paradigma. L’inclusione non può funzionare se diventa a sua volta un sistema di esclusione. L’inclusione non dovrebbe significare creare nuove barriere, ma eliminare la necessità stessa delle categorie. Il vero obiettivo dovrebbe essere quello di far sì che le differenze non siano più un criterio di separazione, né per favorire né per discriminare. Se un muro tradizionale divide due realtà, il “muro dell’inclusione” separa chi è dentro il sistema da chi non aderisce completamente ai suoi principi. La vera sfida è costruire una società in cui non servano più etichette per garantire diritti e rispetto, perché questi saranno garantiti naturalmente a tutti, senza dover ricorrere a forzature. Forse il vero segno di progresso non è costruire un muro che includa alcuni ed escluda altri, ma costruire uno spazio senza muri, in cui le differenze esistano senza bisogno di essere continuamente enfatizzate. Solo allora l’inclusione sarà davvero tale. I muri invisibili sono i più difficili da vedere, e proprio per questo sono i più pericolosi. Non fanno rumore quando vengono costruiti, non si vedono sulle mappe, eppure condizionano la nostra vita più di quanto immaginiamo. Se i muri di Berlino, del Messico o della Corea sono sotto i riflettori, quelli culturali, ideologici e sociali vengono spesso ignorati. Ma sono proprio questi a determinare il mondo in cui viviamo e il modo in cui ci relazioniamo agli altri. Abbatterli non è questione di ruspe o rivoluzioni, ma di scelte quotidiane, di apertura mentale, di volontà di superare le barriere invisibili che ci separano. Perché la storia ci ha insegnato che ogni muro può crollare, ma solo se c’è chi è disposto a spingerlo giù. Forse la vera domanda non è “quale muro abbattere?”, ma “ quale muro stiamo costruendo senza accorgercene? ”. Alla fine i Superior scoprono che vivere separati non li ha resi più forti, ma solo più fragili e impreparati. È solo accettando il caos dei Croods, la loro imprevedibilità, le loro urla, la loro capacità di adattarsi, che riescono davvero a sopravvivere. E in fondo, non è così diverso nella realtà: la sicurezza assoluta non esiste, e forse la vera forza sta proprio nell’imparare a convivere con le differenze, invece di alzare muri per tenerle fuori. E poi c’è un altro elemento interessante: i muri non separano solo le persone, ma anche le esperienze e la crescita personale. I Croods 2 riesce a raccontare anche il passaggio dall’infanzia all’adolescenza, i cambi di necessità e di dinamiche familiari, il valore delle parole e la tentazione di rifugiarsi in mondi perfettamente organizzati, come quelli offerti oggi da TV, social e streaming. Sì, sono riusciti a mettere pure questo nell’era preistorica. Alla fine, che sia un muro di pietra o uno schermo che ci isola dalla realtà, il risultato è lo stesso: ci separa da ciò che potrebbe farci crescere. La prossima volta che ci troviamo davanti a un muro, fisico o invisibile, chiediamoci: ci sta davvero proteggendo o ci sta solo impedendo di crescere? Frederick Taylor, The Berlin Wall: A World Divided, 1961-1989  (2006) : Questo libro offre un resoconto completo della costruzione, esistenza e caduta del Muro di Berlino, esaminando i ruoli svolti dalla Germania dell'Est e dell'Ovest, dall'Unione Sovietica e dagli Stati Uniti. Julia Lovell, The Great Wall: China Against the World, 1000 BC - AD 2000  (2006) : Lovell esplora la storia della Grande Muraglia Cinese, analizzando le conquiste e le catastrofi dell'impero cinese nel corso di 3.000 anni. Nick Hodgson, Hadrian’s Wall: Archaeology and History at the Limit of Rome’s Empire  (2017) : Questo studio approfondisce la storia e l'archeologia del Vallo di Adriano, esaminando il suo ruolo come confine dell'Impero Romano. Peter Andreas, Border Games: Policing the U.S.-Mexico Divide  (2009): Andreas analizza la complessità della frontiera tra Stati Uniti e Messico, discutendo le dinamiche di sicurezza e le implicazioni sociali e politiche del muro di confine.

  • Vivere con Bolt: presenza invisibile (ma non troppo).

    Bolt è sempre lì, anche quando cerca di passare inosservato come un ninja... Non lo vedi, non lo senti, ma poi... zac! Ti accorgi di lui quando calpesti qualcosa di inspiegabilmente soffice o quando si materializza dietro di te mentre apri il frigo. Perché un golden retriever non è mai davvero "assente": è semplicemente ovunque. Quando hai scelto un golden retriever, magari immaginavi scene idilliache: Bolt accoccolato ai tuoi piedi, dolce e serafico. Nella tua mente, incarnava la serenità assoluta, con quegli occhi che trasmettevano pura devozione. La realtà? Bolt ha deciso che la sua missione è monitorare ogni tuo movimento con la precisione di una guardia del corpo. Sorveglia la casa portando in giro un calzino spaiato come se fosse un trofeo. E poi c’è la sua abilità speciale: accoccolarsi con tutta la grazia di un elefante proprio sopra gli occhiali da vista o il telecomando, mentre tu cerchi disperatamente gli occhiali in giro per casa, convinto che siano spariti nel nulla. Ad esempio, eccoci qui: noi siamo in ufficio, immersi tra carte, computer e idee. E lui? Bolt è spaparanzato sul divano, come un re nel suo regno. Sembra completamente assorbito dal relax più profondo. Ma attenzione: non lasciarti ingannare. Un occhio è sempre semiaperto, vigile come quello di un bodyguard che non si lascia sfuggire nulla. Basta un piccolo movimento, come una sedia che scricchiola o un foglio che cade, e lui alza la testa, lanciandoti uno sguardo da “Tutto sotto controllo?”. La sua energia non si limita alle pareti di casa. Quando è il momento di uscire, Bolt non si tira indietro. Questa stessa prontezza la ritrovi anche quando sei fuori casa. Uscire con Bolt non è una semplice passeggiata rilassante: è più una prova di resistenza fisica. Lui non cammina mai tranquillo, parte a razzo tirando il guinzaglio con l’entusiasmo di chi ha appena scoperto il mondo per la prima volta... ogni singolo giorno! Ogni tanto ti chiedi se, prima o poi, perderai una spalla. Forse non l’hai ancora persa solo perché hai sviluppato una resistenza da maratoneta e la forza di un gladiatore. Perché con un golden retriever al guinzaglio, devi essere pronto a tutto: altri cani, foglie svolazzanti, odori misteriosi... persino una busta di plastica può scatenare l’impulso da esploratore di Bolt. La scena tipica: tu cerchi di mantenere un’andatura regolare, ma lui decide di cambiare strada perché, evidentemente, quel cespuglio lì ha bisogno di un’analisi approfondita. Dopo la passeggiata estenuante, torniamo a casa. Tu vorresti solo toglierti le scarpe, respirare e recuperare la spalla malconcia. Ma no, non con Bolt. Perché il vero spettacolo inizia adesso: il rituale di pulizia post-avventura. Bolt entra felice, magari con una foglia attaccata al pelo e sporcizia artisticamente distribuita sulle zampe. Lo guardi e pensi: “Oh no, non sul divano!” . Lui ti guarda indietro con un’aria da “Che c’è? Sono fantastico così!”. Dopo la lotta epica con l’asciugamano, pensi di avercela fatta: il momento di pace è arrivato. Ti siedi sul divano, accendi la TV e ti rilassi. Ma ecco che Bolt, fresco di avventura, decide che è lui a meritarsi quel posto d’onore. Si arrampica con tutta la disinvoltura del mondo e si piazza esattamente al centro del divano… al tuo posto! Tu lo guardi incredulo, lui si stira beato come se fosse la sua poltrona reale. Se provi a spostarlo, ti fissa con quegli occhi pieni di sdegno e un velo di dramma canino: “Davvero vuoi togliere questo privilegio a un povero cane stanco e devoto?”. Quando finalmente, con un po’ di compromesso, ti ritrovi seduto su un angolo risicato del divano, Bolt decide che il momento successivo è quello della cena. Si alza con tutta la solennità di chi sa che è giunta l’ora e si piazza davanti alla cucina. Ti guarda, poi guarda la ciotola vuota, poi di nuovo te, con un sincronismo perfetto degno di un attore consumato. Se cerchi di ignorarlo, parte la modalità “messaggio vocale”: un abbaio fisso, breve e inconfondibile, ripetuto a intervalli regolari come un timer canino. Non è forte, non è aggressivo... è semplicemente impossibile da ignorare. Ti alzi per riempire la ciotola, Bolt ti segue con entusiasmo crescente, come se non fosse certo che arriverai a destinazione senza cambiare idea. Al primo plop delle crocchette nella ciotola, la sua coda comincia a scodinzolare come una bandiera al vento, mentre tu, ormai rassegnato, lo guardi divorare tutto con la gioia di chi vive per quel momento. Conclusione: rilassarti? Forse dopo la cena di Bolt... ma anche lì, non ci metterebbe molto a convincerti che un bis è assolutamente necessario! Prima di Bolt, c’era Max. E Max era davvero... il massimo. Un autentico professionista del mondo canino. Lui non si limitava a portare i calzini in giro: li ingoiava con la convinzione di un critico gastronomico. E poi c’era il suo superpotere: svegliarmi semplicemente fissandomi. Non un abbaio, non un movimento. Solo un paio d’occhi puntati addosso fino a che non mi arrendevo. Max aveva questa presenza quasi "mistica". Bolt & Max E poi è arrivato Bolt, che, al contrario, non mangia calzini (fortunatamente). Ma attenzione: ha messo su un’alleanza con i miei figli che definire "associazione a delinquere" è riduttivo. Corrono, tramano, fanno sparire palline e biscotti con la destrezza di una banda organizzata. Se Max era il maestro del minimalismo (un cane, un calzino, un obiettivo), Bolt e la sua crew sono i re del caos coordinato. Non ci sono regole, solo complicità. La scena tipica: i bambini ridono mentre Bolt li segue con la coda scodinzolante e uno sguardo pieno di entusiasmo. Appena uno dei bambini piange o si allontana, Bolt si trasforma nel loro angelo custode, pronto a consolare, annusare o sedersi accanto con fare protettivo. Ma non appena ritorna la calma... via, si riparte con nuove trovate, come corse per casa, inseguimenti tra divani e, ovviamente, cacce al tesoro (che spesso includono oggetti che non dovrebbero esserlo). In questo caos sincronizzato, tu cerchi di mantenere l’ordine, ma capisci presto che è una battaglia persa. In fondo, guardandoli insieme, non puoi fare a meno di sorridere. Uno dei momenti più esilaranti è quando Bolt decide di dimostrare tutto il suo affetto con le sue inconfondibili "leccate d’amore". Per lui, è un gesto di pura devozione; per i bambini... un orrore totale! Si avvicina con quel suo sguardo dolcissimo e, senza preavviso, parte una leccata gigante sui piedi. I bambini urlano: “Boooolt! Mamma mi ha leccatooo!”. E mentre loro cercano di riprendersi dall’ “attacco bagnato”, Bolt li guarda con l’espressione di chi pensa: “Ma come? Non era fantastico?”. Nonostante questo "trauma" quotidiano, Bolt rimane il loro eroe e, all’occorrenza, anche il loro martire. Bolt passa dalle "leccate del disgusto" al ruolo di "sacrificio vivente" con una serenità zen che solo un golden retriever può avere. Sì, la casa è spesso sottosopra, la spalla rischia di andarsene dopo ogni passeggiata, e il pavimento raramente rimane asciutto dopo una giornata di pioggia. Ma non è tutto: anche quando finalmente la casa splende e ti siedi soddisfatto ad ammirare il tuo lavoro, eccola lì... la palla di pelo rotolante che sbuca all’improvviso da sotto il divano, come il classico cespuglio di fieno nei film western. In quel momento senti nella testa la musica epica da duello e ti chiedi: "Ma com’è possibile?!". Eppure, nonostante tutto, quando Bolt ti guarda con quei suoi occhi profondi, pieni d’amore, capisci che ne vale la pena. È faticoso? Assolutamente. È perfetto? Anche. Perché vivere con Bolt significa non annoiarsi mai e imparare ogni giorno che l’amore incondizionato può avere la forma di un cane che ti segue ovunque, palla di pelo inclusa. In fondo, come si potrebbe vivere senza di lui?

  • 2025: l’anno che non esiste ma comunque ci tocca viverlo.

    Benvenuti nel 2025. O forse no. Potremmo essere ovunque nel flusso del non-tempo, ma eccoci qui, pronti a fingere che gennaio abbia senso, che gli anni abbiano un significato, e che non siamo tutti intrappolati in un complotto cosmico orchestrato dagli orologi e dai calendari gregoriani. Secondo una teoria rivoluzionaria che potrebbe tranquillamente emergere in uno dei nostri amati salotti mediatici (tra un dibattito acceso e un segmento sulle diete miracolose), i numeri e gli orologi sono stati inventati per convincerci che il tempo esiste davvero. Un complotto, un disegno perverso che coinvolge il cambio dell’ora legale e, molto probabilmente, anche i ritardi di Trenitalia. Il tempo, in questa narrazione, è una Matrix. E sapete una cosa? Potrebbe non essere così folle come sembra. Dopotutto, il tempo sembra esistere solo quando dobbiamo alzarci presto la mattina o aspettare che la lavatrice finisca. Ecco un interrogativo. Se il tempo è un costrutto, allora perché gennaio sembra durare almeno 74 giorni? Forse perché è il mese in cui ci pentiamo di tutti gli errori commessi a dicembre (tipo quell’ennesima fetta di panettone) o perché il conto in banca ci ricorda che Babbo Natale non accetta rateizzazioni. Ma ora che abbiamo aperto gli occhi, possiamo liberarci dal giogo di questo tiranno invisibile. Via gli orologi! Basta con i calendari! Tranne quelli delle Poste, perché le bollette misteriosamente esistono, anche nel non-tempo. Seguendo l’esempio dei cani (che, ricordiamolo, vivono senza cognizione del tempo), possiamo finalmente abbracciare una vita più autentica. Non importa se siamo nel 2025, nel 1327 o nel Giurassico. Viviamo il presente, come quando ordiniamo una pizza senza pensare alle calorie o guardiamo Netflix fino alle 3 del mattino, perché il domani è solo un’illusione. Certo, il problema è spiegare questa filosofia a tua nonna, che se non la chiami ogni giorno è convinta di essere stata abbandonata in un buco nero temporale. Ma anche qui possiamo imparare dai cani: non conta quanto tempo passi, basta farle sentire che sei lì, presente, almeno finché non arriva il postino con una raccomandata. Se il tempo non esiste, finalmente possiamo liberarci dai propositi di Capodanno, quella lista di bugie che ci raccontiamo ogni gennaio (“andare in palestra”, “mangiare sano”, “risparmiare di più”). Invece, potremmo provare con obiettivi più realistici: riscoprire la gioia di non fare niente, come un cane che guarda fuori dalla finestra; rendersi conto che i ritardi non esistono se il tempo è un’illusione; chiamare tua nonna prima che pensi di essere stata risucchiata in un loop spazio-temporale. Non solo il tempo è una bugia, ma anche lo spazio è un’illusione. In parole povere: non siamo davvero qui, e non siamo nemmeno lì. Siamo ovunque e in nessun luogo contemporaneamente. Fantastico, no? La fisica quantistica ci insegna che due particelle possono essere collegate in modi che trascendono lo spazio e il tempo. Immaginate due calzini sparsi nella vostra lavatrice (quella famosa entità parallela che divora le cose). Uno si trova a casa vostra, l’altro misteriosamente in Giappone. Eppure, quando cambiate il colore di uno, l’altro lo segue immediatamente, senza badare alle distanze. Questo è il principio della non-località: un mondo senza confini, senza distanze, e decisamente senza senso, se lo si guarda con occhi “lineari”. Cosa significa tutto questo per il nostro caro 2025? Che il tempo, lo spazio e quel ritardo di dieci minuti del treno delle 8:15 sono dettagli insignificanti di una realtà molto più complessa. Viviamo in un eterno “adesso” in cui ogni evento è connesso, ovunque esso sia, e quando esso accada (o non accada). Ora, uniamo questo concetto alla sincronicità di Jung, l’idea che certi eventi accadano insieme non per caso, ma per un significato più grande. Ad esempio, pensate a quando vi viene in mente una persona e, magicamente, quella stessa persona vi chiama. Coincidenza? Non secondo Jung, e sicuramente non secondo Flavia Vento, che probabilmente attribuirebbe tutto questo al complotto degli orologi. In un universo non-locale, ogni cosa è connessa: i vostri pensieri, gli eventi intorno a voi, e persino il fatto che stiate leggendo queste parole in questo momento. Forse era destino. O forse è solo la Matrix che cerca di farvi credere che il 2025 abbia un senso. Se il tempo e lo spazio sono illusioni, cosa ci resta? Semplice: il presente, ma non nel senso banale di “godersi l’attimo”. Parliamo di vivere sapendo che tutto è interconnesso. Non rincorrere il tempo è il primo passo per comprendere questa realtà: smettere di preoccuparsi di “essere in ritardo” è già una forma di ribellione contro il dogma spazio-temporale. I bambini, come i miei figli di 6 e 3 anni, incarnano perfettamente questa filosofia. Per loro, il concetto di “tempo” è ancora fluido, un’idea astratta che non limita il loro vivere nel presente. Alberto, di 6 anni potrebbe essere completamente assorbito nel disegnare un dinosauro per ore, senza la minima consapevolezza che “è tardi” per la cena. Allo stesso modo, Giordana, bambina di 3 anni, non ha problemi a fare un drammatico picnic immaginario nel salotto mentre il mondo reale urla “sbrigati!”. E lo spazio? È altrettanto relativo. Per Alberto la distanza tra il salotto e la cucina può sembrare infinita se c’è una promessa di biscotti dall’altra parte. Ma allo stesso tempo, possono annullare le distanze emotive in un istante: Giordana probabilmente crede che un abbraccio possa risolvere qualsiasi cosa, anche se il problema è che hai appena rovesciato il caffè sul tappeto. E forse, ha ragione. I bambini vivono in una realtà dove non c’è “prima” o “dopo”, ma solo un eterno “adesso”. Per loro, non esistono scadenze o orari prestabiliti, e ciò che conta è l’esperienza del momento. Ecco, forse dovremmo imparare da loro. Non perché sia pratico arrivare in ritardo al lavoro con la scusa di vivere nel presente, ma perché ci ricordano che il tempo e lo spazio non sono altro che convenzioni. Se riuscissimo a vedere il mondo con i loro occhi, magari potremmo liberarci anche noi dalla schiavitù dell’orologio e ricordarci che, alla fine, il momento più importante è sempre quello in cui siamo immersi ora. Certo, a volte l’universo ci sta solo ricordando che abbiamo dimenticato di pagare una bolletta, ma non per questo il messaggio è meno significativo. Espandere la mente significa abbracciare la non-località in ogni sua forma: se tutto è connesso, allora anche Bolt - il mio cane - potrebbe essere parte del complotto spazio-temporale. Lo tratterò come il guru che è. Il 2025, come il tempo stesso, non esiste. E così, eccoci qui, ad affrontare un nuovo anno che forse non esiste, ma che troverà comunque il modo di ricordarci che le tasse vanno pagate e che il caffè del lunedì non sarà mai abbastanza forte. Quindi, buon “non-anno” a tutti! Ricordate: il tempo non esiste, lo spazio è relativo, ma le bollette e i messaggi vocali di vostra mamma sono ancora lì, a ricordarvi che l’universo potrebbe essere non-locale, ma le responsabilità sono sempre locali.

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