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Il conclave e il potere dei riti. Quando il sacro prende parola.

  • Immagine del redattore: giorgia dublino
    giorgia dublino
  • 7 mag
  • Tempo di lettura: 5 min

Aggiornamento: 9 mag

C’è un momento, quando il mondo aspetta il fumo bianco, in cui anche il più ateo degli spettatori sente un brivido. Come se, per un istante, tutto fosse sospeso in una sacra incertezza. Nessuna breaking news, nessuna previsione, solo attesa e rito. Ed è lì che il tempo cambia ritmo. Diventa solenne, simbolico, quasi mitico.

Perché il conclave è molto più che una riunione. È una messa in scena del mistero. E come tutti i riti (religiosi, civili, personali) ci affascina per una ragione profonda: ci ricorda che siamo fragili, ma anche capaci di dare senso.

Quando tutto sembra disordinato, il rito interviene come un gesto di ordine collettivo. Ogni fase, ogni parola, ogni pausa ha un posto.

L’antropologo Arnold van Gennep lo diceva chiaramente: il rito segna i passaggi chiave dell’esistenza (nascere, diventare adulti, sposarsi, morire) offrendo una grammatica simbolica dell’esperienza umana.

Nel conclave, quel passaggio è doppio: si celebra la fine di un pontificato e l’inizio di un altro. Si elabora un lutto, ma anche una rigenerazione. Non si tratta solo di scegliere un uomo. Si tratta di scegliere un destino.

E questo vale per ogni rito: anche un funerale, una laurea, una nascita sono tentativi di mettere in scena l’invisibile. Di dire, con i gesti, ciò che le parole non sanno spiegare.

I riti parlano il linguaggio del corpo e del tempo. Il corpo si inchina, cammina in processione, indossa abiti speciali. Il tempo rallenta, si ripete, diventa circolare.

Nel conclave, i cardinali camminano sotto gli affreschi della Sistina, votano in silenzio, bruciano le schede. Tutto è gesto.

Ed è proprio questo che manca spesso nella modernità: l’esperienza incarnata del significato.

Nel rito c’è una forma di obbedienza creativa: non si fa qualcosa “perché sì”, ma perché quel gesto contiene la memoria del mondo. È come recitare un poema che non abbiamo scritto, ma che parla anche di noi.

Non serve una religione per avere bisogno di riti. Anche la modernità ne ha inventati di suoi: la firma di un contratto, il taglio del nastro, il brindisi, l’inaugurazione, il voto, il primo giorno di scuola.

Sono momenti in cui la vita cambia ritmo, si fa evento, entra nella dimensione del riconoscimento. Il rito dice: “Questo è importante. Fermati. Guarda. Ricorda.”

Ed è proprio questo che perdiamo quando viviamo tutto come routine, o come performance. I riti non servono per apparire, ma per stare. Per attraversare, per connettere. Per rendere il tempo abitabile e memorabile.

Oggi molti riti si svuotano, diventano meccanici o commerciali. Si celebrano matrimoni senza amore, lauree senza passione, funerali senza commiato.

Altri spariscono del tutto: quanti giovani non hanno più “riti di passaggio” veri? Nessun momento che segni la soglia tra un prima e un dopo.

Eppure, senza riti, non sappiamo più attraversare le soglie. Rischiamo di restare eternamente “in mezzo”, spaesati.

È qui che il conclave ci interroga. Nella sua lentezza, nella sua serietà, nel suo “teatro sacro”, ci chiede: “E tu? Dove celebri i tuoi passaggi? Chi ti accompagna? A chi chiedi di aspettare con te il fumo bianco?”

C’è una cosa che i bambini piccoli ci insegnano, ogni giorno: non esiste crescita senza rito.

Un bambino non vuole “fare colazione”. Vuole fare colazione come sempre: con la stessa tazza, nello stesso posto, con la canzoncina preferita o il gioco che si ripete.

Vuole i gesti che conosce, anche quando si ribella. Perché il rito, per un bambino, è sicurezza, ritmo, confine tra il dentro e il fuori.

E ogni genitore lo sa: basta cambiare un piccolo dettaglio (una parola detta in fretta, una carezza dimenticata) e la giornata può incepparsi. Perché i riti dei bambini sono silenziosi ma potenti, e ci dicono che non è solo “fare”, ma come si fa, che crea connessione.

Nel sonnellino, nel racconto della buonanotte, nel modo in cui si indossano le scarpe, il rito è il ponte tra il caos del mondo e l’ordine dell’amore. È la poesia dell’abitudine.

Spesso si confondono. Entrambi si ripetono, entrambi abitano la quotidianità. Ma il rito e l’abitudine non sono la stessa cosa.

L’abitudine è automatica, nasce per comodità o per necessità. Ti lavi i denti ogni mattina, ma potresti farlo pensando ad altro. Non c’è attenzione, né intenzione: è un gesto appreso, quasi meccanico.

Il rito, invece, è carico di significato.

Può essere identico all’abitudine nel gesto, ma diverso nella consapevolezza. Quando diventa rito, quel gesto dice qualcosa, apre uno spazio simbolico.

Ti lavi i denti prima di andare a dormire? Bene. Ma se lo fai sempre accompagnando tuo figlio, nello stesso momento, con la stessa canzone, con uno scambio di sguardi, allora lì non è solo igiene, è connessione. È un piccolo rito di chiusura della giornata.

Il rito trasforma il tempo in esperienza. L’abitudine scorre. Il rito trattiene.

Ecco perché i riti, a differenza delle abitudini, aiutano a marcare i passaggi, a dare senso, a elaborare emozioni.

A scuola, fin dal nido, i miei figli vivono ogni mattina un piccolo rito che chiamano “la magia della merenda”. Si mettono in cerchio, si aspettano, si guardano.

È un momento semplice, ma ha qualcosa di solenne. Nessuno mangia da solo, tutto comincia insieme. C’è un prima (il cerchio), un durante (la condivisione), un dopo (il ritorno al gioco).

E nel mezzo, la magia: uno spazio protetto in cui il tempo cambia ritmo, e il cibo diventa occasione di relazione.

Questo rito non serve solo a nutrirsi: nutre l’ordine interiore, la sicurezza affettiva, la capacità di stare con gli altri.

I bambini lo capiscono senza bisogno di spiegazioni. Sentono che quella ripetizione ha un senso. E se un giorno salta o viene interrotta, qualcosa si spezza.

Perché il rito non è solo quello che si fa, ma come lo si fa. E con chi.

Il conclave è un messaggio potente in un mondo svuotato di simboli.

Ecco perché colpisce anche chi non è cattolico: perché ci mette davanti a un’altra idea di potere, di tempo, di sacro.

E mentre fuori il mondo urla, corre e si commenta da solo, dentro la Sistina si vota in silenzio, si brucia carta, si attende il fumo.

Il messaggio è chiaro anche per chi non crede: la ritualità non è solo conservazione. È resistenza. È memoria attiva. È un linguaggio alternativo al consumo e alla superficialità.

In un mondo che corre, fermarsi è un atto politico. Ed è per questo che il conclave affascina il mondo intero: perché mette in scena un’altra idea di potere, di tempo e di comunità.

Un rito che non vuole piacere. Ma che, proprio per questo, rimane impresso.

In un tempo che consuma, ripetere con senso è una forma di resistenza.

Ritrovare i riti nella scuola, nella famiglia, nella città, nella politica, significa restituire dignità alle transizioni, ai legami, alla vita stessa.

Significa dire che non tutto può essere algoritmo, prestazione, risultato.

Che esistono ancora gesti che non si monetizzano ma si ricordano. E che proprio quelli, forse, sono i più importanti.

Se anche una merenda può essere una magia, allora possiamo immaginare una società in cui la cura dei dettagli, delle soglie, delle comunità diventi il nuovo centro.

Perché un buon politico, un buon cittadino, un buon essere umano non corre avanti. Sa fermarsi. Sa guardare il cerchio. E sa cominciare insieme.

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