top of page

Muri di pietra, muri di idee.

Cosa succede quando si è bloccati in casa per 15 giorni con l'influenza, due bambini pieni di energia e pochissime alternative di intrattenimento? Si finisce per guardare lo stesso cartone animato così tante volte da assimilarlo meglio di qualsiasi libro di storia. Nel nostro caso, il cartone in questione è stato I Croods 2 – Una nuova era e, tra un colpo di tosse e un altro, mi sono accorta che dentro questa buffa avventura preistorica c’è un concetto sorprendentemente attuale: il muro.

No, non un muro di pietra, ma qualcosa di ancora più interessante. I protagonisti scoprono una comunità chiamata i Superior, una famiglia che ha trovato il modo di vivere al sicuro, separata dal resto del mondo. Ma la loro sicurezza ha un prezzo: hanno eretto una barriera invisibile tra loro e tutto ciò che sta fuori.

E qui arriva la domanda cruciale: i muri servono a proteggerci o ci rinchiudono?

NeI film d’animazione Croods 2, i Superior sembrano avere la vita perfetta: coltivano la terra, vivono in armonia e non devono preoccuparsi dei pericoli dell’esterno. Niente bestie feroci, niente pioggia improvvisa. Un paradiso. Certo, a parte gli scimpugnoni… insomma, credono di aver trovato l’equilibrio perfetto tra sicurezza e benessere, un po’ come quando pensiamo che chiudersi in casa con la febbre per 15 giorni sia l’occasione ideale per riposarsi… per poi ritrovarci a guardare lo stesso cartone fino a imparare a memoria ogni singola battuta. Eppure, non si accorgono che, nel tentativo di proteggersi, hanno finito per chiudersi. Il loro “muro” non è fatto di pietra, ma di idee, regole e convinzioni che li tengono separati dagli altri.

Questo mi porta a riflettere su tutti i muri che nella storia hanno diviso popoli, culture e idee.

I muri sono sempre stati la soluzione preferita dell’umanità per evitare problemi.

Problema politico? Muro.

Problema con i vicini? Muro.

Paura del diverso? Ancora muro. 

Il Muro di Berlino, costruito nel 1961, era una di quelle idee che sulla carta sembravano perfette: tenere separati due mondi con visioni opposte. Un piano infallibile… finché nel 1989 non si è scoperto che, forse, non era poi così brillante (Taylor, The Berlin Wall, 2006).

Anche la Grande Muraglia Cinese è nata con le migliori intenzioni: difendere l’impero dalle invasioni. Ma, come nota Julia Lovell nel suo studio sull’argomento, più che un muro invalicabile, era una dichiarazione d’intenti: “Sappiate che qui non vi vogliamo, ma se insistete, fate pure un giro più lungo”. In effetti, molti eserciti nemici l’hanno semplicemente aggirata.

I Romani, invece, erano più pragmatici. Quando costruirono il Vallo di Adriano, il messaggio era chiaro: “Da questa parte siamo civilizzati, da quella siete barbari.” Una distinzione che non ha impedito ai “barbari” di superarlo comunque, dimostrando che il concetto di “civilizzazione” è sempre piuttosto relativo.

E poi c’è il Muro USA-Messico, che ha assunto un significato molto più ampio di una semplice barriera fisica. Da un lato, è stato presentato come un baluardo di sicurezza; dall’altro, è diventato il simbolo di una divisione sempre più marcata tra chi crede nelle frontiere rigide e chi vede il mondo come un unico grande villaggio globale (Andreas, Border Games, 2009). Peccato che, come tutti i muri prima di lui, non abbia impedito il passaggio di idee, persone e problemi.

Questi muri nascono per la stessa ragione: proteggere da qualcosa o qualcuno. Ma, col tempo, diventano strumenti di separazione, che limitano non solo chi sta fuori, ma anche chi sta dentro.

Oggi, anche senza mattoni e cemento, continuiamo a costruire barriere: culturali, tra generazioni che non si capiscono; ideologiche, tra chi ha opinioni diverse e non vuole ascoltare l’altro; sociali, tra chi ha accesso alle opportunità e chi ne è escluso.

Se i muri fisici, per quanto imponenti, prima o poi crollano, quelli invisibili sono molto più difficili da abbattere. Anche senza cemento e filo spinato, continuiamo a costruire barriere che separano persone, idee e opportunità. Non servono confini di pietra quando le divisioni sono radicate nella società stessa.

Ogni epoca ha visto un conflitto tra giovani e anziani, ma oggi la frattura sembra più profonda che mai. I cambiamenti sociali e i diversi valori hanno creato un muro tra generazioni che spesso non parlano più la stessa lingua. Il dialogo intergenerazionale diventa sempre più difficile, e spesso si cade nella trappola della reciproca incomprensione.

Ma questo muro non è insormontabile: quando le generazioni si incontrano, possono scambiarsi esperienza e innovazione, costruendo un ponte tra passato e futuro.

Il mondo si sta frammentando in gruppi che non si parlano più, ma si urlano addosso. Politica, religione, diritti civili: ogni tema diventa un campo di battaglia dove si sceglie un lato e si difende a oltranza, senza voler ascoltare l’altro.

Le piattaforme digitali, invece di favorire il confronto, spesso alimentano il “muro degli algoritmi”, che ci mostra solo contenuti in linea con le nostre idee e ci conferma che abbiamo ragione. Questo fenomeno ha portato alla radicalizzazione delle opinioni: non si cerca più di capire l’altro, ma solo di distruggerne l’argomentazione. Il compromesso è visto come debolezza, il dibattito come una guerra da vincere.

Servirebbe il coraggio di ascoltare, di mettere in discussione le proprie certezze e di riconoscere che la verità, spesso, sta nel mezzo. Ma in un’epoca di semplificazioni, prendersi il tempo per dialogare è la vera sfida.

Forse il più antico dei muri, ma ancora il più solido è quello che separa chi ha opportunità da chi ne è escluso.

L’istruzione, il lavoro, la sanità, la possibilità di realizzare i propri sogni: tutto questo è accessibile solo a una parte della popolazione. Le disuguaglianze economiche e sociali creano barriere molto più resistenti di qualsiasi confine fisico.

Un bambino che nasce in una famiglia benestante avrà accesso a scuole migliori, a viaggi, a esperienze che gli apriranno più porte. Uno che nasce in un contesto svantaggiato, invece, dovrà lottare il doppio per ottenere la metà. Questo non vale solo per le differenze tra paesi ricchi e poveri, ma anche all’interno delle singole nazioni, dove il divario tra élite e classi più deboli continua ad allargarsi.

Abbattere questo muro significa creare una società più equa, dove il talento e l’impegno contino più del punto di partenza. Ma finché il sistema continuerà a favorire chi è già avanti, questo muro resterà saldo, dividendo chi può sognare e chi deve solo sopravvivere.

Ma anche quando si prova ad abbattere le barriere dell’ingiustizia sociale, esiste il rischio di costruire nuovi muri, meno visibili ma altrettanto limitanti. L’inclusione, per esempio, dovrebbe essere la chiave per una società più equa, in cui le opportunità non dipendano dal punto di partenza, ma dal merito e dalla volontà di ognuno. Tuttavia, se applicata in modo rigido, può trasformarsi in un altro tipo di separazione, creando distinzioni forzate invece di superarle. Quando l’idea di accogliere tutti diventa un sistema che suddivide e classifica, si rischia di rafforzare le stesse divisioni che si voleva eliminare. E così, senza rendercene conto, passiamo da un muro di esclusione a un muro di inclusione selettiva, altrettanto difficile da oltrepassare.

L’inclusione è spesso vista come un valore positivo e indiscutibile, un principio che rende le società più giuste, aperte e democratiche. Tuttavia, come ogni concetto, può trasformarsi in un muro invisibile, che invece di abbattere le barriere, le rafforza in modo meno evidente. Quando l’inclusione diventa esclusione mascherata, quando separa invece di unire, si trasforma in un confine sottile e ambiguo, difficile da individuare e ancora più difficile da superare.

L’inclusione nasce con l’obiettivo di dare spazio a chi storicamente è stato emarginato: minoranze etniche, comunità LGBTQ+, persone con disabilità, gruppi svantaggiati dal punto di vista economico o sociale. Si cerca di costruire una società dove tutti abbiano pari diritti e opportunità, senza distinzioni di origine, orientamento, genere o condizione.

Ma quando il concetto di inclusione si radicalizza, può paradossalmente generare nuove divisioni. Creare categorie troppo rigide per rappresentare le differenze rischia di enfatizzarle anziché superarle. Si rischia di non vedere più le persone come individui, ma solo come membri di un gruppo specifico, definito dal loro genere, etnia o condizione. L’identità personale viene ridotta a un’etichetta, creando nuove forme di separazione.

Per esempio, le politiche di quote obbligatorie in certi settori lavorativi o accademici, pensate per favorire la diversità, vengono talvolta percepite come discriminazioni al contrario. L’intento è garantire pari opportunità, ma quando si forza l’appartenenza a un gruppo per ottenere un vantaggio o per “bilanciare” statistiche, si rischia di sostituire un’ingiustizia con un’altra.

Un altro problema nasce quando l’inclusione diventa un dogma assoluto, senza spazio per il dissenso o la sfumatura. Chiunque ponga domande o esprima dubbi su certe dinamiche viene immediatamente etichettato come “esclusivo”, “conservatore”, o addirittura “intollerante”. In questo modo, l’inclusione non è più un mezzo per aprire il dibattito, ma diventa un nuovo muro ideologico, che impedisce qualsiasi discussione fuori dalla narrazione dominante.

Il dibattito sulle identità di genere, per esempio, è un caso emblematico: da un lato, c’è la volontà di riconoscere diritti e dignità a tutti, dall’altro, chi esprime posizioni più tradizionali spesso si trova escluso dalle conversazioni, senza possibilità di argomentare. Il rischio è che si passi da una società che escludeva alcune minoranze a una società che esclude chi non si allinea perfettamente al nuovo paradigma. L’inclusione non può funzionare se diventa a sua volta un sistema di esclusione.

L’inclusione non dovrebbe significare creare nuove barriere, ma eliminare la necessità stessa delle categorie. Il vero obiettivo dovrebbe essere quello di far sì che le differenze non siano più un criterio di separazione, né per favorire né per discriminare.

Se un muro tradizionale divide due realtà, il “muro dell’inclusione” separa chi è dentro il sistema da chi non aderisce completamente ai suoi principi. La vera sfida è costruire una società in cui non servano più etichette per garantire diritti e rispetto, perché questi saranno garantiti naturalmente a tutti, senza dover ricorrere a forzature.

Forse il vero segno di progresso non è costruire un muro che includa alcuni ed escluda altri, ma costruire uno spazio senza muri, in cui le differenze esistano senza bisogno di essere continuamente enfatizzate. Solo allora l’inclusione sarà davvero tale.

I muri invisibili sono i più difficili da vedere, e proprio per questo sono i più pericolosi. Non fanno rumore quando vengono costruiti, non si vedono sulle mappe, eppure condizionano la nostra vita più di quanto immaginiamo.

Se i muri di Berlino, del Messico o della Corea sono sotto i riflettori, quelli culturali, ideologici e sociali vengono spesso ignorati. Ma sono proprio questi a determinare il mondo in cui viviamo e il modo in cui ci relazioniamo agli altri.

Abbatterli non è questione di ruspe o rivoluzioni, ma di scelte quotidiane, di apertura mentale, di volontà di superare le barriere invisibili che ci separano. Perché la storia ci ha insegnato che ogni muro può crollare, ma solo se c’è chi è disposto a spingerlo giù.

Forse la vera domanda non è “quale muro abbattere?”, ma “quale muro stiamo costruendo senza accorgercene?”.

Alla fine i Superior scoprono che vivere separati non li ha resi più forti, ma solo più fragili e impreparati. È solo accettando il caos dei Croods, la loro imprevedibilità, le loro urla, la loro capacità di adattarsi, che riescono davvero a sopravvivere. E in fondo, non è così diverso nella realtà: la sicurezza assoluta non esiste, e forse la vera forza sta proprio nell’imparare a convivere con le differenze, invece di alzare muri per tenerle fuori.

E poi c’è un altro elemento interessante: i muri non separano solo le persone, ma anche le esperienze e la crescita personale. I Croods 2 riesce a raccontare anche il passaggio dall’infanzia all’adolescenza, i cambi di necessità e di dinamiche familiari, il valore delle parole e la tentazione di rifugiarsi in mondi perfettamente organizzati, come quelli offerti oggi da TV, social e streaming. Sì, sono riusciti a mettere pure questo nell’era preistorica.

Alla fine, che sia un muro di pietra o uno schermo che ci isola dalla realtà, il risultato è lo stesso: ci separa da ciò che potrebbe farci crescere. La prossima volta che ci troviamo davanti a un muro, fisico o invisibile, chiediamoci: ci sta davvero proteggendo o ci sta solo impedendo di crescere?



 

Frederick Taylor, The Berlin Wall: A World Divided, 1961-1989 (2006): Questo libro offre un resoconto completo della costruzione, esistenza e caduta del Muro di Berlino, esaminando i ruoli svolti dalla Germania dell'Est e dell'Ovest, dall'Unione Sovietica e dagli Stati Uniti.

Julia Lovell, The Great Wall: China Against the World, 1000 BC - AD 2000 (2006): Lovell esplora la storia della Grande Muraglia Cinese, analizzando le conquiste e le catastrofi dell'impero cinese nel corso di 3.000 anni.

Nick Hodgson, Hadrian’s Wall: Archaeology and History at the Limit of Rome’s Empire (2017): Questo studio approfondisce la storia e l'archeologia del Vallo di Adriano, esaminando il suo ruolo come confine dell'Impero Romano.

Peter Andreas, Border Games: Policing the U.S.-Mexico Divide (2009): Andreas analizza la complessità della frontiera tra Stati Uniti e Messico, discutendo le dinamiche di sicurezza e le implicazioni sociali e politiche del muro di confine.

Comments


#FOLLOWME

Grazie!

myfeed

  • Facebook
  • Instagram

ARCHIVIO

  • Instagram
  • Facebook

© 2023 by Jorjette.

#followme

Grazie!

bottom of page