Il mantra ansioso dei post.
- giorgia dublino
- 15 apr
- Tempo di lettura: 3 min
Aggiornamento: 15 apr
“Condividete tutti, così lo vedono più persone!”.
Frase che accompagna, puntualmente, ogni post pubblicato da un’associazione, una causa sociale o un’iniziativa culturale.
Segue spesso la minaccia implicita: “Se non lo fai, stai contribuendo al silenzio del sistema.”
Con questa categoria precisa di messaggio, la mia ansia sale.
Sento il peso della responsabilità sociale, come se da me dipendesse la salvezza di un’idea, di un progetto… o addirittura del mondo intero.
Solo che, subito dopo, mi chiedo: ma davvero funziona così?
Chiariamo una cosa: sì, condividere aiuta.
Ma non è magia. Non è che appena clicchi su “condividi”, l’universo digitale si spalanca e parte la rivoluzione. I social non funzionano come le catene di Sant’Antonio e non sono un interruttore che accende automaticamente la visibilità. I social non sono un referendum, né un bollettino parrocchiale.
Sono mercati affollati, governati da algoritmi che non si emozionano e saperci navigare dentro, senza farsi fregare da narrazioni zuccherose o sensi di colpa digitali, è ormai una forma di autodifesa.
L’algoritmo non ha cuore. Ha logiche. Hanno visto di tutto. Video di gattini, confessioni strappalacrime, appelli ambientalisti, petizioni, meme sulle nonne e sul governo. Si muovono solo se c’è interazione autentica: commenti veri, condivisioni ragionate, tempo speso sul post. I post non “girano” perché ci crediamo tanto, girano perché funzionano secondo criteri precisi. Un contenuto viene mostrato a una manciata di utenti quando viene pubblicato. La reach non è democratica.

Il tuo post non parte in prima fila, e nemmeno a metà. Parte con lo zainetto sgualcito, in fondo alla fila, sperando che qualcuno lo noti.
Deve guadagnarsi l’attenzione, passo dopo passo, utente dopo utente.
Se chi lo vede per primo ci clicca, lo commenta, ci passa del tempo o magari lo condivide scrivendoci qualcosa sopra, l’algoritmo si incuriosisce: “Mmm, interessante… forse vale la pena mostrarlo anche ad altri.” Se invece lo ignorano? Niente giro di valzer. Il post viene messo da parte, panchinato, come uno che non ha passato il provino.
Quando un utente ci passa tempo sopra (dwell time), interagisce attivamente (engagement), lo salva (segno che vale), oppure lo condivide con parole proprie, sta dicendo all’algoritmo: “Ehi, questo post funziona.”E solo allora, forse, parte davvero il passaparola. Ma non per magia: per merito.
Il contenuto, per i social, è come un candidato a un colloquio: viene valutato nei primi 30 secondi. Poi o avanza, o viene cestinato.
Spesso le persone pensano che cliccare “condividi” equivalga a “fare la propria parte”. Un gesto piccolo, simbolico, che però produce grandi effetti. Tipo firmare una petizione, ma senza nemmeno dover leggere di cosa si tratta. “Oh, è dell’associazione X, loro sono bravi… condivido.” E invece no. Se nessuno interagisce con quella condivisione, è come se non fosse mai avvenuta. Un po’ come quei volantini lasciati sul parabrezza, che nessuno legge e tutti gettano via.
I social se ne accorgono: ti hanno dato lo spazio, tu ci hai messo qualcosa che non ha generato nulla. Risultato? Penalizzazione. È l’equivalente digitale del fare un discorso in pubblico e vedere tutti guardare il cellulare. Non è la quantità delle condivisioni a creare movimento, ma la qualità delle reazioni.
Altra illusione tipica: “se tutti noi dell’associazione condividiamo, lo vedrà tutto il mondo”. No!!!! Lo vedranno le stesse persone che vi vedono sempre. Che fanno già parte della vostra bolla, del vostro gruppo, del vostro target naturale. La vostra rete è un condominio: se tutti urlate dallo stesso balcone, vi sentite tra voi, ma nessun passante si fermerà. Per raggiungere nuove persone, servono contenuti che viaggiano oltre le cerchie: contenuti che generano emozione, discussione, sorpresa, persino fastidio (a volte).
Serve creatività, serve storytelling. Non un appello!

Il lettore medio è saturo di contenuti: ne vede a decine, a volte centinaia al giorno. Per fermarlo, serve qualcosa che gli parli in modo diretto, viscerale, autentico.
Non basta dire: “Dobbiamo aiutare questa causa”, ma serve farla vedere, viverla, raccontarla in modo originale.
Serve far ridere, piangere, indignare, riflettere, sorprendere. Oppure, semplicemente, dire qualcosa di nuovo... almeno di diverso.
E questo, dispiace dirlo, non lo può sostituire nessuna ondata collettiva di “condividi perché sì”.
Nessuna rivoluzione si ferma perché non hai cliccato su “condividi”.
I social non premiano i buoni. Premiano i contenuti interessanti, veri e costruiti con cura.
È la vera moltiplicazione, quella che conta.
Se non ci mettiamo dentro un minimo di emozione, ironia, rabbia o entusiasmo…l’unico moltiplicatore che attiviamo è quello della noia.
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