Occhio al fuorigioco! Il fenomeno degli allenatori da divano.
Ogni settimana, come un rito immancabile, milioni di tifosi si trasformano in esperti di tattica, veri e propri allenatori da divano. Dopo ogni partita, il mondo si riempie di tecnici improvvisati, pronti a spiegare con tono solenne ciò che si sarebbe dovuto fare e ciò che mai e poi mai andava fatto. È un fenomeno che segue un copione preciso: si accende al triplice fischio, esplode sui social, nei bar e nei gruppi WhatsApp, per poi dissolversi nel giro di 48 ore. Ma basta una nuova partita per riaccendere la fiamma dell’esperto calcistico, e il ciclo riparte, inarrestabile.
Il calcio è passione, discussioni animate e, soprattutto, una scusa perfetta per sentirsi esperti… almeno per un paio di giorni!
Questo meccanismo ciclico non è solo un fenomeno di costume, ma racconta qualcosa di più profondo: il calcio è un linguaggio universale che crea appartenenza. Nel 2013 avevo sviluppato il progetto Supporters Azzurri, un’analisi sul tifo calcistico non solo come passione sportiva, ma come fenomeno sociale, culturale ed economico. Il calcio, con la sua capacità di aggregare, creava un senso di appartenenza che andava oltre il semplice evento sportivo. Il mio progetto mirava proprio a valorizzare questo aspetto, studiando il legame tra tifoseria, marketing sportivo e identità collettiva. L’idea alla base era quella di coinvolgere aziende in strategie di comunicazione innovative, capaci di sfruttare non solo la visibilità degli eventi calcistici, ma anche l’emozione e la fedeltà dei tifosi.
Oggi, rispetto al 2013, il tifo ha subito una trasformazione radicale. La digitalizzazione ha reso il calcio sempre più globale e sempre meno legato alla dimensione locale dello stadio. I social media hanno moltiplicato le voci, permettendo a chiunque di diventare opinionista, ma hanno anche creato un nuovo tipo di tifoso: quello ‘virtuale’, che discute di calcio 24/7 senza mai mettere piede sugli spalti. Eppure, nonostante i cambiamenti, una cosa resta immutata: il calcio continua a essere un potente collante sociale, un’arena in cui la gente cerca identità e appartenenza.
A tal riguardo, ho deciso di pormi delle domande e cercare delle risposte.
Esiste una spiegazione scientifica per questo fenomeno?
Il fenomeno degli "allenatori da divano" rientra in un comportamento psicologico ben studiato: il Dunning-Kruger Effect. Per dirla semplice, si tratta di quella simpatica tendenza umana a sopravvalutare le proprie competenze in un campo di cui, in realtà, si sa poco o nulla. Dopo aver visto una partita (o meglio, qualche highlights e i commenti sui social), ci si sente improvvisamente esperti di tattica, capaci di spiegare perché l’allenatore ha sbagliato tutto e come avrebbe dovuto agire.
In ambito sportivo, ci sono anche studi sulla falsa percezione delle proprie abilità atletiche: una ricerca dell’Università di Chicago ha dimostrato che chi guarda sport con regolarità tende a convincersi di saperlo praticare meglio di quanto sia realmente in grado. Tradotto: il tizio che dice “quel rigore lo segnavo pure io” probabilmente ha la coordinazione di un sacco di patate.
Infine, il fenomeno si lega anche alla cultura del tifoso: il calcio non è solo uno sport, ma un'identità, una fede. E quando la propria squadra gioca, ci si sente parte attiva, anche se l’unico sforzo fisico fatto è stato prendere il telecomando dal divano.
Insomma, il mix perfetto di illusione di competenza, passione sportiva e la magia del “col senno di poi”.
Quali meccanismi sociali si attivano dopo una partita?
A livello sociale, il fenomeno degli allenatori da divano è un mix di dinamiche psicologiche e di appartenenza che si attivano automaticamente, quasi come un riflesso incondizionato.
Il calcio non è solo sport, è tribù. Sostenere una squadra è un atto identitario, una forma di appartenenza quasi viscerale. Dopo una partita, il tifoso sente il bisogno di rafforzare il legame con il gruppo, che sia il branco di amici, il bar sotto casa o la community online. Commentare la partita diventa quindi un rituale sociale, un modo per sentirsi parte di qualcosa.
Nel calcio, chi guarda da fuori ha sempre ragione. Perché? Perché non deve prendere decisioni reali. Il mister deve fare scelte in pochi secondi, con mille variabili da considerare. L'allenatore da divano, invece, parla dopo, col senno di poi, e con la calma di chi può analizzare ogni dettaglio senza pressioni. Questo crea l’illusione di essere più competenti di chi sta davvero sul campo.
Una vittoria scatena l’euforia, una sconfitta è un dramma greco. In entrambi i casi, il tifoso ha bisogno di sfogare. Se la squadra ha vinto, ecco partire gli elogi all’allenatore (che fino alla settimana prima era un incapace). Se ha perso, si cercano colpevoli: l’allenatore, l’arbitro, la pioggia, il destino cinico e baro. È lo stesso meccanismo che scatta quando discutiamo di politica al bar: più che argomentare, dobbiamo sfogare frustrazioni e sentirci parte di una fazione.
L’arena del dibattito è infinita, e chiunque può dire la sua e dire la propria opinione è quasi un obbligo, perché chi non commenta non esiste.
Dopo una partita, l’allenatore da divano seleziona solo i dettagli che confermano le sue teorie. Se da mesi dice che il centravanti è scarso e quello sbaglia un gol, ecco la prova definitiva. Se invece segna una tripletta? “Eh, ma era un caso”. Questo è il classico bias di conferma, il filtro mentale che ci fa vedere solo quello che vogliamo vedere.
E poi? Tutto si ripete. Il ciclo della vita del tifoso è semplice:
pre-partita: "Oggi vinciamo sicuro" / "Sarà dura"
durante la partita: "Dai che ce la facciamo" / "Questa squadra fa schifo"
post-partita: "Te l'avevo detto"
48 ore dopo: si resetta tutto, in attesa della prossima partita.
L'idea che ogni esperto improvvisato abbia il proprio stile e specialità viene da una dinamica tipica dei gruppi sociali e delle discussioni collettive: quando c’è un evento su cui tutti vogliono dire la loro (una partita, un fatto politico, un evento storico), si creano ruoli spontanei all’interno della conversazione.
Nel caso degli allenatori da divano, questa suddivisione segue meccanismi simili a quelli di un ecosistema sociale, in cui ogni partecipante trova il proprio spazio, rinforzando la propria identità nel dibattito.
Da dove nasce questa tendenza?
Proprio come nel calcio giocato esistono attaccanti, difensori e centrocampisti, nelle discussioni post-partita emergono spontaneamente ruoli specifici. Ognuno trova la sua “specialità” nel commentare, un po’ per attitudine personale, un po’ per desiderio di distinguersi dagli altri.
Anche chi non ha mai allenato o giocato ha bisogno di sentirsi un'autorità su un tema. E allora si specializza: chi parla di tattica, chi di arbitri, chi di mercato. Un po’ come negli uffici, dove c’è sempre quello che "ne sa" di politica, quello che "capisce di finanza" e quello che "prevede il futuro dell’economia mondiale" sulla base di due articoli letti su Facebook.
Le trasmissioni sportive hanno contribuito a rafforzare questi ruoli: c’è l’esperto di tattica, il polemico, il difensore degli arbitri, l'opinionista che urla. Il tifoso medio, assorbendo questo modello, replica gli stessi schemi nelle proprie discussioni, scegliendo inconsciamente quale "personaggio" interpretare.
Se una persona si è fissata che l’arbitro ha influenzato il campionato, ogni decisione arbitrale sarà vista come un complotto. Se un altro crede che il problema sia solo tattico, analizzerà sempre gli schemi di gioco. Ognuno si costruisce il proprio punto di vista e lo difende fino alla fine, come se fosse una missione.
In pratica, quando si parla di calcio, non si discute mai e basta: si sceglie un ruolo, ci si specializza e si entra nel gioco. Non si tratta più solo di tifare, ma di ritagliarsi il proprio spazio nella discussione, sentendosi parte di qualcosa di più grande.
Ma perché dura proprio 48 ore?
Il fenomeno degli allenatori da divano segue una dinamica temporale precisa: una sorta di finestra magica che si apre subito dopo il fischio finale e si chiude gradualmente nell’arco delle 48 ore successive. È un periodo in cui il calcio diventa l’argomento dominante, tutti si sentono tecnici e ogni dettaglio della partita viene analizzato con la stessa attenzione di un’indagine forense.
Fase 1: adrenalina (0-6 ore post-partita)
Subito dopo il fischio finale, il livello emotivo è alle stelle. Che sia vittoria o sconfitta, il tifoso è carico di adrenalina e ha bisogno di sfogarsi. I social si riempiono di post (“Partita perfetta! Grandissimi!”) o di lamentele (“Allenatore da esonero immediato!”). Questa fase è dominata dall’impulsività: si parla per istinto, senza troppa logica. Il mondo sembra diviso in due: da una parte chi esalta la squadra, dall’altra chi chiede rivoluzioni immediate. Esplodono meme, analisi tattiche e insulti all’arbitro, il tutto condito da un numero esagerato di emoji.
Fase 2: analisi (6-24 ore post-partita)
Passata l’ondata di adrenalina, arriva il momento delle teorie e delle spiegazioni. I tifosi non si limitano più a dire "Abbiamo giocato bene/male", ma si lanciano in analisi pseudo-tecniche. È in questa fase che emergono gli esperti di tattica, di regolamento e di mercato, ognuno con la propria teoria da difendere a spada tratta. Anche i giornali e i programmi sportivi alimentano il dibattito: interviste, pagelle, “le cinque cose che abbiamo imparato dalla partita”.
Fase 3: decadenza (24-48 ore post-partita)
Dopo un giorno, l’intensità della discussione inizia a calare. Le polemiche resistono solo nei casi estremi: un errore arbitrale clamoroso o un risultato inaspettato possono prolungare il dibattito, ma in generale l’attenzione si sposta altrove. Si inizia già a pensare alla prossima partita. Gli stessi tifosi che 24 ore prima chiedevano l’esonero dell’allenatore ora iniziano a convincersi che “Forse serve solo un po’ di tempo”.
Fine della finestra magica: il ciclo si chiude e si torna alla normalità. Almeno fino alla prossima partita.
Il calcio è un ciclo continuo, in cui ogni partita lascia spazio rapidamente alla successiva. Il tifoso non può permettersi di rimanere ancorato troppo a lungo a un risultato, perché presto ci sarà una nuova sfida da vivere, discutere e analizzare. Nel frattempo, le emozioni si affievoliscono: la rabbia per un rigore sbagliato o l'euforia per una vittoria memorabile tendono a dissolversi con il passare delle ore. E poi, inevitabilmente, la vita reale riprende il sopravvento. Il lunedì mattina arriva puntuale, con le sue scadenze e responsabilità, e anche il più fervente allenatore da divano è costretto a riporre momentaneamente il taccuino tattico per dedicarsi a impegni più concreti.
Quando il calcio diventa scienza esatta?
Non tutti gli allenatori da divano sono uguali. Esistono diverse categorie di esperti improvvisati, ognuna con il proprio stile e la propria specialità. Si muovono con sicurezza nei dibattiti post-partita, ognuno con la sua teoria inossidabile, pronti a difenderla con la stessa convinzione di un professore universitario in cattedra. Ecco alcuni degli esemplari più comuni che popolano bar, gruppi WhatsApp e social network:
Il tattico supremo: parla con la sicurezza di chi ha allenato in Champions League, spiegando con fare autorevole perché il 4-3-3 era una scelta folle e perché il 3-5-2 avrebbe cambiato tutto. Analizza le partite con una lavagna immaginaria e, se potesse, manderebbe schemi e formazioni direttamente all’allenatore.
L’arbitro infallibile: conosce il regolamento meglio degli arbitri stessi (o almeno così sostiene). Ogni decisione dubbia è un complotto, ogni rigore negato è un furto con destrezza. A sentirlo parlare, il VAR dovrebbe chiamare direttamente lui per un parere definitivo.
Il bomber: è quello che dice con sicurezza "quel rigore l’avrei segnato anche io", dimenticandosi che l’ultima volta che ha calciato un pallone risale alla gita scolastica in terza media. Secondo lui, il problema dei giocatori è la mancanza di "cattiveria" e "fame", anche se la sua massima attività sportiva è alzarsi dal divano per prendere le patatine.
Il veggente del mercato: sapeva già tutto: che quell’acquisto era un bidone, che il giovane della Primavera era pronto per essere titolare da mesi e che il giocatore scartato sarebbe esploso altrove. Dopo il mercato estivo, è solito ripetere frasi tipo “L’avevo detto io” con la stessa espressione di un oracolo che ha previsto l’apocalisse.
Il tifoso da stadio: lui c’era. E lo fa pesare. Ha visto tutto dal vivo, ha sentito la tensione dell’ambiente, ha vissuto le emozioni senza filtri. Per lui, chi ha guardato la partita in TV "non può capire davvero". Se la squadra ha perso, è pronto a dire "Si vedeva già dal riscaldamento che non c’erano con la testa", e se ha vinto, "Era chiaro che l’avremmo portata a casa". La sua opinione è legge, perché lui ha respirato il match in prima persona.
Ogni partita è un palcoscenico per questi personaggi, e il bello è che tutti sembrano avere la verità in tasca. Poi, dopo 48 ore, il sipario cala… fino alla prossima sfida, quando gli allenatori da divano (e da stadio) torneranno a prendere posizione, pronti a dispensare le loro sentenze.
Perché il calcio è una questione di fede e appartenenza tribale?
Ho parlato di fede e tribù perché il calcio, più che un semplice sport, è un fenomeno sociale che tocca corde profonde nell’identità delle persone. Non è solo questione di seguire una squadra, ma di far parte di qualcosa di più grande, un sistema di appartenenza che ha dinamiche molto simili a quelle delle comunità religiose e tribali.
La fede nel calcio si manifesta nel modo in cui i tifosi sostengono la propria squadra: con un senso di devozione assoluta, spesso irrazionale, che va oltre il risultato o la logica. Non si sceglie una squadra come si sceglie un film da vedere: la si vive, la si tramanda, la si difende a ogni costo, proprio come un credo religioso. Ci sono riti, canti, gesti simbolici e persino luoghi sacri, come lo stadio, che diventano parte integrante dell’esperienza.
Allo stesso tempo, la dimensione della tribù emerge nel modo in cui i tifosi si aggregano e si riconoscono tra loro. Sostenere una squadra significa entrare a far parte di un gruppo, un'identità collettiva che si oppone ad altre tribù (gli avversari). Questo senso di appartenenza spiega perché, dopo ogni partita, i tifosi si sentano in dovere di commentare, analizzare e difendere la propria squadra come se fosse una questione personale. Il dibattito sportivo non è solo un passatempo: è un modo per rafforzare il legame con la propria "tribù" e confermare la propria identità dentro di essa.
Il calcio non è solo sport, ma un'esperienza culturale profonda, fatta di emozioni, appartenenza e rituali collettivi. E come ogni fede o tribù che si rispetti, genera discussioni, divisioni, ma soprattutto una passione inesauribile.
Perché in Italia il calcio suscita più passione di altri sport?
In Italia il calcio non è solo uno sport: è una cultura, una tradizione, quasi una religione laica. Non si tratta solo di seguire una squadra, ma di ereditarla, come si fa con i valori di famiglia. A differenza di altri sport, il calcio è vissuto con un’intensità che sfida la logica: ogni sconfitta diventa un dramma, ogni vittoria una festa collettiva. È ovunque, nei discorsi quotidiani, nei bar, nelle trasmissioni sportive che riempiono ore di palinsesto televisivo. Ed è questo legame viscerale a renderlo ineguagliabile rispetto a qualsiasi altro sport.
Uno dei motivi principali è la sua diffusione capillare: da decenni il calcio è lo sport più accessibile e popolare, quello che tutti hanno giocato almeno una volta, anche solo in un cortile o in una strada. Questo lo rende immediato, comprensibile e universale, a differenza di altri sport che richiedono attrezzature specifiche o conoscenze più tecniche per essere seguiti con coinvolgimento.
C'è poi un fattore mediatico: il calcio è ovunque. Dalla TV ai giornali, dai bar ai social, la narrazione calcistica domina il dibattito sportivo quotidiano.
Infine, conta anche il fattore identitario e tribale: le squadre di calcio rappresentano città, regioni, storie di vita. Il senso di appartenenza a una squadra è qualcosa di radicato, mentre altri sport, pur avendo grandi campioni e successi, non generano lo stesso tipo di legame emotivo.
In pratica, il calcio in Italia è parte della nostra identità collettiva, qualcosa che va oltre il semplice gioco.

Alla fine, il calcio è molto più di un gioco. È emozione, appartenenza, una scusa perfetta per discutere con gli amici e sentirsi esperti anche solo per un paio di giorni. Perché ogni partita è una storia, ogni tifoso un protagonista e ogni gol un ricordo da raccontare. E così, settimana dopo settimana, il ciclo ricomincia. Sempre uguale, sempre diverso.
Allo stadio ci sono stata. Napoli, curva B. Ho visto cose che neanche nei film o nei documentari più realistici riuscirebbero a raccontare. Famiglie, amici, nemici, tutti riuniti nello stesso spazio, mossi da una passione comune ma vissuta in modi completamente diversi. Ho visto persone che conoscevo dal punto di vista lavorativo trasformarsi, reagire in modi inaspettati, abbandonare per novanta minuti ogni formalità. In curva il tempo si sospende: non esiste altro, solo la partita.
Ma ho vissuto il calcio anche da casa, circondata da tifosi, davanti a un televisore che per novanta minuti diventa uno stadio virtuale. Il contesto cambia, ma non troppo. Le dinamiche restano simili: c’è chi soffre in silenzio, chi sbraita, chi analizza ogni dettaglio come un esperto di tattica. Anche tra le mura di casa, il calcio trasforma le persone, tira fuori reazioni viscerali, accende discussioni, fa esplodere gioie improvvise o delusioni cocenti.
Il calcio visto dallo stadio ha un altro ritmo, un'altra percezione. Lì non sei solo uno spettatore, sei immerso in un contesto fatto di riti, emozioni e dinamiche che vanno oltre la partita. Ma anche fuori dallo stadio, nelle case, nei bar, nei gruppi WhatsApp, il tifo segue le sue regole, crea connessioni, accende passioni.
Questo sport, più di ogni altra cosa, è uno specchio della società. È una liturgia collettiva. Lo si vive ovunque: nello stadio o sul divano, in silenzio o urlando, da soli o con un'intera città.
David Dunning & Justin Kruger (1999) – Unskilled and Unaware of It: How Difficulties in Recognizing One’s Own Incompetence Lead to Inflated Self-Assessments. Journal of Personality and Social Psychology, Vol. 77, No. 6, pp. 1121–1134.
Il Dunning-Kruger Effect, teorizzato dagli psicologi David Dunning e Justin Kruger nel 1999, descrive un bias cognitivo per cui le persone con basse competenze in un campo tendono a sopravvalutare le proprie capacità, mentre gli esperti veri, al contrario, spesso sottovalutano la loro superiorità rispetto agli altri.
Nella loro ricerca, pubblicata nel Journal of Personality and Social Psychology, gli studiosi hanno dimostrato come chi possiede poche conoscenze in un determinato ambito non abbia nemmeno le competenze necessarie per valutare la propria incompetenza. Ed ecco spiegato perché, dopo una partita di calcio, milioni di tifosi improvvisamente si sentono esperti di tattica e strategia di gioco, sicuri di poter fare meglio dell’allenatore.
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